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Orizzonti sconfinati

A cura di Domenico Rizzi

Link dello speciale sul genere western: 1) Il tesoro del west, 2) Il trionfo della leggenda, 3) L’ascesa del western, 4) Il periodo d’oro, 5) Ombre rosa nella prateria, 6) Orizzonti sconfinati, 7) I sentieri del cinema, 8) Orizzonti sconfinati, 9) La quarta frontiera

La locandina di Shane
Gli Anni Cinquanta del Novecento videro una forte ascesa del genere western, soprattutto per merito di alcuni romanzi che il cinema seppe trasformare in grandi successi. Non a caso, nel 1956 furono distribuiti negli Stati Uniti 83 western, molti dei quali considerati film di qualità, mentre il fenomeno dei “B movies” appariva in netto regresso. A quell’epoca il genere occupava oltre il 30 per cento dell’intero mercato cinematografico, una fetta considerevole, che dal 1957 in poi si sarebbe sempre più ridotta, per attestarsi sull’11 per cento del 1967.
Una delle opere che contribuirono a tenere alto il prestigio del western nel momento della sua crescita fu senza dubbio “Shane”, tradotto in Italia come “Il cavaliere della valle solitaria”, diretto da George Stevens nel 1953 e interpretato da Alan Ladd, Jean Arthur, Van Heflin e Jack Palance. La sceneggiatura venne curata da A.B. Guthrie Jr., l’autore de “Il grande cielo”.
Come recitava la locandina della versione originale americana, “Non c’è mai stato un uomo come Shane. Non c’è mai stato un film come Shane”. L’autore del libro da cui la storia era tratta si chiamava Jack Schaefer e “Shane”, scritto nel 1949, costituiva il suo primo romanzo, che la critica aveva giudicato subito favorevolmente.
Nato a Cleveland, Ohio, nel 1907 e diplomato al prestigioso Oberlin College, Schaefer frequentò anche la Columbia University, senza peraltro conseguire la laurea in arte. Successivamente si trasferì nel Connecticut ed infine a Santa Fè, nel New Mexico, per vivere nel cuore del vecchio West. Dopo “Shane”, che resterà sempre il suo cavallo di battaglia, lo scrittore proseguì con una fitta produzione, che si diversificava fra romanzi e raccolte di racconti. Nel 1953 mandò in stampa “First Blood”, “The Canyon” e la raccolta “The Big Range”; in seguito pubblicherà “The Pioneers” (racconti, 1954) “Company of Cowards” (1957) “Tales from the West (racconti, 1961) “Incident of the Trails” (’62) e I libri per ragazzi “New Mexico” (’57) “The Plainsmen” (’63) e “Mavericks” (’67). Dal racconto “Monte Walsh”, del 1963, verrà tratto nel 1970 l’omonimo film di William A. Fraker, interpretato da Lee Marvin, Jeanne Moreau e Jack Palance. Fra i racconti di maggiore evidenza apparsi anche in Italia, vi è “Storia di una vendetta”, pubblicata nel prezioso volume “Il tesoro del West” di Piero Pieroni nel 1960.
Il libro “Monte Walsh”
“Shane” si può considerare uno dei romanzi più celebrativi del “cavaliere solitario”, cioè di una tipologia di eroe – già peraltro esistente nel cinema degli Anni Venti, quando imperversavano Tom Mix e William S. Hart – del quale non si conosce la provenienza ed il cui passato si può soltanto intuire. Animato da nobili principi, si scontra inevitabilmente con i prepotenti e i disonesti, attirandosi le simpatie della gente comune e l’amore di una donna, per poi scomparire nuovamente nel nulla da cui è arrivato. Si tratta di una figura emblematica nel variegato panorama del West: è l’uomo che ripara i torti e castiga i malvagi, dissolvendosi spesso senza lasciare traccia. A volte “il suo personaggio dal passato oscuro o negativo riguadagna dignità con un gesto eroico”.
La sua comparsa accentua il fascino di una terra misteriosa ed in gran parte inesplorata che costituisce il proscenio ideale per le storie d’avventura. I suoi protagonisti appaiono a volte come fantasmi sbucati da un’altra dimensione, alla stregua degli Apache di “Ombre rosse” e dei Comanche di “Sentieri selvaggi” di John Ford.
