- www.farwest.it - https://www.farwest.it -

“Volevo essere un eroe”. Il caso di Molti Cavalli

A cura di Anna Maria Paoluzzi

Molti Cavalli (Plenty Horses)
Il giorno 8 gennaio 1891, tutti i giornali degli Stati Uniti riportarono un tragico evento, verificatosi nel bel mezzo dei tumulti che in quello stesso periodo stavano infiammando le riserve Sioux del South Dakota. Un abile e popolare ufficiale dell’esercito era stato ucciso a tradimento da un giovane guerriero Sioux mentre tentava di entrare in uno degli accampamenti ostili per avviare una trattativa di pace.
La morte del tenente Edward W. Casey sconvolse e addolorò folle di amici e ammiratori; Molti Cavalli, il suo uccisore, fu sottoposto a una sorta di ordalia che nella sua tragica figura vide incarnarsi il disastro culturale che sconvolse l’esistenza degli Indiani, costretti all’odiata vita nelle riserve dalla sempre maggiore scarsità di terre e cacciagione.
L’uccisione del tenente Casey si verificò durante il conflitto che segnò la triste fine delle guerre indiane nella storia americana. I Sioux avevano risentito di un decennio di disintegrazione culturale dovuto all’impatto dei programmi avviati nelle riserve, il cui scopo era quello di “civilizzarli”.
Le antiche usanze e istituzioni erano state snaturate o distrutte, senza che altre fossero arrivate a sostituirle. A far definitivamente piombare nella disperazione gli indiani erano arrivate poi la massiccia requisizione delle loro terre, una serie di promesse non mantenute, cui si aggiunsero fame e malattie. La disperazione portò molti ad abbracciare la nuova religione della Danza degli Spettri, che offriva la luminosa promessa di un ritorno al vecchio modo di vivere: i bianchi sarebbero stati spazzati via, mandrie di bisonti avrebbero di nuovo popolato la prateria e intere generazioni sarebbero tornate in vita per abitare in paradiso insieme ai fedeli del nuovo culto.


La Ghost Dance a Pine Ridge

In tutte le tribù in cui si danzava la millenaristica Danza degli Spettri, i seguaci della nuova religione si attennero agli insegnamenti pacifisti del suo fondatore, un Paiute del Nevada di nome Wovoka. Ma tra i Sioux, oppressi da particolari sventure, ci fu una svolta nel segno della violenza. I predicatori Toro Basso e Orso Scalciante esortarono i loro seguaci ad affrettare i giorni della liberazione con la forza e a tale scopo fabbricarono le “camicie degli spettri”, che avrebbero fermato le pallottole di tutti quei bianchi che si fossero loro opposti. I tumulti raggiunsero l’apice nel novembre 1890; l’agente a Pine Ridge invocò l’aiuto dell’esercito e nelle settimane successive le truppe americane si riversarono nelle cinque riserve Sioux. Era la più vasta concentrazione militare che la nazione statunitense ricordasse dai tempi della Guerra Civile.


Il campo di Wounded Knee dopo la battaglia

I più fanatici dei seguaci della Danza degli Spettri – in gran parte Brulé provenienti dalla riserva di Rosebud che occupavano circa cinquecento tende – si rifugiarono in una specie di fortezza naturale nell’estremità nord-occidentale della riserva di Pine Ridge. I generali Nelson A. Miles e John R. Brooke concentrarono su questi indiani i loro tentativi di riportare la calma ed evitare uno scontro armato. Verso la fine di dicembre i loro sforzi furono in gran parte premiati e gli indiani si avviarono, timorosi ed esistanti, verso la riserva di Pine Ridge attraverso White Clay Creek. Il 29 dicembre, venti miglia a est dell’agenzia di Pine Ridge, il Settimo Cavalleria tentò di disarmare la banda di Minneconjou di Piede Grosso a Wounded Knee Creek. Sotto il fuoco dell’artiglieria che massacrò la gente del vecchio capo andò distrutta anche quella pace precaria. Pieni di rabbia e di paura, i Brulé di Due Colpi si diedero alla fuga in massa attraverso la White Clay Valley.
Molti Oglala di Pine Ridge, tra cui il venerando vecchio capo Nuvola Rossa, li seguirono. A circa quindici miglia a nord dell’agenzia, in una località chiamata No Water, questi fuggiaschi incontrarono i seguaci di Toro Basso e Orso Scalciante e si unirono al loro accampamento. In tutto si trovavano lì circa quattromila indiani, di cui solo ottocento o mille erano uomini in grado di combattere. Mentre alcuni degli straziati sopravvvissuti di Wounded Knee vagavano nel campo cercando di infiammare gli animi, i capi discutevano animatamente circa le prossime mosse da fare.


Soldati a Wounded Knee

Il generale Miles sfruttò abilmente le opinioni contrastanti dei leader Sioux, circondando il grande accampamento con un imponente dispiegamento militare, che era abbastanza vicino da rendere inquieti gli indiani e accendere ulteriormente il dibattito sulla scelta tra guerra e pace, ma non così vicino da scatenare un’altra fuga di massa. In quest’atmosfera carica di tensione, mentre Miles applicava accuratamente pressioni militari e diplomatiche, Molti Cavalli e il tenente Casey si ritrovarono l’uno di fronte all’altro.


Il campo “ostile”

Nel 1891 Sunka-wakan Ota, Molti Cavalli, era un giovane di appena ventidue anni. La sua famiglia apparteneva alla banda del vecchio capo Due Colpi che dalla morte di Coda Chiazzata era divenuto il più importante capo dei Brulé Sioux. Il padre di Molti Cavalli, Orso che Vive, era uno dei capi più in vista della banda di Due Colpi, di cui era cugino. Molti Cavalli poi era l’incarnazione stessa dell’ideale del guerriero Sioux: alto, bello, con le spalle larghe e il torace ampio, la fronte bassa, il naso prominente e grandi occhi castani.
Ma dietro quell’apparenza, in Molti Cavalli aveva preso corpo anche il dilemma degli indiani della sua generazione. Nei primi anni di vita, era stato immerso nei valori del vecchio stile di vita indiano, basato sulla caccia, la guerra e un’intensa religione personale strettamente connessa ai fenomeni naturali. Erano poi arrivati gli anni della riserva, in cui burocrati e missionari avevano attaccato quegli stessi valori e cercato di trasformare la sua gente in tranquilli contadini cristiani, legati ai valori dell’America bianca. Come disse con ironia involontaria uno dei Commissari per gli Affari Indiani, lo scopo di tutto ciò era “far sentire gli indiani a casa loro in America”.
Per Molti Cavalli il processo di assimilazione era stato particolarmente intenso: aveva infatti trascorso cinque anni, dal 1883 al 1888, al collegio indiano di Carlisle, in Pennsylvania, dove il capitano Richard H. Pratt si era dedicato zelantemente al compito di trasformare gli indiani in bianchi. Gli insegnanti di Carlisle ricordarono poi Molti Cavalli come uno studente tranquillo, di intelligenza media, che nei suoi cinque anni di scuola aveva fatto ben pochi progressi. Ma anche così, quando finalmente ritornò a casa, nella riserva di Rosebud, Molti Cavalli non era più un indiano. Chiaramente però non era nemmeno un bianco, come spiegò egli stesso più tardi: “Mi accorsi che l’istruzione che avevo ricevuto non mi serviva a nulla. Non c’era alcuna opportunità di trovare lavoro, niente che potessi fare per guadagnarmi il pane e un tetto, e nemmeno ebbi la possibilità di imparare altre cose e rimanere con i bianchi. Scoraggiato, ritornai a vivere come avevo vissuto prima di andare a scuola.
Il generale Miles
Fu facile dimenticare quelle abitudini che avevo in collegio, come fu facile dimenticare l’inglese.”

