Le sfide di John Ford

A cura di Domenico Rizzi

John Ford
Il cinema western ha il grandissimo merito di avere continuato l’opera del Wild West Show di Buffalo Bill, diffondendo in tutto il mondo la cultura della Frontiera, ma anche la colpa dello stravolgimento di moltissimi eventi e del carattere dei suoi protagonisti.
John Ford non è immune dal peccato di avere manipolato a suo piacimento la storia e può essere assolto soltanto come romantico cantore della leggenda di un’epopea. Infatti i suoi pochi film storico-biografici – “Sfida infernale”, “La lunga linea grigia” e “Il grande sentiero” – contrastano spesso con la verità storica, contribuendo senz’altro, per un pubblico non troppo competente sull’argomento, a creare confusione su avvenimenti già fin troppo discussi.
La sua “Sfida infernale” (“My Darling Clementine”) girato nel 1946 con Henry Fonda, Victor Mature e Linda Darnell, non ha quasi nulla a che vedere con l’autentica dinamica dell’episodio all’O.K. Corral. Innanzitutto l’azione si svolge nel 1882 anziché l’anno precedente, James Earp viene fatto morire assassinato nelle prime battute del film – invece si spense per cause naturali nel 1926 – Doc Holliday (Victor Mature) cade durante la sfida con gli avversari, mentre si sa che la sua vita venne stroncata dalla tisi nel 1887.


My Darling Clementine

Newman “Old Man” Clanton è l’ultimo della sua famiglia a finire sotto i colpi dei micidiali Earp, ma le cronache del tempo ci dicono che il terribile vecchio era stato ucciso dai Messicani qualche mese prima; vi è poi Billy Clanton che viene abbattuto da Virgil Earp – ucciso a sua volta dal capofamiglia dei Clanton nella finzione cinematografica – mentre in realtà fu ucciso nella sparatoria dell’O.K. Corral.
Non vi è peraltro traccia nel film delle figure di Mattie Blaylock – amante di Wyatt Earp – o di Josephine Marcus, che diverrà la moglie del grande marshall, ma vi compaiono personaggi femminili di pura invenzione, quali la meticcia Chihuahua (Linda Darnell) e la morigerata Clementine Carter (Cathy Downs) nei panni di un’antica fidanzata di Holliday che diventerà la compagna di Wyatt. Infine, lo scontro a fuoco non si svolge alle spalle della Allen Street di Tombstone, bensì nei pressi di un recinto-deposito della compagnia di diligenze, su cui campeggia la scritta “Wells & Fargo Corral”.
In conclusione, nella pellicola di Ford non vi è quasi nulla che abbia attinenza con il famoso episodio accaduto a Tombstone nel 1881. Tuttavia, il regista di origine irlandese riconferma, nella rappresentazione della sua sfida, il realismo, dimostrato in “Ombre Rosse” sette anni prima. Per chi ha in mente la scena finale di “Stagecoach”, il protagonista Ringo Kid – interpretato da John Wayne – si presenta all’appuntamento con i fratelli Plummer a Lordsburg armato solo di un fucile Winchester che contiene tre proiettili.