Questo clichè verrà ripreso da altri autori in seguito ed esasperato dal cinema (la “trilogia del dollaro” di Sergio Leone, “Lo straniero senza nome” e “Il cavaliere pallido”, entrambi diretti e interpretati da Clint Eastwood, nei quali l’apparizione del misterioso vendicatore partorito dall’ignoto assume contorni surreali) che tre anni dopo impone la figura di Ethan Edwards, nei panni di John Wayne, sotto la magistrale regia di John Ford.
Il film si intitolava “The Searchers”, ma in Europa venne distribuito con titoli diversi quanto suggestivi: in Francia si chiamò “La prisonniere du desert”, che richiamava i film già in voga sulla Legione Straniera. In Italia diventò “Sentieri selvaggi” e pur non avendo ottenuto una grande accoglienza alla sua prima distribuzione, sarebbe stato consacrato in seguito come il miglior film western di tutti i tempi ed “una della più grandi pellicole mai realizzate dal cinema americano”. (Martin Scorsese).
Va tuttavia precisato che il lavoro di Ford si diversifica parecchio dal romanzo da cui venne tratto, opera di Alan Le May.
The Searchers
I tratti che lo differenziano sono molteplici e spesso vengono sapientemente attuati dalla mano di Frank S. Nugent, che ne stese lo screenplay. Il personaggio ideato da Le May, che John Wayne interpreterà sullo schermo come il cavaliere errante Ethan Edwards, si chiama Amos Edwards ed è reduce da due sconfitte cocenti: la guerra di secessione, combattuta dalla parte dei Sudisti perdenti e la rivoluzione messicana di Benito Juarez, nella quale il protagonista ha servito Massimiliano d’Asburgo, fucilato alla fine dai juaristi. La terza batosta della sua vita – che probabilmente è la quarta, se è vero che la cognata Martha avrebbe dovuto diventare sua moglie – è la distruzione della sua famiglia da parte dei Comanche del capo Scar (“Cicatrice”) che gli rapiscono le nipoti Lucy, già adulta e Debbie ancora bambina.
Tanto il romanzo quanto il film sono basati sulla disperata ricerca che Amos-Ethan compie infaticabilmente delle due ragazze. Se la sorte della prima non lascia alcuna speranza – “le donne bianche adulte venivano violentate ripetutamente a turno da ciascuno dei rapitori fino a che non morivano e se sopravvivevano venivano “buttate vie” e lasciate a spegnersi nella prateria” – l’angoscia per Debbie cresce di giorno in giorno, perché la bambina si sta facendo donna e il suo infelice destino sarà di diventare una squaw.
L’inseguimento è affannoso, attraverso pianure assolate e colline innevate, con il tempo che gioca tutto a favore degli Indiani, ma sperare di raggiungere facilmente i Comanche è un’impresa alquanto ardua, perché, scrive Le May, “in guerra nessuna banda indiana rallentava l’andatura per occuparsi dei moribondi. Si sapeva di squaw che avevano partorito sulla groppa di un pony durante le marce di spostamento, con nessuno che le aspettasse o desse loro un aiuto…”
Quando Amos scopre che Lucy è stata uccisa, il suo unico scopo diventa quello di scovare Debbie, animato soltanto dal proposito di sopprimerla per evitarle di diventare la moglie di un Indiano. Suo nipote, Martin Pawley, un ragazzo adottato, segue Amos per impedirgli di attuare il crudele intento nel momento in cui la ragazza verrà ritrovata.
La conclusione del film prende nettamente le distanze dal romanzo di Le May, senza tuttavia travisarne lo spirito e le finalità.
Dopo che soldati e Rangers hanno assalito l’accampamento di Scar, Ethan incontra la nipote, ma anziché ucciderla, la prende teneramente in braccio, sussurrandole: “Andiamo a casa, Debbie”. Amos viene invece ucciso durante l’attacco al villaggio dei Comanche, da una squaw che aveva scambiato per la nipote. Forse il finale di Ford ha conferito alla vicenda un’atmosfera più romantica, ma soprattutto, salvando il suo eroe, lo ha consegnato alla leggenda, con una memorabile uscita di scena del bonario Wayne.