E così Molti Cavalli ritornò ad indossare coperte e mocassini e a pettinarsi i capelli in lunghe, folte trecce. Ma anche così la sua gente non lo accettava del tutto, perché per altri aspetti somigliava troppo all’uomo bianco.
Come altri diplomati a Carlisle che avevano fatto ritorno nelle riserve, Molti Cavalli si ritrovò a vivere un’esistenza infelice in una specie di limbo, un mondo che non era né quello indiano né quello dei bianchi. Il suo aspetto e il suo comportamento suggerivano uno stato di perpetua malinconia, riflettendo e incarnando il conflitto che lo divorava. La sua impassibilità era notevole persino tra il suo popolo, famoso proprio per quella stessa caratteristica. L’inglese di Molti Cavalli divenne sempre più incerto: quando gli capitava di parlarlo, erano palesi la sua fatica e la paura di esprimersi in modo errato. Per un giovane così confuso e frustrato, la Danza degli Spettri fu una potente attrattiva. Anche se apparentemente scettico circa il suo messaggio, Molti Cavalli abbracciò subito la nuova religione, unendosi ai danzatori e condividendone i propositi.
Ned Casey non aveva avuto mai simili problemi di adattamento o identità. Dopo essersi diplomato a West Point nel 1873, per quasi vent’anni aveva militato come ufficiale nel Secondo Fanteria. Il suo grado militare relativamente basso non rifletteva affatto il suo prestigio nella comunità militare, ma era specchio piuttosto della farraginosità del sistema delle promozioni, rigidamente basato sull’anzianità. Cordiale, socievole, amato e rispettato, Casey era un soldato straordinario.
“Mai il sole splenderà su un uomo migliore di lui”, dichiarò in seguito l’artista Frederic Remington. Casey aveva dato prova di straordinarie doti di comando come ufficiale di campo durante la campagna contro i Sioux del 1877 e si era meritato grandi elogi per il valore dimostrato durante la battaglia di Muddy Creek nel maggio dello stesso anno.
Ned Casey
Nei quattro anni successivamente trascorsi a West Point come insegnante di tattiche militari, aveva poi dimostrato le sue qualità intellettuali, facendosi una certa fama per la sua abilità di stratega. Al suo indubbio talento si aggiungeva il prestigio della sua famiglia. Suo padre, il generale Silas Casey, era l’autore del manuale di tattica usato nell’esercito, oltre ad essere un valoroso veterano della guerra contro il Messico e della Guerra Civile. Suo fratello, il generale Thomas Lincoln Casey, era dal 1888 comandante del Corpo d’Armata Ingegneri.
Tutto faceva presagire che Ned Casey, anche se ancora tenente a quarant’anni, avesse davanti a sè ottime speranze di diventare generale.
I più recenti successi del tenente Casey erano quelli ottenuti come ufficiale comandante degli scout indiani Cheyenne. Il suo presidio, Fort Keogh, sorgeva in prossimità della riserva dei Cheyenne del Nord e nel 1889 Casey aveva richiesto il permesso di arruolare un corpo di scout tra i giovani della riserva. Il Commissario per gli Affari Indiani si oppose inizialmente al progetto, che riteneva dannoso per i programmi di civilizzazione del governo, ma alla fine Casey riuscì a spuntarla. I Cheyenne avevano efficacemente servito come scout il generale Miles negli ultimi anni del decennio 1870-80 e Casey non ebbe particolari difficoltà nel trovare reclute.
Il tenente si dimostrò un comandante fermo, coscienzioso e comprensivo, rivelando anche una rara comprensione della natura degli indiani, che ripagarono la sua sollecitudine con sentimenti di venerazione e dai quali fu soprannominato affettuosamente “Grande Naso”. Ben presto Casey trasformò il suo corpo di scout in un’unità scelta dell’esercito.
Nelle operazioni militari del 1890-91 a Pine Ridge, gli scout di Casey si fecero onore come unità di ricognizione. Nei giorni carichi di tensione che seguirono il massacro di Wounded Knee, i Cheyenne furono aggregati a uno squadrone di cavalleria comandato dal tenente colonnello George B. Sanford, che occupava una postazione sul fiume White, presso la foce del White Clay Creek, a circa otto miglia a nord dell’ accampamento “ostile” di No Water.


Scout indiani

Altre unità erano state schierate a est e a ovest. Il generale Brooke supervisionava la linea sul fiume White, mentre il generale Miles esercitava il comando generale dall’agenzia di Pine Ridge. Gli scout di Casey furono gli occhi del generale Brooke, sorvegliando il villaggio Sioux e incontrandosi quotidianamente con quei guerrieri che sgattaiolavano fuori per scambiarsi notizie. Il 6 gennaio, una mezza dozzina di Sioux si incontrarono con lo stesso tenente Casey. Il loro rapporto sui sentimenti contrastanti che animavano il campo lo convinse che avrebbe potuto perorare una soluzione pacifica incontrandosi personalmente con alcuni dei capi Brulé e Oglala.
Con questi pensieri, la mattina seguente Casey iniziò il suo viaggio fatale verso il White Clay Creek.
Quella stessa mattina, anche Molti Cavalli si mise in cammino, il cuore incupito dalle sue recenti esperienze. Dopo l’arrivo dei soldati a Pine Ridge e Rosebud in novembre, era fuggito verso le Badlands insieme alla banda di Due Colpi. Un mese più tardi era arrivato a Pine Ridge, dopo che la paziente opera diplomatica del generale Brooke era riuscita a far allontanare la gente di Due Colpi dai più fanatici dei seguaci di Toro Basso e Orso Scalciante. Il 29 dicembre Molti Cavalli aveva udito in lontananza il fragore dell’artiglieria ed era corso in direzione di Wounded Knee. “Era uno spettacolo terribile”, ricordò più tardi, “Il racconto dei sopravvissuti era straziante”.
Il giorno successivo Molti Cavalli, insieme ad altri giovani indiani, attaccò il Settimo Cavalleria, dirottandolo verso la Drexel Mission, per poi dirigersi verso il grande accampamento di No Water attraverso la White Clay Valley. Infiammati dai fatti di Wounded Knee, gli indiani danzarono la Danza degli Spettri e cominciarono a costruire barricate per difendersi dall’attacco che credevano ormai imminente.


