Il sacco delle riserve indiane
A cura di Sabina Morandi
E’ cominciato tutto nel 2003 con una turbina eolica da 750 chilowatt costruita dai Sioux della riserva del Rosebud nel South Dakota. Il vecchio sogno di un capitalismo ecologico sembrò incarnarsi in quell’accordo transcontinentale «in cui tutti ci guadagnano» scrisse entusiasta il Business Journal, aggiungendo che il progetto consentiva «di combattere contro il riscaldamento globale producendo energia pulita e, al contempo, di aiutare i nativi americani».
In effetti, nel sottosuolo delle riserve indiane di occasioni di profitto ce ne sono parecchie: secondo il Dipartimento degli Interni nelle viscere dei territori tribali potrebbero esserci 54 miliardi di tonnellate di carbone, 38 trilioni di piedi cubi di gas naturale e 5,4 miliardi di barili di petrolio, circa il 35% delle risorse fossili degli Stati Uniti secondo l’Indigenous Environmental Network.
A tutto ciò bisogna aggiungere le fonti alternative: «il vento che soffia nelle riserve indiane, solo considerando i quattro stati settentrionali delle Grandi pianure, può generare almeno 200 mila megawatt di energia» scriveva nel 2005 Winona LaDuke su Indian Country Today, aggiungendo che, arruolando «i nativi del sud-est degli Stati Uniti si potrebbe generare abbastanza elettricità da chiudere tutte le altre centrali del paese».
In questi tempi di montante anti-imperialismo e crescente instabilità politica, i territori indiani dell’Ovest selvaggio possono essere molto attraenti per i petrolieri. Scarsi controlli, esenzioni fiscali e facilitazioni legali, rendono molto appetibile un’attività che, al contempo, consente di dare una verniciata di verde ai propri affari approfittando della «nuova politica energetica nazionale che» come ha dichiarato Theresa Rosier della segreteria gli Affari Indiani «mira allo sviluppo energetico delle comunità native nelle riserve e in Alaska per aiutare il paese ad avere affidabili fonti energetiche». L’idea che il futuro energetico americano sia legato allo sfruttamento dei giacimenti nazionali più che all’abbattimento dei consumi dissennati, può essere rintracciata in molte delle normative sfornate da allora per rendere possibile lo sfruttamento dell’energia delle riserve. Il problema è che i territori indiani appartengono a nazioni originarie – le tribù – e non agli Stati Uniti o all’industria energetica. Se però una compagnia riesce a fondare una società mista coinvolgendo una delle tribù che abita nelle riserve non solo può accedere alle risorse ma si mette al riparo dalle normative ambientali e dai controlli federali, una vera e propria cuccagna per un settore che ha sempre mal sopportato le regole.
Impianti eolici
Le prime compagnie miste risalgono al 1971, quando il Congresso stanziò un miliardo di dollari per sponsorizzare la nascita delle “compagnie tribali” in Alaska. In realtà l’obiettivo era di spezzare il fronte delle tribù che si opponevano alla costruzione dell’oleodotto, ma l’iniziativa venne presentata come un modo per stimolare l’economia delle riserve e mitigare la terribile povertà degli indiani. Solo che, quasi subito, cominciò a succedere un fatto strano: le compagnie si aggiudicavano contratti federali per milioni di dollari che poi venivano dati in subappalto. La Olgoonik Corporation della tribù degli Inupiat Eskimo, per esempio, fra il 2002 e il 2005 ha guadagnato più di 225 milioni di dollari costruendo basi militari in giro per il mondo. In realtà, grazie al suo “status tribale” la Olgoonik poteva ottenere i contratti senza partecipare alle gare per poi darli in appalto a una compagnia tristemente nota, l’Halliburton. Nel 2004 un’altra azienda nativo-americana, la Alutiiq, si accaparrò parecchi contratti governativi e poi li subbappaltò alla britannica Wackenhut. Nello stesso periodo un’altra compagnia tribale, la Chugach Alaska Corp. di proprietà di 1.900 nativi dell’Alaska, superò giganti come IBM, Motorola, Goodrich, Goodyear e AT&T nella quantità di contratti per la difesa. Il modello sperimentato in Alaska era perfetto: associandosi con gli indiani le corporation potevano entrare nelle riserve, ottenere contratti fuori gara, godere di notevoli incentivi fiscali e, soprattutto, vendere la privatizzazione delle risorse del sottosuolo come “aiuto allo sviluppo”.
