La frontiera delle “città del miraggio”
A cura di Renato Genovese
L’Hotel Empire, definito pomposamente “uno dei migliori alberghi di tutta l’alta California”, non era altro che una baracca due piani, costruita con grosse tavole di legno con il tetto coperto da un semplice telone.
Ma aveva ben tre finestre a vetri che si affacciavano sulla “main street”, la polverosa strada principale della cittadina mineraria di Rich Bar, e questo dettaglio veniva considerato dei ricercatori del luogo come il massimo della sciccheria. L’interno, poi, secondo il metro di giudizio di quegli uomini rudi e senza pretese, che passavano le loro giornata a scandagliare il fondo del fiume Feather per ricavare qualche oncia di polvere d’oro, era ancora più lussuoso: a parte l’angolo adibito a magazzino (con padelle, lardo, palle, piccoli, sacchi di patate, barili di sottaceti e merce di tutti i generi ammonticchiata alla rinfusa di qua e di là), e trascurando le latrine a cielo aperto poste sul retro della costruzione, tutto il resto dell’hotel era foderato di quella orribile stoffa rossa damascata così diffusa nei più rinomati bordelli dell’epoca.
Roba fine per stomaci forti, insomma. Quando arrivo a Rich Bar, nel 1851, Louise Amelia Knapp Smith Clappe (che, per brevità, si faceva chiamare “Dame Shirley”) non si mostrò del tutto entusiasta di quella angusta stanza d’albergo che fu la sua prima dimora in paese: i suoi occhi di disincantata signora di buona famiglia non si lasciarono abbindolare dalle tre finestre dai vetri polverosi né da quei pochi metri di tappezzeria buon mercato, ma il suo ruolo di gentile consorte di uno dei pochi dottori della zona la costrinse ben presto a far buon viso a cattiva sorte.
La famosa Dame Shirley
Così, armata di santa pazienza, ma soprattutto di carta e penna, si adattò a condividere la vita faticosa e febbrile dei cercatori d’oro, registrando per i posteri (attraverso le innumerevoli lettere indirizzate alla sorella) la cronaca colorita e fedele della vita di quella città sorta dal nulla poco meno di un anno prima, arricchendola delle descrizioni appassionate e realistiche di quello stravagante campionario di varia umanità che erano i suoi provvisori abitanti. La città era del tutto simile alle tante altre cresciute intorno ai fiumi dell’oro e alle miniere d’argento un po’ in tutto l’ovest degli Stati Uniti, dalla California al Montana, dal Colorado al New Mexico: se dai diamanti non nasce niente e dal letame nascono i fiori, dalle sabbie aurifere nascevano città, un mucchio disordinato di abitazioni usa e getta edificate in tutta fretta dei ricercatori attratti dal miraggio di una rapida facile ricchezza.
Bastava, infatti, che si spargesse la voce della scoperta di un nuovo giacimento che subito, a volte nell’arco di una sola notte, là dove c’era l’erba germogliava e prospettava una “instant town”, una città istantanea che presto brulicava di cercatori, avventurieri, bestie da soma, strozzini, creduloni idealisti e semplici rifiuti della società, tutta gente data per dispersa dal mondo civile che cercava una via di uscita dallo squallore e dalle miserie della vita quotidiana attraverso quella rischiosa scorciatoia dell’esistenza che passava per il greto sassoso di un fiume o nella galleria pericolante di una miniera.

La classica boom town della frontiera
A volte, quei campi minerari erano destinati a trasformarsi in vere e proprie metropoli o in popolose cittadine industriali, come Denver, Virginia City, Cripple Creek, Helena, Leadville o Silver Creek. Ma il più delle volte, quelle terre promesse, quelle città figlie del boom della corsa all’oro, al rame, all’argento, ai giacimenti di quarzo, non si rivelavano altro che un pugno di sgangherate baracche edificate in tutta fretta con sconnesse assi di legno o di tende tirate su alla meglio come ripari di fortuna contro la pioggia, il sole battente o l’umidità della notte, e i loro improbabili nomi stavano a proclamarne tutta la loro precarietà: “Ultima Speranza”, “Gola dell’Assassino”, “Delirium Tremens”, “Piana dei Biscazzieri”, “Scommetti”, “Miniera del Whisky”, e chi più ne ha più ne metta!
Qui, armati di padelle picconi, tormentati da un clima spesso brutale, immersi nell’acqua fino alle cosce o sprofondati in miniera per 12 ore al giorno, i cercatori imparavano a loro spese che le “mine towns”, le città delle miniere, non brillavano certo per garantire a tutti pari opportunità e che il loro sogno di ricchezza a buon mercato era destinato spesso a trasformarsi in un’effimera chimera, visto che non è tutto oro quel che luccica.