Morti a wounded Knee

La mattina del 7 gennaio, come ricordò più tardi Molti Cavalli: “Ero fuori dal campo, a controllare che non venisse l’esercito a fare del male a mio padre e alla mia famiglia. Certo, ero mal disposto. La nostra casa era stata distrutta, eravamo stati separati dalla nostra famiglia e ogni speranza di tempi migliori era svanita. Non c’era più niente per cui vivere.”
Molti Cavalli faceva parte di un gruppo di circa quaranta Sioux che, sul clivio di una collinetta a circa due miglia e mezzo a nord dell’accampamento di No Water, si imbattè per caso in Casey e due scout Cheyenne, Luna Bianca e Strada Rocciosa. Dopo qualche amichevole stretta di mano e uno scambio di battute scherzose, molti dei Sioux si avviarono giù per la collina, dove altri indiani stavano macellando del bestiame. Altri dieci, tra cui Molti Cavalli, rimasero invece a parlare con l’ufficiale bianco. Tramite Strada Rocciosa, che parlava un po’ d’inglese, Casey chiese se uno degli indiani fosse disposto a offrirsi volontario per ritornare al villaggio e persuadere qualche capo, magari anche Nuvola Rossa, a uscire e prender parte a un colloquio. Il vecchio Braccio Rotto, che doveva il suo nome al braccio sinistro che gli penzolava inerte lungo il fianco, si voltò quindi verso un uomo alto e snello dal volto dipinto, di nome Orso che Giace, dicendogli di andare a riferire il messaggio. Orso che Giace, sposato con una sorella della madre di Molti Cavalli, era quindi lo zio di quest’ultimo.
Mentre Orso che Giace cavalcava rapido attraverso la valle, Casey, per ragioni ancora oscure, ordinò a Strada Rocciosa di tornare indietro al fiume White e poi si avviò lentamente dietro Orso che Giace. Molti Cavalli gli cavalcava al fianco e i due si scambiarono qualche parola in inglese. Li seguivano Luna Bianca e Braccio Rotto.
Al villaggio di No Water, Orso che Giace aveva intanto interrotto un consiglio all’interno della tenda di Nuvola Rossa, dove alcuni dei capi stavano discutendo se rispondere o meno all’appello del generale Miles, che li aveva richiamati all’agenzia per dei colloqui di pace. L’invito era stato comunicato da Pete Richard, membro di una vera e propria tribù di sanguemisto mezzo francesi e mezzo indiani che si trovavano a proprio agio in entrambi gli ambienti. Diverse generazioni di questi Richard (o Reshaw) avevano attraversato la storia dei Sioux per più di mezzo secolo. Pete, alto e robusto, di colorito bruno, con baffi e sopracciglia nere e folte, parlava un inglese stentato con forte accento francese. Se la cavava molto meglio con il Sioux e il fatto di essere il genero di Nuvola Rossa gli dava un certo credito presso i capi. Gli indiani si erano appena decisi a conferire con il generale Miles quando Cane Maschio, un sottocapo Oglala nipote di Nuvola Rossa, fece entrare Orso che Giace. Dopo aver ascoltato il messaggio di Casey, Nuvola Rossa disse a Pete Richard di correre ad avvertire Casey che nelle vicinanze c’erano parecchi giovani, come impazziti, che avrebbero potuto ucciderlo; era perciò meglio che tornasse indietro, visto che egli, Nuvola Rossa, e gli altri capi avevano già acconsentito a recarsi all’agenzia il giorno seguente per parlare con il generale Miles.
Richard e Orso che Giace si incontrarono con Casey e i suoi compagni a circa un miglio e mezzo dall’accampamento Sioux. Dopo una stretta di mano,disposero in cerchio i cavalli mentre Richard e Casey parlavano tra loro. Richard più tardi descrisse così l’incontro: “Il tenente mi strinse la mano e io gli chiesi dove stesse andando. Mi rispose “Il generale Brooke mi ha inviato qui”. Io allora gli dissi che sarebbe stato meglio che tornasse indietro, come Nuvola Rossa mi aveva detto di fare, e che i capi si sarebbero recati dal generale Miles il giorno successivo. Lui allora mi chiese se andare fino in cima alla collina al di sopra dell’ accampamento fosse pericoloso. Io gli risposi di tornare indietro subito, perché gli indiani più giovani erano come impazziti o ubriachi. Mostrai quindi al tenente Casey un lasciapassare che mi aveva dato il generale Miles, e gli dissi che Nuvola Rossa sarebbe evaso e si sarebbe recato da solo al campo del generale Brooke, se gli altri indiani non gli avessero permesso di andare all’agenzia. Quindi gli dissi di nuovo di andarsene subito e lui disse che lo avrebbe fatto…”
Durante questa conversazione, Molti Cavalli aveva lentamente ritirato il suo cavallo dal cerchio e si era posizionato alle spalle di Casey, a poco più di un metro. Mentre Richard e l’ufficiale facevano voltare i cavalli per prendere la via del ritorno, Molti Cavalli fece spuntare un Winchester dalla sua coperta, lo imbracciò con calma e fece partire un colpo. Il proiettile colpì Casey alla nuca e gli uscì fuori dall’occhio destro. Il cavallo si imbizzarrì e disarcionò il suo padrone. Casey cadde a faccia in giù sul terreno, morto.


Molti Cavalli tra i soldati

Luna Bianca fece per andarsene, ma Richard lo richiamò e gli disse di portare il cavallo e tutto l’equipaggiamento di Casey con sè. Luna Bianca rifiutò e prese solo il cavallo. Braccio Rotto smontò da cavallo e, dopo aver voltato il cadavere, gli sbottonò il cappotto e si impadronì delle sue due pistole. Intanto Molti Cavalli aveva iniziato a scendere lentamente in direzione del villaggio. “Perché non gli spari?” chiese Luna Bianca a Richard, usando il linguaggio dei segni. “Perché non gli spari tu?” rispose Richard allo stesso modo.
Quindi, dopo aver inviato Orso che Giace ad avvisare Nuvola Rossa dell’uccisione di Casey, Richard accompagnò lo scout Cheyenne fino giù alla valle, dove fecero rapporto al generale Brooke. Quel pomeriggio gli scout di Casey, sotto il comando del tenente Robert N. Getty, partirono per recuperare il corpo del loro amato Grande Naso.
Nonostante l’uccisione di Casey avesse riempito di rabbia e di dolore l’esercito, il generale Miles restò fermo nel suo proposito di porre fine ai tumulti senza ulteriore spargimento di sangue. Dopo una settimana, la sua strategia della persuasione, rafforzata dall’intimidazione, cominciò a dare frutti.
Il 15 gennaio 1891 i comandanti Sioux si arresero e si accamparono nell’agenzia di Pine Ridge. Una settimana dopo i reggimenti radunati da Miles, dopo un’ ultima rassegna, si sciolsero per ritornare ai loro stanziamenti originari.
L’ultima “guerra” indiana era finita.
Gli indiani a Pine Ridge pensarono che la pace avesse scongiurato ogni pericolo di rappresaglie nei confronti di Molti Cavalli. L’omicidio era avvenuto durante una guerra, quando tutti erano tesi e timorosi di un attacco da parte di quelle stesse forze cui apparteneva l’ufficiale ucciso. Nessuno pensò fosse sbagliato uccidere un nemico in simili circostanze.