Amos Edwards è morto provvidenzialmente al momento giusto, senza riuscire a commettere un crimine; Ethan varca la soglia di casa, allontanandosi a passi lenti nella polvere della prateria, forse proiettato di nuovo verso l’ignoto: il cavaliere solitario sopravvive, la sua figura diventa un mito.
La cover di “The Unforgiven”
Ancora improntato alle tematiche razziali il successivo romanzo di Le May, “The Unforgiven” (1955) pubblicato in Italia nel 1983 con il titolo “Gli Indomabili”, dopo che il regista John Huston ne aveva ricavato un ottimo film nel 1960 (“Gli Inesorabili”) con Burt Lancaster (Ben Zachary) e l’attrice belga Audrey Hepburn (Rachel). Anche questo libro prende l’avvio da una fattoria isolata, nella vallata del Fiume Rosso, nel Texas, una “casa di fango che sorgeva in un declivio costeggiante la riva, qualche miglio prima che l’erba venisse gradatamente assorbita dal greto sassoso…In questa specie di buca del terreno, nel tardo pomeriggio del 15 marzo 1874, una ragazza di diciassette anni, nera di capelli, si disponeva a mettere al fuoco la cena. Si chiamava Rachel Zachary.” L’uomo di cui ella sta aspettando con ansia il ritorno è Ben Zachary, il “fratello” maggiore di cui è forse è segretamente invaghita. “Ben aveva ventiquattro anni, abbastanza anziano perché ad una diciassettenne potesse sembrare nel pieno della maturità. Si era messo a capo della famiglia a vent’anni, quando aveva perduto suo padre nel lontano Nord, travolto da una piena durante il guado del bestiame. Ben era il pilastro cui tutti gli altri si appoggiavano, in ogni situazione incerta.”
In realtà Rachel non è sorella di Ben e non appartiene neppure alla stessa razza. Il segreto custodito gelosamente dalla madre Matilda e conosciuto da un misterioso vagabondo di nome Abe Kelsey è che la bambina, appartenente alla tribù dei Kiowa, è stata adottata in circostanze drammatiche molti anni prima. Quando il mistero viene finalmente svelato, alla fine del libro, Ben Zachary getta nel fuoco la pergamena su cui i Kiowa hanno scritto la storia dell’origine di Rachel. Nel film, invece, dopo la disperata battaglia contro i Kiowa, tutto lascia supporre che il protagonista sposerà la ragazza.
I due romanzi sollevano una questione molto sentita dalla gente del West, ma poco trattata dal cinema, a parte un successivo film di Ford (“Cavalcarono insieme”, 1961) e qualche altra discreta pellicola (“Stella di fuoco” di Don Siegel, girato nel 1960 con il cantante Elvis Presley e Dolores Del Rio). Le May pone sullo stesso piano il dramma delle bianche catturate dagli Indiani e quello delle donne pellirosse adottate o rapite alla loro tribù di origine. Molti anni dopo il revisionismo cinematografico tornerà sullo stesso tema, ma senza possedere la lucidità di Ford, Huston e Siegel.
Stella Di Fuoco, del 1960
Le May, scomparso prematuramente nel 1964, fu autore di altri libri – fra i quali “The Bells of San Juan”, “Cattle Kingdom”, “Spanish Crossing”,“Painted Ponies”, “Gunsight Trail” – ma “The Searchers” e “The Unforgiven” rimangono le sue opere principali, quelle per cui gli appassionati lo ricordano come grande autore western.
Il panorama degli scrittori che celebrarono la leggenda del West è sconfinato quanto gli orizzonti della terra che gli Americani andavano a colonizzare nel secolo diciannovesimo. Scartando l’idea di riuscire a menzionarli tutti, ci si può soltanto soffermare su alcuni di essi, che, per la popolarità acquisita o il contributo dato alle opere cinematografiche di diffusione mondiale, occuparono un posto di rilievo. Fra questi, in particolare, Louis L’Amour, Will Cook, Gordon Shirreffs, Will Henry, Fred Grove, Lewis B. Patten, e Forrest Carter.