Virginia City nel 1866
La dura legge della selezione naturale si abbatteva sui più deboli, sui meno tenaci, sui più vulnerabili alle delusioni e alle contrarietà, insomma su tutti coloro che il calcolo delle probabilità collocava inesorabilmente dalla parte dello zero; ad arricchirsi erano in pochi, e non sempre quelli giusti.
Molto spesso a prevalere erano i più violenti, gli uomini senza scrupoli, i più furbi e i più calcolatori, quelli che sapevano trovare il modo di portare la fortuna dalla loro parte; e se essa si rifiutava di baciare spontaneamente questi spietati boss di frontiera, magari assegnando loro dei buoni “claims”, cioè delle concessioni redditizie, ci pensavano le colt, i fucili e le spranghe dei loro tirapiedi a costringere la riluttante dea bendata a sporcare di rossetto le loro ispide guance. Erano uomini che con la forza riuscirono a costruire dei piccoli imperi, delle mini-repubbliche fondate sul lavoro degli altri e sullo sfruttamento indiscriminato e disumano delle risorse umane, piccoli ras che spadroneggiavano nelle loro precarie capitali di tela e legno, approfittando della paura o dell’indifferenza dei cercatori, le cui energie venivano tutte assorbite dalla incessante e febbrile ricerca. Ma neanche i soprusi dei padroni del “instant towns” potevano contrastare la forza del destino.

Cercatori d’oro impegnati nella ricerca
Se un filone si esauriva, se una vena si inaridiva, in pochi giorni, quelle città così affollate e febbrili si svuotavano come per magia di tutti loro rumorosissimi abitanti, quasi fossero state colpite da un’improvvisa maledizione o da una micidiale pestilenza: di colpo si spegneva l’eco di picconi dei minatori, tacevano le voci dei saloon e moriva il tintinnio dei boccali di birra o delle bottiglie con cui si brindava all’improvvisa fortuna, e soltanto il vento battente del deserto tornava padrone assoluto delle strade, frugando tutti gli angoli di queste città fantasma come per sincerarsi che non fosse rimasta anima viva nel suo incontrastato dominio.
Tra il 1848 e il 1898, dalla California all’Alaska, lungo tutte le terre promesse ho aggiunto dei cercatori, centinaia di “boom towns” nacquero, crebbero e morirono, trasformandosi in desolate “ghost towns” dalle finestre vuote come le orbite di un teschio, silenziosi e spettrali testimoni di quei cinquanta frenetici e irripetibili anni di corsa all’oro.

Due avventurieri dei tempi della febbre dell’oro
E anche la già citata Rich Bar non fece eccezione alla regola, trasformandosi ben presto in un scheletrico e desolato monumento alla fragilità delle cose umane.
Si dice, infatti, che “se una cosa può andar male, lo farà”, e per gli abitanti della città e per la loro energica “Dame Shirley” tutto iniziò ben presto ad andare a rotoli; in quelle regioni difficili e inospitali, una volta di avviatisi sulla china della sfortuna, non c’era proprio modo di tirare la leva del freno.
Appena tre anni dopo la sua fondazione, il campo si svuotò, perché la vena del fiume si era esaurita e gli ultimi mesi di duro lavoro e di fatiche immani non avevano fruttato che poche manciate di polvere. Shirley Clappe e suo marito furono gli ultimi a lasciare il paese, appena in tempo per non restare bloccati nella città ormai deserta da una nevicata precoce, abbandonando dietro di sé un sogno che tanti uomini non erano riusciti a trasformare in realtà.

Una ghost town
Con il tempo, un po’ dappertutto, l’ingenuo entusiasmo dei primi intraprendenti cercatori fu sostituito gradatamente dalla potente tecnocrazia delle grandi aziende industriali e dall’avidità degli azionisti della società minerarie, speculatori sempre più affamati di dividendi che non esitavano a servirsi di sempre nuovi mezzi meccanici per strappare il metallo prezioso alle viscere della terra. Macchine a vapore, pompe idrauliche e possenti ingranaggi deviavano il corso dei fiumi, dissolvevano le colline e sventravano le montagne: alle soglie del XX secolo i poteri forti del capitalismo minerario avevano definitivamente preso il sopravvento e la romantica storia della corsa all’oro si poteva considerare terminata. Ma soprattutto non c’era più nessuno disposto a credere che tutta una vita potesse venire venire racchiusa in una sola pepita.