Nuvola Rossa

Come lo stesso Nuvola Rossa spiegò a un giornalista, egli e tutti gli altri capi Sioux condannavano l’uccisione di Casey, un vero amico degli indiani, ma allo stesso tempo la consideravano una delle disgrazie di quella guerra, per cui nessuno poteva essere biasimato o punito.
Tuttavia l’esercito la pensava in modo diverso. Casey era stato colpito a tradimento, alle spalle, durante un colloquio amichevole finalizzato alla pace e questo, secondo gli standard bellici dei bianchi, non poteva essere scusato. Prima di lasciare Pine Ridge, il generale Miles aveva lasciato al colonnello William R. Shafter l’ordine di trovare e arrestare Molti Cavalli in un momento in cui l’operazione potesse essere condotta senza fracasso e senza suscitare tumulti tra gli indiani. Il 19 febbraio il tenente S.A. Cloman e un corpo di scout Oglala catturarono Molti Cavalli nel piccolo accampamento di Uomo Mais, a nord dell’agenzia. Molti Cavalli fu poi portato via in fretta dall’agenzia e gettato nella piccola prigione di Fort Meade, a circa 125 miglia a nord, presso Sturgis, South Dakota.
Sorse quindi la tormentata questione di cosa fare di Molti Cavalli, ora che era stato arrestato. L’intenzione di Miles era stata quella di consegnarlo alle autorità civili per il processo penale, anche se la precisa giustificazione legale per quel procedimento, come per qualunque altro, rimaneva ancora da chiarire. Ma il sostituto procuratore degli Stati Uniti per il South Dakota, William B. Sterling, richiedeva la consegna di Molti Cavalli e il gran giurì federale di Deadwood stese diligentemente l’atto d’accusa di omicidio richiesto. Già allora però gli ufficiali dell’esercito avevano iniziato a ripensare all’intera questione in termini diversi. In parte essi intuivano che, se il crimine di Molti Cavalli non era da considerare un atto di guerra, allora non erano atti di guerra neanche alcune delle azioni condotte dai militari durante i recenti disordini. Altri poi provavano genuini sentimenti di simpatia per Molti Cavalli, intrappolato nelle complessità di un sistema giudiziario che non comprendeva e da cui non poteva districarsi. Il cambiamento di opinione dell’esercito era dovuto però principalmente a un’altra tragedia, che nell’opinione pubblica era divenuta indissolubilmente legata al caso di Molti Cavalli.
Molti Cavalli seduto
Il giorno 11 gennaio, prima della resa, quando negli insediamenti fuori dalla riserva ancora si temeva una guerra indiana generale, due famiglie Oglala lasciarono il campo sul fiume Belle Fourche e, con dei carri, ripresero il loro viaggio verso Pine Ridge. Tornavano da una caccia presso Bear Butt e avevano con sè un lasciapassare rilasciato dall’ agente indiano. A nemmeno trecento metri dall’accampamento dove intendevano passare la notte, gli indiani furono investiti da una scarica di fucilate, fatte evidentemente partire da qualcuno in agguato nelle vicinanze. I finimenti dei due cavalli che trainavano il primo dei due carri finirono a terra. Code Scarse, che guidava il carro, morì sul colpo, fulminato da due colpi che lo raggiunsero al volto e nel petto. Clown, sua moglie, saltò giù dal carro, ma fu atterrata da un proiettile. Intanto Una Penna, che guidava il secondo carro, lanciava i suoi cavalli al galoppo proprio mentre sua moglie, Gufo Rosso, veniva raggiunta da un colpo e la figlia tredicenne e il loro bimbo si rannicchiavano in mezzo al carico di carne del carro. Più tardi, dopo aver abbandonato il carro e aver fatto scappare a cavallo i suoi familiari, Una Penna coprì coraggiosamente la loro fuga, riuscendo alla fine a far desistere i suoi assalitori che evidentemente preferirono non avvicinarsi troppo e rischiare di finire sotto il tiro del suo Winchester. Due settimane più tardi i familiari di Una Penna, esausti e impauriti, riuscirono finalmente a raggiungere l’agenzia di Rosebud. Gufo Rosso era sfinita per il sangue perso, il suo bambino era morto di fame. Anche Clown riuscì a sopravvivere. In una straordinaria prova di resistenza e determinazione durata cinque giorni, con un proiettile nel seno e uno nella gamba, riuscì a farsi penosamente strada fino all’agenzia di Pine Ridge, percorrendo cento miglia di prateria ghiacciata. Quando arrivò, il 18 gennaio, era quasi morta per il freddo e le ferite.
Le indagini dell’esercito provarono senza ombra di dubbio che i responsabili di questo crimine perpetrato a sangue freddo erano i tre fratelli Culbertson, proprietari di un ranch vicino al luogo della strage. I Culbertson sostennero che gli indiani avevano rubato loro dei cavalli e avevano fatto fuoco per primi, ma la falsità di questa ricostruzione crollò sotto il peso delle prove accumulate. Pete Culbertson rivelò poi le reali motivazioni del loro atto quando fu udito vantarsi: “Ho sparato a uno di questi dannati botoli del governo e se qualcun’altro di loro vuole una ripassata, che venga pure avanti”.
Il colonnello Shafter non tardò a vedere la connessione tra il caso di Code Scarse e quello di Molti Cavalli. “Se un indiano può essere arrestato e trattenuto per aver ucciso un uomo armato durante una guerra”, scrisse al generale Miles in un telegramma datato 23 febbraio, quattro giorni dopo la cattura di Molti Cavalli, “allora ritengo che non si possa permettere che gli assassini bianchi di un gruppo di indiani pacifici restino impuniti”.
Miles fu sostanzialmente d’accordo e diede ordine di non consegnare Molti Cavalli alle autorità civili, facendo allo stesso tempo delle aperte allusioni alla necessità di un’azione energica contro gli assassini di Code Scarse. Miles riportò inoltre i fatti al procuratore distrettuale Sterling che, dopo un’indagine, concluse che l’omicidio di Code Scarse era sottoposto alla giurisdizione statale.
Temono I Suoi Cavalli il Giovane
I burocrati della contea di Meade protestarono, affermando che per motivi finanziari sarebbe stato loro impossibile intentare un dispendioso processo nei confronti dei Culbertson, ma voci critiche ribatterono che in realtà si temeva l’opinione pubblica che non avrebbe potuto accettare l’incriminazione di alcuni bianchi per l’omicidio di un indiano. Un potente capo Oglala, Temono i Suoi Cavalli il Giovane, suggerì una soluzione molto semplice e diretta per fare giustizia in entrambi i casi. Quando gli chiesero di consegnare Molti Cavalli e un altro indiano accusato dell’omicidio di un bianco, il capo rispose: “No, non ve li consegnerò: ma se mi porterete quei bianchi che hanno ucciso Code Scarse, io vi porterò l’indiano che ha ucciso il soldato bianco e quello che ha ucciso il mandriano. Poi, proprio qui davanti alla vostra tenda, dirò ai miei giovani guerrieri di sparare ai due indiani e voi ordinerete ai vostri soldati di sparare a quei bianchi. Così metteremo fine a tutta questa faccenda. Sono uomini malvagi sia gli uni che gli altri.”
Con riluttanza, il procuratore di stato della contea di Meade incriminò i fratelli Culbertson. Il procuratore generale degli Stati Uniti ordinò a Sterling di fornigli assitenza legale federale, il generale Miles consegnò le prove raccolte dagli investigatori militari, che inchiodavano senza scampo i Culbertson, e l’Ufficio per gli Affari Indiani acconsentì a pagare le spese di viaggio per i testimoni indiani. Il processo ai Culbertson fu fissato per il 12 maggio, anche se fu poi rimandato. Era questa la situazione quando il 27 marzo il generale Miles ordinò che Molti Cavalli fosse consegnato al capo della polizia per gli Stati Uniti nel South Dakota, in attesa del processo che si sarebbe tenuto nella corte di distretto federale di Sioux Falls.
Trascorse così anche marzo, e ad aprile Molti Cavalli, che non aveva ancora un avvocato difensore, era così sconfortato che quelli che lo visitarono nella sua cella di Fort Meade temettero un suo gesto disperato. Sia Molti Cavalli che suo padre, Orso che Vive, avevano più volte scritto a John H. Burns, un avvocato di Deadwood conosciuto come amico degli indiani, implorandone l’aiuto. Burns non poteva però pemettersi di accettare l’incarico senza alcun compenso, e l’accusato e la sua famiglia non avevano la possibilità di racimolare la somma (tra i trecento e i cinquecento dollari) che Burns riteneva necessaria. Burns, insieme al tenente colonnello Edwin V. Sumner, comandante a Fort Meade, scrisse allora a un’organizzazione di Philadelphia, l’Associazione per i Diritti degli Indiani ed espose la situazione di Molti Cavalli. A sua volta il segretario dell’associazione incaricato della corrispondenza, Herbert Welsh, provò vanamente a richiedere un difensore all’Ufficio per gli Affari Indiani; ottenne però duecento dollari prelevati dai fondi dell’associazione stessa. Anche così, la somma non fu sufficiente per Burns, ma consentì a Molti Cavalli di assicurarsi i servizi di due giovani e abili avvocati di Sioux Falls, George P. Nock e D.E. Powers.