Per parlare di Louis L’Amour, basta dare un’occhiata alle statistiche che lo riguardano, a conferma di una produzione letteraria immensa e di una continuità non comuni. Questo autore, nel corso della sua carriera letteraria, ha pubblicato infatti 116 romanzi, molti dei quali tradotti in 20 lingue; le copie stampate dei suoi libri ammontano a 260 milioni, mentre film e telefilm derivati dalle sue opere sono una cinquantina. Nel 1969 la Western Writers Association lo ha premiato con lo “Spur Award” e nel 1980 ha festeggiato la centomilionesima copia dei suoi romanzi. Nel 1983 il Congresso degli Stati Uniti gli ha inoltre conferito la Medaglia d’Oro, consegnatagli personalmente dal presidente Ronald Reagan, seguita un anno dopo dalla Medaglia Presidenziale della Libertà. Anche gli Indiani hanno attribuito all’autore un segno tangibile della loro ammirazione: nel 1978 L’Amour ha ottenuto dagli Ute il Gran Sigillo della tribù, un omaggio ancora più significativo se si pensa che il nonno dell’autore venne scotennato dai Sioux!
Louis L’Amour in un ritratto giovanile
Nato a Jamestown, North Dakota, il 22 marzo 1908 come Louis Dearborn LaMoure, di lontanissima origine franco-irlandese – pare sia un discendente di Francois Renè, visconte di Chateaubriand, uomo di stato e scrittore – la sua famiglia era presente nel Nord America dal XVII secolo. Ultimo di sette figli, quando i genitori e fratelli si trasferirono nel Sud-Ovest, il giovane partì in cerca di avventure, iniziando una vita vagabonda nelle stazioni della linea ferroviaria Southern Pacific e facendo lavori saltuari. Nel Texas svolse per qualche tempo l’attività di scuoiatore di bestiame, ma poi, attratto dalla boxe, si cimentò come pugile a mani nude in diverse località del Sud, per arruolarsi infine come mozzo su una nave diretta ai Caraibi. Nonostante il naufragio, da cui si salvò insieme ad alcuni compagni, L’Amour insistette con l’esperienza marinara, raggiungendo il porto di Liverpool per poi imbarcarsi un numero imprecisato di volte. Per quindici anni il giovane avrebbe girato il mondo a bordo di navi mercantili, imparando tutto sulla dura esistenza di bordo. Le sue opere “Yonderings” e “Education of a Wandering Man”, pubblicate rispettivamente nel 1980 e 1989, si riferiscono a queste indimenticabili traversie che avevano temprato il suo carattere inquieto. Arruolatosi nell’esercito a Fort Sill, lo scrittore conobbe da vicino anche la guerra, essendo inviato in Europa con il grado di tenente addetto ai rifornimenti di aerei e carri armati. Terminato il conflitto, L’Amour decise di dedicarsi a tempo pieno alla sua attività letteraria.
Tex Burns, uno pseudonimo
Servendosi dello pseudonimo di Tex Burns, fu il continuatore, per un certo periodo, dell’opera di Clarence E. Mulford (1883-1956) creatore del personaggio di Hopalong Cassidy fin dal 1904. Mulford aveva dedicato alla propria creatura una serie di 30 romanzi, mentre il cinema ne aveva ricavato un numero ancora maggiore di pellicole, affidando per 13 anni – dal 1935 al 1948 – la parte di Cassidy all’attore William Boyd. L’Amour aggiunse altri 4 romanzi alla saga, che era proseguita come serie televisiva dall’inizio degli Anni Cinquanta, prima di passare ad altri personaggi di propria ideazione.
Anche con il nome artistico di Jim Mayo, lo scrittore riuscì a sfornare racconti in rapida successione, trovando sempre le riviste disposte a pubblicarglieli, ma nel 1953, quando aveva ormai quarantacinque anni, mise a segno la sua prima opera in volume, dal titolo “Hondo”. E’ la storia di un eroe solitario – Hondo Lane – che il cinema si affretterà a portare sugli schermi nel 1954, con la regia di John Farrow e l’interpretazione di John Wayne, Geraldine Page e Ward Bond. In un primo tempo era apparso sulla rivista “Collier’s” come racconto breve dal titolo “The Gift of Cochise” ed era stato proprio Wayne ad esserne colpito. Nonostante la presenza del “Duca”, il film risultò un “B movie”, ma a L’Amour il romanzo aveva dato celebrità e soprattutto voglia di continuare a scrivere.