Un’immagine tratta da Ombre Rosse

Non appena gli avversari escono allo scoperto, sbucando da una strada, Ringo si getta a terra e spara tre colpi in rapida successione. Una caratteristica di questo film è che il duello, se così si può chiamare, non si vede neppure: la figura barcollante di uno dei Plummer, che torna nel saloon come se avesse ucciso il suo nemico, per poi stramazzare subito al suolo, è l’annuncio della fine dello scontro. Gli uomini si sono misurati sul campo sparandosi addosso senza esitazione non appena hanno ritenuto che il bersaglio fosse entro il raggio di gittata delle loro armi. Dunque, niente primi piani insistiti sugli sguardi di ghiaccio dei protagonisti, né riprese di volti di pietra o di leggeri tremiti delle labbra, come avrebbero fatto molti altri registi americani ed europei, soprattutto l’italiano Sergio Leone. Ma è noto che Ford detestava le riprese troppo ravvicinate e prolungate, che mostravano “i peli sul naso” degli attori.
Il confronto decisivo di “Sfida infernale” non si sottrae a questa regola, alla quale il regista rimarrà fedele anche nei suoi successivi lavori.
Ultima Notte a Warlock
Gli Earp e il fedele Holliday avanzano in direzione dei Clanton, intimando loro di arrendersi, poi inizia lo scambio di colpi: cade Doc Holliday e muoiono tutti i fuorilegge, ma del duello “canonico”, in cui i pistoleri si superano nella velocità di estrarre la pistola – come in “Ultima notte a Warlock” di Edward Dmytrik, “L’occhio caldo del cielo” di Robert Aldrich, o del più recente “Pronti a morire” di Sam Raimi, per non elencare tutti gli “spaghetti-western” da Leone in poi – neppure l’ombra.
A parte le sue esagerazioni e i travisamenti storici, bisogna riconoscere che Ford sapeva bene ciò che faceva. Non a caso aveva conosciuto di persona Wyatt Earp e qualche altro personaggio della vecchia Frontiera, quindi era consapevole dell’improbabilità delle teatrali sfide proposte dal cinema. Nella sua lunga esperienza di regista, egli rimase fedele fino all’ultimo alla propria concezione, tant’è vero che ripropose, in “L’uomo che uccise Liberty Valance” il medesimo clichè. Quando Ransom Stoddard (James Stewart) va in cerca di Liberty Valance (Lee Marvin) indossa ancora il grembiule che fa parte della sua divisa da lavapiatti in un ristorante e impugna un revolver. Davanti al saloon, mentre il fuorilegge lo minaccia con la pistola in pugno, avviene la “sparatoria”: Stoddard fulmina l’avversario con un unico colpo della sua Colt e Valance, quasi incredulo per essere stato ferito a morte da un principiante, strammazza nella polvere della strada in pochi secondi. Si scoprirà dopo che il proiettile fatale non è quello esploso da Stoddard, bensì un preciso colpo sparato da Doniphon, che era nascosto nell’ombra, con la sua carabina Winchester.
Per la terza volta, Ford non ha concesso nulla alle aspettative del pubblico che vorrebbe veder trionfare i propri eroi dopo un accanito duello di nervi. Anche la leggenda – quella che fornisce ai posteri versioni diverse dalle dinamiche accertate dalla storia – ha le sue regole da rispettare, ma riguardo al West il regista era assai più preparato di quanto volesse far credere. L’intervista concessa a Peter Bogdanovich, raccolta nel libro “Il cinema secondo John Ford”, ne è una conferma. “Se dovevamo girare uno scontro a fuoco” raccontò “ne parlavamo con qualcuno che un tempo era stato sceriffo, come Pardner Jones, e lui ci diceva come dovevamo farlo…Pardner era quello che montò il cavallo selvaggio davanti alla regina Vittoria quando il Buffalo Bill Show arrivò a Londra…


Un’immagine tratta da L’Uomo Che Uccise Liberty Valance

Era lui lo sceriffo che uccise Apache Kid. Era solito raccontarci che nessuno di quei personaggi – Wild Bill Hickok, Wyatt Earp – era stato un gran tiratore con la pistola. Lo scopo era quello di intimidire l’uomo, di arrivargli il più vicino possibile. Se si era in un vero scontro a fuoco, si usava il fucile…Quindi cercavamo di ricostruire proprio ciò che accadeva nel West. Nessuna di quelle sciocchezze del tipo ‘pistola-veloce’…” (Bogdanovich, op. cit., ed. 1990, pp. 47-48).
Un’altra particolarità è che Ford detestava l’accompagnamento musicale di certe scene, che invece costituirono il punto di forza dei film di Leone, sostenuti, nei momenti cruciali, dalle esaltanti colonne sonore di Ennio Morricone. “In genere” ammise il regista “io odio la musica nei film. Non mi piace vedere un uomo solo nel deserto, che sta morendo di sete, e sentire in sottofondo la Philadelphia Orchestra.” (Bogdanovich, cit. p.95)
Dunque, l’interpretazione leggendaria di Ford tiene conto di molti aspetti autentici dell’impresa del West: benchè questa possa sembrare una contraddizione, non lo è se si guarda alla motivazione che egli pone alla base di tutti i suoi film. La leggenda che finisce per prevalere sulla realtà, nobilitando figure a volte ambigue, rivela un intento morale ed un sottofondo patriottico che ispirarono molti dei grandi narratori western come Zane Grey. “Ci sono un sacco di persone che venivano considerate grandi eroi, eppure si sa maledettamente bene che non lo furono. Ma è un bene per la nazione avere degli eroi da ammirare” (Bogdanovich, cit., p. 85).


John Ford sul set con John Wayne e Jimmy Stewart

Il West di Ford è in gran parte fantastico, i suoi sfondi – principalmente quelli dell’arida Monument Valley, dove il regista impianta improbabili fattorie, allevamenti e avamposti militari – appaiono più spettacolari che concreti e la maggior parte dei protagonisti non è attinta dalle biografie che la storia ci ha tramandato. Però le ballate popolari dell’epoca, le marce militari, le sparatorie a Lordsburg, a Tombstone o a Shinbone, gli Indiani invisibili in agguato dietro le rocce e gli sceriffi che egli portò sullo schermo sono elementi che conferiscono un’ampia credibilità ai suoi film.
Esaminati da vicino, senza la pretesa di volerci riconoscere ad ogni costo gli autentici Wyatt Earp e Doc Holliday, i personaggi di Ford somigliano davvero alle figure che popolavano la Frontiera prima che la civiltà e l’ordine mettessero la parola fine alla fantastica avventura.

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