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I peccati di Dunfield

La Vecchia Frontiera americana di fine Seicento, i Francesi che minacciano un villaggio della Connecticut Valley nel Massachussets, due bambine indiavolate di Salem che lanciano accuse di stregoneria, provocando l’arresto di molte persone… In un altro villaggio, un giovane coraggioso, al comando della milizia in lotta contro gli Indiani alleati dei Francesi, è costretto a difendersi dalla malvagità della propria gente, che ha mandato sul patibolo una ragazza incolpevole.
Era l’avvincente trama di “Le streghe di Dunfield”, romanzo pubblicato da Domenico Rizzi nel 2007. E’ ora uscito il seguito, dal titolo “I peccati di Dunfield”, che costituisce il secondo volume di una trilogia ancora incompiuta. Quali altre sorprese contiene il nuovo romanzo, dopo avere scoperto i segreti di un perfido pastore puritano e svelato la vera identità di Liza Plummer? Che cosa riserverà il prosieguo della storia al tenente francese De La Forge e al capo abenaki Opanango?
Chi contrasterà ancora Nathan Whitman, l’intrepido capitano della piccola colonia del New England?
Ce lo racconta l’autore in questa intervista.
Domanda Quali sono le novità del nuovo romanzo?
Risposta Soprattutto le donne. In questo libro sono almeno due le protagoniste dell’azione, ma una rimane nell’ombra fino all’ultimo e il lettore non scoprirà la sua vera identità fino ai capitoli conclusivi, perché la sua origine è al di là di ogni immaginazione.

D. E l’altra donna?
R. Beh, quella è già conosciuta: Hester Bligh, la figlia del peggior nemico di Nathan Whitman. La sua figura compare un po’ di sfuggita nel primo libro, come una delle ragazze coinvolte nel “sabba” del bosco di Stony Oak, che ha causato il processo-farsa e la condanna di Lucretia Flanders e della schiava Tulla. Comunque, la vicenda delle streghe è tutt’altro che esaurita.

D. Quale delle due arrecherà il maggior danno al protagonista?
R. Questo lo lascio giudicare ai lettori, perché dipende dai punti di vista. Sicuramente entrambe lo danneggiano, ma contribuiscono anche alla sua redenzione.

D. Nel secondo libro ritornano De La Forge, l’ufficiale francese catturato da Whitman e il capo indiano Opanango. Per così dire, i “cattivi”, che però non sembrano malvagi fino in fondo…Si scopre addirittura una certa ammirazione dell’autore verso questi due personaggi.
R. Io ho una concezione della storia che rifugge da ogni valutazione manicheistica. Ho lasciato intendere come la penso in molti dei miei libri e negli articoli pubblicati su Farwest durante questi anni. Forse condivido l’affermazione dello scout Mc Intosh, l’indimenticabile Burt Lancaster di “Nessuna pietà per Ulzana”: la ragione non è mai da una sola parte.

D. Infatti sembrerebbe che nessuno dei contendenti abbia completamente ragione.
R. Precisamente. Il colonnello Lassalle e De La Forge combattono la loro guerra, Opanango ne combatte un’altra. Anche gli Abenaki hanno le loro motivazioni, come ce le hanno i Mohawk di Steyawa, che appoggiano gli Inglesi. Esaminate obiettivamente, sono tutte ragioni sacrosante. Le scelte, di solito, le fanno i vincitori.

D. Veniamo agli altri personaggi: Roger Dickinson, il braccio destro di Nathan, rivela una natura sanguinaria e spietata… L’eccentrico pittore Faulkner si mette addirittura a sfidare i Puritani di Dunfield, difendendo le vittime di Salem impiccate ingiustamente. Non è esagerato per un’epoca in cui la gente viveva nella paura?
R. Vi erano persone che si ribellavano alle convenzioni sociali, come Hester nel romanzo “La lettera scarlatta” di Hawthorne. Persone che non accettavano le inique imposizioni del sistema. Che diamine, le rivoluzioni le hanno fatte anche allora! La trilogia di Dunfield è basata su una rigorosa documentazione del tempo in cui si svolge, riflettendo il costume e i comportamenti di quell’epoca. L’opinione di Faulkner venne espressa anche da illustri personalità storiche, come il matematico John Brattle e il teologo Encrease Mather, che addirittura attaccò suo figlio Cotton per la miope intransigenza dimostrata nei riguardi dei condannati di Salem. Teniamo conto che da questa gente, inglese di origine ma nata sul suolo americano, sarebbe discesa la generazione destinata a proclamare l’indipendenza degli Stati Uniti che, come sappiamo, si ispirava all’illuminismo. Quanto a Dickinson, è un mercenario che conosce soltanto il mestiere delle armi e proviene da una famiglia di soldati di ventura, dai tempi di Pocahontas e John Smith. E’ spietato verso i nemici, quanto fedele al proprio comandante, che ammira svisceratamente. Praticamente ragiona come gli Indiani che ha sempre combattuto e sappiamo quale valore attribuissero i Pellirosse al coraggio e alla parola data. A differenza, mi preme sottolinearlo, di molti Bianchi.