Sioux Falls

Le formalità immediatamente precedenti al processo furono sbrigate durante la seconda settimana di aprile presso il tempio massonico di Sioux Falls, che ospitò la corte federale in città. Un particolare curioso: data l’importanza della causa, la corte fu presieduta da ben due giudici, Edgerton e Shiras. L’accusa fu sostenuta dal procuratore distrettuale Sterling. I giudici vanificarono gli sforzi degli avvocati Nock e Powers, che tentarono di far chiudere il caso, ascoltarono la dichiarazione di non colpevolezza di Molti Cavalli e fissarono la data del processo per il 23 aprile.
Il primo giorno del processo si respirava un’aria di festa a Sioux Falls. Il vasto interesse di pubblico aveva fatto riversare in città un gran numero di spettatori speranzosi. Rudi pionieri con i loro caratteristici cappelli a tesa larga e le pistole appese ai cinturoni si mischiavano con agricoltori, gente di città e corrispondenti dei giornali dell’Est. L’aula improvvisata scoppiava di gente e anche i due sceriffi che sorvegliavano l’ingresso si ritrovarono quasi schiacciati dalla calca. L’attenzione generale era tutta per Molti Cavalli. Senza dare il minimo segno di emozione, il giovane sedeva avvolto in una coperta blu scolorita che copriva una dozzinale camicia rossa e un paio di pantaloni consunti. Ai piedi aveva dei semplici mocassini e i capelli erano pettinati in due trecce avvolte da strisce di flanella che gli ricadevano sul petto.


Orso Che Vive, padre di Molti Cavalli

Suo padre, Orso che Vive, era palesemente più emozionato e diede segni commoventi del suo amore per il figlio e del dolore nel vederlo in quella situazione: ogni mattina seguiva puntualmente i due agenti che scortavano il giovane fino all’aula di tribunale e la sera faceva con loro il percorso inverso, dal tribunale fino al carcere dove era rinchiuso Molti Cavalli. La pittoresca sfilata dei testimoni, che alloggiavano al Merchants’ Hotel, suscitò anch’essa vivo interesse. Luna Bianca e Strada Rocciosa, impettiti nelle loro uniformi blu decorate con bottoni d’ottone e rifiniture bianche, non fecero alcuno sforzo per nascondere l’odio che provavano per l’assassino di Grande Naso. Spiccavano anche il corpulento Pete Richard, Braccio Rotto, Orso che Giace e l’Oglala Cane Maschio.
Il secondo giorno del processo fu organizzato un ricevimento per gli ospiti indiani, che si trasformò in una patetica reminiscenza del declino e delle glorie passate di quegli antichi, potenti signori delle praterie del passato. In un recinto all’estermo della città erano rinchiusi diciassette bisonti, i miseri resti di quei milioni di animali che una volta fornivano ai Sioux tutte le materie prime loro necessarie e che avevano dato un contributo vitale alla nascita delle loro istituzioni politiche e sociali e alle loro credenze spirituali. L’ultima delle grandi mandrie era stata distrutta quasi dieci anni prima, e la vista delle poche bestie scampate suscitò un’enorme gioia negli indiani, che si misero a saltare come bambini eccitati. Braccio Rotto e Cane Maschio arrivarono ad arrampicarsi sulla staccionata e cercarono di abbracciare gli animali, che però li scaraventarono via con un brusco movimento del capo. Gli indiani allora, come scrisse un reporter dell’epoca “…saltellarono via a rischio della vita e in generale si comportarono così familiarmente con i bisonti che le bestie cominciarono a guardarsi intorno, quasi sbalordite da quanto stava accadendo”.
La strategia della difesa si rivelò subito nella scelta dei giurati e mantenne una linea coerente anche nel confronto tra i testimoni d’accusa e gli interrogatori di quelli per la difesa. Nock e Powers cercarono di dimostrare che l’esercito e i Sioux, e nel caso specifico Casey e Molti Cavalli, si erano reciprocamente considerati come parti belligeranti di un conflitto in corso e perciò uccidere un nemico in stato di guerra non poteva essere considerato un reato sottoposto alla giurisdizione civile. L’accusa, dal canto suo, contestò l’ammissibilità di prove basate sullo stato d’animo dei Sioux e le condizioni dell’accampamento di No Water. I giudici non riuscirono a risolvere la questione in modo definitivo: stabilirono infatti che la corte aveva piena giurisdizione sul caso, ma che le prove circa il fatto che ci fosse stata una guerra in corso all’epoca dei fatti potevano essere accettate in modo generale come circostanza attenuante.
Dopo tre giorni di interrogatori dei testimoni, si ebbe la prova inconfutabile che era stato Molti Cavalli a sparare il colpo fatale, ma si arrivò anche all’equa conclusione che, dopo i cruenti fatti di Wounded Knee, gli indiani dell’accampamento di No Water si erano considerati in guerra contro i soldati bianchi.