Due anni dopo uscì un altro film ricavato da un suo lavoro – “Le colline bruciano”, diretto da Stuart Heisler e sceneggiato da Irving Wallace, con Tab Hunter e Natalie Wood (interprete della ragazza “Debbie” in “Sentieri selvaggi”). Poi seguì “The Tall Stranger” di Thomas Carr (1957) con un altro cast di tutto rispetto (Joel Mc Crea e Virginia Mayo) mentre “Hondo” diventava serie televisiva in 17 episodi ed anche personaggio dei fumetti.
Nel 1968 anche il romanzo “Shalako”, pubblicato come “paperback” per la Bantam Books nel 1962, diventò un film diretto da Edward Dmytryk, con gli attori Sean Connery e Brigitte Bardot. Il cinema però finì per adattare le opere di L’Amour alla tendenza dominante del momento, che era quella del western all’italiana, ricco di suspense e azione, quanto a volte distante dalla genuina atmosfera della Frontiera. Nel 1969 lo scrittore navigava ormai alla grande sull’oceano del western, conquistandosi lo “sperone d’oro” dalla Western Writers Association per il romanzo “Down the Long Hills”, che non sarebbe stato certo l’ultimo riconoscimento consegnato al prolifico narratore.
Down The Long Hills
Nel 1970 fu la volta di “Catlow”, con la regia di Sam Wanamaker, che si avvalse della lavorazione di Yul Brynner, Richard Crenna e Daliah Lavi. E’ l’epoca dei western all’italiana ed all’ambientazione spagnola il film aggiunse le tematiche più classiche di tale genere, definito ormai universalmente “spaghetti”.
A L’Amour si devono anche i numerosi romanzi dedicati alla famiglia Sackett (il primo, “Sackett”, edito nel 1961) pubblicati in Italia – molti nei volumetti ad uscita quindicinale e quattordicinale delle Edizioni Longanesi & C. e La Frontiera – che negli USA diedero origine ad un film per la TV, intitolato appunto “The Sacketts”. Proprio la televisione, che stava conquistando un pubblico sempre più vasto, diede grande risalto alle opere dello scrittore, ricavando trame da “The Shadow Riders” (film diretto da Andrew V. Mc Laglen nel 1982, con Tom Selleck) “Down the Long Hills” (1986) e “The Quick and the Dead” (1986) da un romanzo pubblicato nel 1973. Sempre in Italia uscirono anche i volumi “A Ovest di Dodge City”, raccolta di racconti, “Verso la Pista dell’Oregon”, “Assedio a Papago Wells” e molti altri.
Louis L’Amour si spense il 10 giugno 1988, all’età di 80 anni, lasciando una quantità notevole di opere inedite, che il figlio Beau si è incaricato di recuperare e pubblicare. Particolare curioso è che lo scrittore aveva anche coltivato il progetto di fondare una “western town”, battezzata appunto “Shalako” come uno dei suoi più celebri romanzi, al confine di quattro Stati: Utah, Arizona, New Mexico e Colorado. La cittadina, concepita con la finalità di ospitare la lavorazione di film western, avrebbe dovuto arricchirsi di negozi, saloon, botteghe da barbiere ed altre strutture caratteristiche del mondo narrato da L’Amour, ma il declino del genere ed una serie di altri motivi ne impedirono la realizzazione.
Anche Fred Grove, nato in Oklahoma nel 1913, è uno scrittore con la Frontiera nel sangue, nel senso letterale del termine. Infatti nacque dal matrimonio di un cow-boy del Kansas e di una donna della tribù degli Osage, originaria della riserva sioux di Pine Ridge, nel South Dakota. Inoltre suo bisnonno aveva guidato verso occidente una carovana di cui faceva parte Francis Parkman, storico e scrittore, autore del celeberrimo libro “The Oregon Trail” nel 1847. Laureato in giornalismo all’Università dell’Oklahoma, Grove manifestò una spiccata predilezione per il genere western, che gli fece ottenere l’”Owen Wister Award” nel 1963 e per ben 5 volte il prestigioso premio “Spur Award”.