Nell’aprile del 2003, quando la NativeEnergy completò la turbina eolica dei Rosebud Sioux ormai era diventato chiaro che il modello basato sullo sfruttamento dei combustibili fossili avrebbe avuto vita breve e che la nuova frontiera erano le rinnovabili. Del resto NativeEnergy era stata fondata nel 2000 proprio per «aiutare i consumatori abbracciare uno stile di vita amico del clima» attraverso la costruzione di «turbine eoliche e altri impianti per la produzione di energia rinnovabile». La scelta di sviluppare l’eolico nei territori indiani venne presentata come un modo per portare un lavoro, per giunta pulito, ai cittadini più poveri del Nord-America. In realtà la NativeEnergy è stata fondata da Tom Boucher, una vecchia volpe dell’industria energetica che pensò bene di finanziare il progetto approfittando del sistema di scambio delle emissioni previsto dal protocollo di Kyoto. Secondo questo schema le compagnie ecologicamente responsabili producono “crediti d’inquinamento” da rivendere alle industrie più sporche, che possono così “bilanciare” le loro emissioni senza ridurle. La mossa geniale fu quella di comprare dai Rosebud Sioux tutti i crediti di emissione che si presume verranno risparmiati finché la turbina eolica funzionerà (qualcosa come 50 mila tonnellate di anidride carbonica) e poi rivenderli per finanziare il progetto pilota.
Nell’agosto del 2005 l’Intertribal Council on Utility Policy ha comprato la maggioranza delle azioni per conto dei membri delle tribù e NativeEnergy è diventata una compagnia tribale a tutti gli effetti, con l’obiettivo di costruire nuove turbine in otto riserve. Pat Spears, il presidente del consiglio intertribale e membro della tribù dei Brule Sioux, si è detto entusiasta del progetto «perché dimostra che vivere in armonia con la Madre terra non fa solo bene all’ambiente ma anche al business». Probabilmente non è una coincidenza che, in quegli stessi giorni, sia passata una legge – l’Energy Policy Act – che contiene specifiche disposizioni sulle risorse energetiche delle riserve. Tenendo a mente che le compagnie a maggioranza indiana sono esentate da normative e controlli, che possono ottenere contratti governativi senza passare per le gare d’appalto e, infine, che quella legge ha stanziato forti sussidi per l’energia eolica in particolare, la nuova normativa sembra fatta apposta per NativeEnergy.
Nella legge, però, ci sono parecchie disposizioni decisamente allarmanti. Prima di tutto si dà agli Stati Uniti il potere di assicurarsi dei diritti sulle terre indiane senza chiedere il permesso alle tribù se entra in ballo l’interesse strategico. Oltretutto, secondo l’esperto di energia dell’Indigenous Environmental Network, Clayton Thomas-Muller, l’Energy Policy Act «fa a pezzi due leggi fondamentali per la protezione ambientale, il National Environmental Policy Act e il National Historic Preservation Act, entrambi utilizzate dalle comunità indigene per proteggere i loro luoghi sacri». Ma non è tutto. Con la scusa di accrescere la sovranità dei nativi, l’Energy Policy Act trasferisce la responsabilità del monitoraggio ambientale dal governo federale a quello tribale. Non ci vuole un genio per capire che difficilmente gli indiani delle riserve saranno più efficienti nel monitorare l’industria energetica del governo federale o delle Nazioni Unite.
D’altro canto è necessario un atto di fede per credere che l’industria energetica, notoriamente rapace e decisamente poco interessata al disastro climatico che sta provocando in nome del profitto, improvvisamente sia diventata così sensibile nei confronti dell’ambiente o dei diritti dei popoli indigeni.
Dal punto di vista degli indiani è ancora più difficile credere che un’ulteriore deregulation accoppiata con incentivi economici possa portare a qualcosa di diverso dalla solita rapina. Alla fin fine il boom di infrastrutture energetiche tribali si rivela per quello che è: l’inizio di una nuova corsa per accaparrarsi le terre indiane da parte dei soliti noti. Si spera almeno che, attraverso lo sviluppo dell’eolico, del solare e di altre energie rinnovabili, le tribù possano conquistare un minimo di indipendenza energetica. Nel qual caso, forse, si potrà cominciare a parlare davvero di sovranità tribale.