Testimoni al processo

Paradossalmente, il personaggio principale del processo non ebbe quasi parte in esso: Molti Cavalli rimase per tutto il tempo seduto, impassibile e privo di espressione, senza tradire emozione alcuna. Parlava pochissimo e soltanto con Nock e Powers. Quasi sicuramente non si rendeva conto di quanto stava accadendo. Una volta, nonostante il procuratore distrettuale lo stesse attaccando energicamente, espresse persino ammirazione per lo stile oratorio di Sterling. È quasi certo che Molti Cavalli considerasse tutto il processo come una specie di rituale che i bianchi dovevano rispettare prima di passargli un cappio intorno al collo e impiccarlo.
Il culmine di tutta l’ironia circa la strana mancanza di coinvolgimento di Molti Cavalli nel suo stesso processo fu raggiunto il 28 aprile, quando Nock e Powers chiamarono l’accusato al banco dei testimoni. Gli altri testimoni indiani si erano serviti dell’interprete e Philip Wells, per lo stesso scopo, ripetè il giuramento insieme a Molti Cavalli. Il procuratore distrettuale Sterling tuttavia si oppose all’uso dell’interprete, sostenendo che l’accusato aveva studiato a Carlisle per cinque anni. Il giudice Edgerton accolse l’obiezione. Nock ribattè animatamente che, per esprimere in modo accurato i fatti essenziali per la sua difesa, Molti Cavalli avrebbe dovuto parlare nella sua lingua madre. Risentito, il giudice Shiras sostenne l’autorità del suo collega. “Allora ci rifiutiamo di far testimoniare Molti Cavalli”, dichiarò Nock, “e dichiariamo il caso chiuso”.
Molti Cavalli al processo
Sbigottita, la folla uscì in file silenziose dall’aula. “Volevo soltanto dir loro che non sono colpevole di omicidio”, disse Molti Cavalli mentre veniva condotto fuori. “Ma per me va bene anche se non vogliono starmi a sentire. Probabilmente è meglio così”.
Il giorno successivo, dopo eloquenti e appassionate requisitorie da parte dell’accusa e della difesa, il giudice Shiras si rivolse alla giuria. Anche se i Sioux non costituivano una nazione indipendente e non avevano perciò l’autorità per dichiarare guerra, potevano tuttavia effettivamente avviare le ostilità nei confronti di un altro stato. Se quindi i giurati ritenevano che in quel caso una guerra, anche se non “legalmente” valida, ci fosse in effetti stata, allora avrebbero dovuto assolvere l’imputato. Se invece ritenevano che non ci fosse stata alcuna guerra in corso e che Molti Cavalli avesse sparato a Casey con animosità e premeditazione, allora avrebbero dovuto dichiararlo colpevole di omicidio. In questo secondo caso, se l’omicidio fosse stato perpetrato senza alcuna premeditazione e in condizioni di profondo sconvolgimento mentale, nel verdetto si sarebbe dovuto parlare di omicidio preterintenzionale. La giuria, composta in gran parte di agricoltori di media intelligenza, si riunì per tutta la notte e finalmente, il 30 aprile a mezzogiorno, confessò di essere ancora a un punto morto. Alla ventitreesima votazione si era ancora fermi al risultato della prima: sei voti a favore dell’accusa di omicidio e sei a favore di quella di omicidio preterintenzionale. Una giuria divisa, dunque, anche se indubbiamente erano tutti concordi circa la colpevolezza di Molti Cavalli.
Quando la giuria fu congedata, Molti Cavalli rimase seduto, senza esprimere alcuna emozione, proprio come aveva fatto per tutta la durata del processo. Suo padre Orso che Vive, che aveva trascorso la mattinata camminando su e giù per il corridoio e chiedendo in continuazione a uno degli sceriffi come si stavano mettendo le cose, si fece largo tra la folla fino all’avvocato Nock, e, con le lacrime che gli scorrevano giù per il viso, gli strinse energicamente la mano esprimendogli tutta la sua gratitudine. Più tardi anche Molti Cavalli si rilassò un poco. Avrebbe dovuto affrontare un altro processo, ma ora comprendeva che non si trattava più di una semplice formalità da sbrigare prima di farsi condurre alla forca. “La notte scorsa pensavo che mi avrebbero di sicuro impiccato” disse “Ma ora sento che non sarà così. Mio padre è di nuovo felice”.