The Oregon Trail
Fra i suoi racconti più efficaci, meritano una menzione speciale “Comanche Captives” e “Comanche Woman”, premiati rispettivamente nel 1961 e 1962, due opere fra le più toccanti ed attendibili sulla difficile condizione dei prigionieri assimilati dagli Indiani.
Noel M. Loomis appartiene a quella categoria di autori, che ebbero la fortuna di respirare la calda atmosfera del West fin dalla nascita. Infatti è originario dell’Oklahoma, dove venne al mondo nel 1905. Benchè la sua vita non sia stata molto lunga (è morto nel 1969) Loomis ha lasciato parecchi romanzi e racconti – molti dei quali tradotti e conosciuti anche ai lettori italiani – “North to Texas”, “The Maricopa Trail”, “Above Palo Duro”, “Bonanza”, “The Buscadero”, “Hang the Men High”. Loomis vinse lo Sperone d’Oro nel 1968 con il bellissimo racconto “Grandfather out of the Past” edito nel nostro paese nella collana “Speroni d’oro” di Longanesi & C. nel 1976, con il titolo “Nonno che viene dal passato”.
Molto lunga la serie di western di Lewis Byford Patten (1915-1981) autore di romanzi spesso a sfondo storico – come “L’ultima difesa di Custer” e “Settimo Cavalleggeri”, per citarli con i loro titoli italiani – e di appassionati racconti ambientati nel più classico dei contesti western, quali “Sulle tracce di Apache Kid”, “Rinnegata”, “Imboscata sul Soda Creek” e “Incidente a Broken Butte”. Patten, che era di Denver, Colorado, è un altro degli autori che ha avuto i natali nel West, come L’Amour, Will Henry e Oakley Hall. Alla immensa passione che animava le sue storie, potè aggiungere la conoscenza diretta dei luoghi in cui era vissuto.
Insieme a Patten, Wayne D. Overholser (1906-1996) scrisse “The Meeker Massacre”, basato sull’insurrezione degli Ute nel 1879 e premiato con lo “Spur Award” nel 1969, ma ottenne lo stesso premio anche con “Law Man” e “The Violent Land” nel 1953 e 1954. La sua produzione è molto ricca – una cinquantina di romanzi – fra i quali, oltre a quelli citati, “North to Deadwood”, “Tomahawk” e “Valley of Guns”.
David Morrell, canadese dell’Ontario nato nel 1943, docente di lingua inglese all’Università dello Iowa, è famoso per il romanzo “First Blood” (1972) dal quale è tratta la vicenda cinematografica di Rambo, portata sullo schermo dal regista Ted Kotcheff nel 1982 e interpretata da Sylvester Stallone .“Last Reveille” (1977) tradotto letteralmente in Italia come “L’ultimo risveglio”, è invece un western crepuscolare di pregevole fattura, ambientato in Messico nel 1916, appena dopo l’incursione di Pancho Villa a Columbus.
L’Ultimo Risveglio, di Morrell
In questo romanzo la figura dell’anziano esploratore Miles Calendar, che mette la propria lunga esperienza al servizio del giovane soldato Prentice, sembra preludere al malinconico passaggio di consegne fra due generazioni. Il West tradizionale è ormai in declino, la cavalleria ha smesso le uniformi blu che l’hanno resa celebre, adottando la divisa color caki; il generale John “Black Jack” Pershing si prepara ad intervenire in Europa contro la Germania del Kaiser. Un aereo sorvola le truppe americane dirette nel Messico per punire i ribelli.
L’immagine finale del romanzo ritrae il vecchio scout impegnato nella sua ultima battaglia: “Gli uomini di Villa piegarono verso una collinetta e scomparvero dietro di essa; il vecchio continuò ad inseguirli, sembrava un puntino solitario contro il sole di mezzogiorno, superò anche lui la collinetta, per un momento il suo profilo si stagliò netto sulla cima, poi scomparve.”
La sua figura segnata da cento battaglie è ciò che rimane di un’epopea i cui contorni cominciano a sbiadire nel tempo.