D. In questa tua seconda opera la stregoneria assume un’impronta più marcata, diventa reale, a differenza del primo libro, nel quale viene vista come superstizione di gente ignorante o indottrinata.
R. In “Le streghe di Dunfield” puritanesimo e magia sono osservati come due aspetti negativi di una società repressa. Per questo ho riportato fra le citazioni iniziali quella della giornalista inglese Frances Hill, autrice dell’ottimo libro “Le streghe bambine di Salem”. La caccia alle streghe, storicamente non è mai terminata, ma si è riprodotta sotto varie forme, più “civili” ma non meno pericolose. Il maccartismo degli Anni Cinquanta ne è stato, per certi versi, una riedizione moderna, ma la psicosi del “dagli all’untore!” continua a condizionare la nostra società attuale. Quanto alla presenza “tangibile” della stregoneria nel mio romanzo, è dimostrato che gli schiavi africani importati dai Caraibi, come la vecchia Maude, usassero queste pratiche. Erano una forma di difesa contro gli abusi dei loro padroni bianchi, anche perché il dio dei Puritani non sembrava proprio dalla parte dei diseredati. Quanto agli effetti… siamo proprio sicuri che non ne avessero alcuno?

D. Non è una contraddizione? Se davvero esisteva la possibilità concreta di arrecare maleficio con la magia, le condanne di Salem possono trovare una legittimazione storica.
R. La mia è chiaramente una provocazione. A Salem Village 20 sventurati furono condannati a morte senza alcuna prova e la stregoneria non c’entrava nulla. Fu soltanto un appiglio a cui si aggrappò un paese che viveva in un clima di isteria collettiva, come scrive la Hill nel suo libro o come lascia intendere Kathleen Kent ne “La figlia dell’eretica”. Ricordiamoci che la gente del New England, grazie all’opera di predicatori folli come Cotton Mather, attribuiva al demonio qualunque sciagura, come la guerra contro i Francesi, le incursioni indiane, le carestie e le epidemie.

D. Il finale del libro, magia o no, è quasi improntato ad una morale manzoniana: i buoni hanno la giusta ricompensa e i cattivi il castigo.
R. E’ discutibile che Hester e l’altra donna siano le “cattive”. Non ci sono buoni o cattivi nel mio libro, come non esistono premi, né punizioni finali. Preferisco pensare, per certi avvenimenti descritti nel testo, ad un bilanciamento delle situazioni. Comunque, se proprio vogliamo dare una connotazione morale, le persone di buona volontà riescono sempre ad andare avanti, come dimostra il progresso dell’umanità in tutti questi secoli.

D. Potresti tracciare un profilo del tuo protagonista principale?
R. Alto e aitante, aperto e sincero. Coraggioso, leale, molto impulsivo, incline alla trasgressione. Non è razzista, non è mai vendicativo, anche quando giura di esserlo, perché è fondamentalmente buono. Molto sensibile alle grazie femminili, detesta gli pseudo-moralisti e le persone arroganti come il maggiore Heywood, il comandante inglese della guarnigione di Dunfield. Ha un grande rispetto dei suoi nemici, soprattutto del capo indiano Opanango. Insomma, un eroe della Frontiera ante litteram, come lo saranno molti anni dopo Daniel Boone, Davy Crockett e Kit Carson. Nessuno di loro si poteva definire uno stinco di Santo, eppure furono grandi uomini. E’ questa gente avventurosa ed anticonformista, più dei politici e degli affaristi delle grandi città, che ha costruito la vera America. Sono i pionieri, le persone semplici che hanno sofferto, versando sudore e lacrime sulle terre conquistate. E’ questa l’America che io amo veramente.

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Autore: Domenico Rizzi
Editore: Fabrizio Filios Editore
Collana: Bianco & nero
Pagine: 272
Rilegatura: Brossura leggera
Prezzo: 13,00 €