Persone che presero parte al processo

Il secondo processo si aprì nella stessa aula il 23 maggio, e vi presero parte gli stessi personaggi, inseriti in un copione molto simile a quello del primo. Molti Cavalli, pallido ed emaciato per la lunga reclusione, seguì lo svolgimento del processo impassibile come sempre. Indossava una sgargiante camicia rossa e un fazzoletto da collo giallo, dono di un ammiratore, dava un’ulteriore nota di colore al suo aspetto. Braccio Rotto, Orso che Giace, Cane Maschio e gli scout Luna Bianca e Strada Rocciosa ripeterono il loro racconto, mentre il vecchio capo Cavallo Americano, abile ed eloquente, descrisse le condizioni dei Sioux dopo i fatti di Wounded Knee. La difesa riuscì inoltre ad incastrare Luna Bianca, facendolo cadere in diverse contraddizioni. Lo scout, umiliato, si comprò un coltello a serramanico e si chiuse nella stanza d’albergo occupata da Cane Maschio e Vestito di Donna. Quando i due Sioux tornarono nella loro camera dopo pranzo, trovarono Luna Bianca sdraiato sul letto inzuppato di sangue, con il coltello affondato nel petto fino al manico. Fu chiamato d’urgenza un dottore che gli impartì le prime cure; il giorno successivo le condizioni di Luna Bianca erano già migliorate e si potè farlo salire su un treno che lo ricondusse a casa sua, nel Montana.
L’accusa e la difesa cominciarono una nuova e accanita disputa sulla rilevanza della questione sullo stato di guerra. Durante il primo processo, Nock e Powers avevano dimostrato che gli indiani si consideravano in guerra contro i soldati bianchi, ma non era stata presentata alcuna prova su come l’esercito vedesse l’intera questione. Tra l’altro, il procuratore distrettuale Sterling aveva provato a chiedere al generale Miles, che allora si trovava nel suo quartier generale di Chicago, di recarsi a Sioux Falls e testimoniare che non c’era stata alcuna guerra nelle riserve Sioux. Secondo i giornali, Miles aveva replicato: “Ragazzo mio, certo che c’è stata una guerra. Non penserai mica che io voglia ridurre la mia campagna a una sfilata di moda?”
Il capitano Frank D. Baldwin
Il generale aveva quindi mandato un ufficiale di stato maggiore, il capitano Frank D. Baldwin, a testimoniare in favore della difesa. La testimonianza di Baldwin, insieme ai rapporti militari riportati come prova, fece stabilire chiaramente che, come già affermato da Miles, anche l’esercito americano si era considerato in guerra. Baldwin, in risposta a una domanda, ammise anche Casey avrebbe potuto essere considerato come una spia in territorio nemico, pur ribadendo che (“mentre un sorriso gelido gli appariva sotto i baffi grigi” come osservò un giornalista) “noi questo non lo chiamiamo spiare, ma andare in ricognizione”.
La testimonianza di Baldwin, insieme ai documenti militari, si provò decisiva. “Non c’è bisogno di altro, per questo caso”, annunciò il giudice Shiras dopo la pausa per il pranzo. Spiegò quindi agli attoniti partecipanti e spettatori che la questione dell’innocenza o colpevolezza di Molti Cavalli dipendeva tutta dalla questione sullo stato di guerra. La difesa aveva dimostrato senza ombra di dubbio che effettivamente la cosa si era verificata durante un conflitto armato. Allo stesso modo, se i fatti Wounded Knee non fossero stati considerati una battaglia scatenatosi durante una guerra, si sarebbero dovuti processare i soldati del Settimo Cavalleria per omicidio. Se durante la ricognizione nell’ accampamento di No Water Casey avesse sparato a Molti Cavalli, nessuno lo avrebbe certo accusato di omicidio e trascinato in giudizio in una corte civile. L’uccisione di Casey poteva perciò essere considerata solo e soltanto un atto di guerra e il giudice Shiras dichiarò di non poter accettare altro verdetto che l’assoluzione. Dopo un breve dibattito, durante il quale nessuno lasciò la stanza, i giurati obbedirono senza discutere agli ordini del giudice, anche se successivamente un sondaggio fatto da un giornalista rivelò che, se lasciati decidere autonomamente, i giurati avrebbero condannato Molti Cavalli per omicidio preterintenzionale.
Prima che il giudice potesse sollevare il martello per congedare l’accusato e dichiarare il caso chiuso, un boato di giubilo invase la corte. La triste, solitaria figura del giovane chiuso nel banco degli accusati si era infatti guadagnata la simpatia generale. Mentre Powers stringeva la mano al suo cliente e si congratulava con lui, un giornalista osservò che sul volto di Molti Cavalli non c’era la minima traccia di gioia. “Non c’era traccia di giubilo sul suo volto, proprio come prima non c’erano stati segni di ansia o paura”. Un altro osservatore vide tuttavia che l’indiano aveva le guance bagnate di lacrime e lo udì mormorare “Sono libero! Bene, bene, bene!”. Per un’ora intera, dopo che la corte si era formalmente aggiornata, una folla di simpatizzanti circondò Molti Cavalli per stringergli la mano. Più tardi, nelle strade appena fuori dalla corte, gli indiani che si erano riuniti per il processo ripeterono un cerimoniale simile.
Cavallo Americano
Sono lieto che tu sia libero”, disse solennemente Cavallo Americano, “Hai ucciso Casey e ciò è stato un male, poiché egli era un uomo buono e coraggioso e aveva fatto molto per gli indiani. I bianchi però ci avevano ridotto alla fame e ci trovavamo in una condizione tale che voi giovani eravate come impazziti e tu stesso non sapevi quello che facevi”.
Intanto il testimone cui si doveva principalmente la brusca conclusione del processo stava chiacchierando con Nock e Powers. Il capitano Baldwin era stato grande amico del tenente Casey sin dai tempi della campagna del generale Miles contro i Sioux nel 1877. Mentre ricordava la morte di Casey, Baldwin non riuscì a trattenere le lacrime. “Ma Casey si trovava in territorio nemico” aggiunse “ed è morto da soldato. Se oggi fosse vivo e potesse testimoniare, nemmeno lui vorrebbe veder condannato questo povero selvaggio”.
La sera, in albergo, Molti Cavalli si rilassò abbastanza da poter esprimere i suoi sentimenti:
“Sono terribilmente contento. Tornerò all’agenzia e sarò un buon indiano. Cavalcherò sul mio pony e sarò di nuovo felice.”
Espresse quindi la sua gratitudine per i suoi avvocati e li invitò ad andarlo a trovare a Rosebud, dove li avrebbe fatti cavalcare sui pony di suo padre e, secondo quanto disse uno dei presenti, “avrebbe poi offerto loro molta zuppa di cane”.
La mattina seguente, il 29 maggio, il quotidiano locale riportò che Molti Cavalli e i suoi amici indiani “si erano incamminati verso lo studio fotografico di Butterfield e Ralston, dove la loro bellezza sarebbe stata immortalata su carta fotografica”. Gli indiani si avviarono poi verso la stazione, dove li attendeva il treno che li avrebbe riportati alla riserva. Una grande folla si era radunata per vederli partire. Gli indiani, sempre amanti dei discorsi, incaricarono Cavallo Americano di parlare per loro ed esprimere i loro sentimenti.
Il capo si rivolse in questo modo ai suoi ascoltatori bianchi: “Che devono fare gli indiani? Morire, soffrire la fame, o combattere? Non chiediamo molto. Dateci l’opportunità di imparare a vivere come voi e non ci fate pagare tre ciò che l’uomo bianco compra per uno. La neve si sta sciogliendo e così presto anche gli indiani scompariranno. Dateci un’opportunità e tenete fede ai vostri trattati!”
Un mese più tardi, il 1 luglio 1891, a Sturgis nel South Dakota un’altra giuria, come previsto, dichiarò i fratelli Culbertson non colpevoli dell’omicidio di Code Scarse. Herbert Welsh, dell’Associazione per i Diritti degli Indiani osservò a riguardo: “Indubbiamente, per l’opinione pubblica in questo caso un verdetto di colpevolezza era diventato impossibile dopo l’assoluzione di Molti Cavalli al processo per l’omicidio del tenente Casey”. La gente che viveva nelle Black Hills, al confine con le riserve Sioux, doveva ancora assimilare la tolleranza di cui avevano dato prova i loro compatrioti nella remota Sioux Falls.
La sentenza del processo a Molti Cavalli avrebbe potuto stabilire un precedente importante se la guerra della Danza degli Spettri (se in prospettiva storica ancora si può concederle questo appellativo dignitoso) non si fosse rivelata l’ultimo grande conflitto armato tra bianchi e indiani. Come ammise il giudice Shiras, la guerra, anche se in via teorica impossibile per la legge, può esistere nella realtà dei fatti. Allo stesso modo i Sioux, pur non disponendo dell’indipendenza e della sovranità necessarie per dichiarare guerra secondo i canoni della legge internazionale, potevano tuttavia nei fatti combatterne una. Ai fini del loro compito, i giudici ritennero sufficiente il fatto che entrambe le parti belligeranti si ritenessero in guerra per stabilire che in effetti di guerra si fosse trattato. In questo ragionamento (come anche nell’allocuzione rivolta da Shiras alla giuria e nell’atteggiamento dei militari) erano anche impliciti gli intollerabili sottointesi che sarebbero scaturiti dalla conclusione opposta. Se non c’era stata alcuna guerra, come si poteva spiegare e giustificare il fatto che i soldati che a Wounded Knee avevano sterminato la banda di Piede Grosso non fossero stati accusati di omicidio e processati?


Ancora Cavallo Americano

Gli indiani dal canto loro dimostrarono interesse nella semantica del conflitto armato soltanto quando si trovarono intrappolati nel sistema giudiziario dei bianchi. Di solito ben poco si curavano dei termini che i bianchi sceglievano per descrivere le ostilità che scoppiavano di tanto in tanto tra le due razze. Tuttavia, per alcuni indiani che si trovarono in situazioni simili a quella di Molti Cavalli, il precedente della decisione del giudice Shiras avrebbe potuto fare la differenza. Ad esempio, avrebbe potuto far la differenza per i trentotto Sioux impiccati dopo un processo militare nel 1862 per aver partecipato all’insurrezione nel Minnesota, o per i Kiowa Satanta e Grosso Albero nel 1871, quando l’esasperato generale William T. Sherman li spedì in Texas dove furono processati da un tribunale di stato per lo sterminio di una carovana; avrebbe fatto la differenza per Captain Jack il Modoc e i suoi compagni, fatti impiccare nel 1873 da una commissione militare per l’uccisione del generale Edward R.S.Canby durante un colloquio di pace nei Lava Beds californiani. Ma le “guerre” indiane erano ormai finite, e la conseguenza principale della decisione del giudice Shiras fu quella di risparmiare la vita a un giovane in cui due culture si erano fatalmente scontrate.
La preoccupazione dei protagonisti principali del caso fu tutta per la questione bellica e i motivi per l’uccisione dell’ufficiale furono lasciati praticamente senza spiegazione. Anche se non gli fu permesso di raccontare la vicenda dal suo punto di vista al banco dei testimoni, Molti Cavalli rilasciò una lunga intervista al reporter John McDonough del New York World. Descrivendo il momento in cui aveva affrontato Casey, Molti Cavalli affermò: “A quell’uomo, che era venuto a spiare nel nostro accampamento, fu consigliato di andarsene immediatamente ma lui si adirò e disse che sarebbe andato via, ma che sarebbe poi tornato con truppe sufficienti per catturare i nostri capi. Potete ben capire come mi sentissi quando udii che avremmo dovuto soffrire ancora di più solo per aver fatto sentire la nostra voce e aver chiesto al governo il cibo e gli abiti che ci doveva. Fu questo a passarmi per la mente e allora pensai che proprio lì, alla mia destra, cavalcava una spia dei nemici che ci stava annunciando con arroganza la sua decisione di ritornare a farci ulteriormente del male. Il soldato si voltò per andarsene e un momento dopo cadde a terra morto, con il proiettile che gli avevo sparato nel cervello.”


Un accampamento di “ostili”

L’unica altra persona presente a questo incontro che conosceva abbastanza l’inglese da riportare quanto era stato detto era Pete Richard. Il suo resoconto non lascia trapelare alcuna traccia di bellicosità nelle parole o nell’atteggiamento di Casey. Nemmeno gli avvocati Nock e Powers, che probabilmente avevano sentito la storia dallo stesso Molti Cavalli, accusarono Casey di aver usato minacce durante l’incontro con gli indiani, anche se durante il secondo processo Powers lasciò intendere che, mentre cavalcava a fianco dell’ufficiale prima di incontrare Richard, Molti Cavalli avesse afferrato qualche frase da cui aveva concluso che l’accampamento sarebbe stato attaccato e i suoi occupanti uccisi. Tuttavia un simile atteggiamento, oltre ad essere in contrasto con la maniera consueta e ben conosciuta con cui Casey era solito trattare con gli indiani, non sarebbe stato di alcun giovamento allo scopo immediato della missione, che era quello di avviare trattative di pace con i capi o almento di avvicinarsi abbastanza da poter spiare nell’accampamento.
Molti Cavalli (Plenty Horses)
Una spiegazione più realistica del movente di Molti Cavalli fu forse quella che lui stesso diede nel marzo dello stesso anno al gran giurì che lo incriminò a Deadwood e che resta un potente, eloquentissimo atto d’accusa nei confronti di una politica che mirava a plasmare un intero popolo a immagine e somiglianza dei suoi conquistatori. Come ricordò più tardi il presidente della giuria, Valentine T. McGillycuddy, ex-agente a Pine Ridge, Molti Cavalli aveva dichiarato: “Sono un indiano. Ho frequentato il collegio di Carlisle per cinque anni e sono stato istruito negli usi e costumi dei bianchi…Mi sentivo solo. Ho sparato al tenente per conquistarmi un posto tra il mio popolo. Ora finalmente sono uno di loro. Mi impiccheranno, e gli indiani mi seppelliranno come un guerriero e saranno fieri di me. Sono soddisfatto.”
Molti Cavalli non riuscì però a conquistarsi alcun posto tra il suo popolo. Oggi i vecchi indiani della riserva di Rosebud lo ricordano vagamente come un uomo solitario, che viveva tranquillo con la moglie Josephine e il figlio Charles nell’unica stanza dellla sua capanna di legno a Oak Creek, “non particolarmente amato” da vicini e conoscenti.
I documenti dell’agenzia riportano la data della sua morte, il 15 giugno 1933, un anno dopo la scomparsa della moglie e del figlio.
La gloria che Molti Cavalli aveva cercato di conquistarsi tra il suo popolo era stata tanto breve quanto luminosa.