La questione indiana (“L’unico indiano buono…”)

Quanto alle riserve, con il tempo fu il governo stesso che dovette demolirle pezzo dopo pezzo. Il popolo non riconosceva agli indiani il diritto di proprietà, invadeva i loro territori; e quale governo elettivo avrebbe osato cacciare i suoi elettori dalla terra abusivamente occupata?
Gli indiani si difendevano nel solo modo che conoscevano: uccidendo gli intrusi, con una mostra di ferocia che aveva soprattutto la funzione d’intimidire quanti fossero tentati di imitarli; ma le rappresaglie, anch’esse spietate, erano la risposta invariabile del governo. Il problema doveva essere risolto separando le due razze ormai inconciliabili, e a questo si arrivò nel 1828.
Nel 1803, l’Unione aveva comprato dalla Francia di Napoleone la Louisiana occidentale; vale a dire le pianure che si estendono dal golfo del Messico al confine canadese, oltre il Mississippi.
Andrew Jackson
L’affare, concluso da Jefferson senza il coinvolgimento del Congresso, aveva messo in crisi la costituzione, che non prevedeva acquisti di territorio, e si era dimostrato, per quel che sembrava allora, pessimo, in quanto le oltre ottocentomila miglia quadrate acquisite erano un deserto semiarido, inadatto all’agricoltura. Perché non farne un Territorio Indiano dove trasferire le tribù dell’Est? Il progetto, presentato al Congresso dal presidente Monroe nel 1825, fu approvato nel 1828, quando s’insediò alla Casa Bianca Andrew Jackson. E “Old Hickory” superò se stesso anche stavolta. Il governo gli aveva dato facoltà di trattare con gli indiani, non di cacciarli, ma egli non esitò a usare le baionette, quando e dove incontrò resistenza. I Cherokee, che erano divenuti cristiani e agricoltori per adeguarsi al modo di vivere dei visi pallidi, si appellarono alla Suprema Corte, che sentenziò in loro favore. Jackson ignorò la sentenza. I Seminole della Florida lottarono eroicamente per anni, decisi a non mollare le loro paludi, ma alla lunga dovettero cedere. Un tentativo di ritorno dei Sauk e dei Fox, già trasmigrati nell’oltre-Mississippi, fu rapidamente sventato con un piccolo massacro a Bad Axe (Illinois). E così l’America, nei primi anni Quaranta, restò spartita tra le due razze. A Est del Mississippi, dove la terra era buona, stavano i bianchi; a Ovest, nel deserto, i rossi. Il problema era finalmente risolto.
L’illusione durò solo pochi anni. Nella prima metà del XIX Secolo l’America era ancora un continente sconosciuto, misterioso, in gran parte da scoprire; e le scoperte, cambiando la realtà, cambiano anche le idee alla gente. Prima ancora che i Seminole fossero domati, gli americani avevano scoperto l’Oregon, grazie ai missionari metodisti. Nell’Oregon c’erano tribù indiane di poco conto, tra le più miserabili del continente, ma non furono queste che riproposero il problema: furono le tribù delle pianure, Cheyenne, Sioux, Pawnee, Arapaho, Piedi Neri, Corvi, Teste Piatte, al Nord; Kiowa, Comanche, Apache delle pianure al Sud, dove, nel frattempo, era nata una repubblica indipendente: quella del Texas.
Le carovane dirette all’Oregon, attraversando i territori indiani, producevao danni incalcolabili: abbattevano i pochi alberi lungo le rive dei fiumi; cacciavano i bisonti con le armi da fuoco, facendoli fuggire lontano, e i problemi alimentari degli indiani, già abbastanza ardui, si aggravavano. I danneggiati si rifacevano come potevano: razziando un po’ del bestiame che gli emigranti si portavano appresso e uccidendo qualche cacciatore incauto che si fosse spinto troppo lontano dalla pista.
In molti casi i cacciatori si sperdevano nelle pianure per mancanza di punti di riferimento, andando a morire di fame e di sete chissà dove; ma quando uno non tornava, se ne dava la colpa agli indiani.
Una famiglia di Seminole
Nel 1851, il governo si decise a intervenire per proteggere gli emigranti e organizzò un grande convegno di tribù sull’Horse Creek, vicino a Fort Laramie. Fu il vecchio mountain-man Tom “Mano rotta” Fitzpatrick, divenuto indian agent del distretto, a occuparsene. V’intervennero, dozzina più dozzina meno, diecimila indiani appartenenti a varie tribù e un accordo fu raggiunto. Gli indiani avrebbero lasciato aperto un corridoio largo quaranta miglia, lungo la pista dell’Oregon, in cambio di risarcimenti annui in viveri, armi e mercanzie; ma quando i delegati governativi chiesero che nominassero un responsabile per tutti scuoterono la testa: non potevano.
I delegati di Washington ne dedussero che non avevano intenzione di rispettare l’accordo, e invano Tom “Mano rotta” tentò di spiegare loro che nessun capo indiano possedeva un’autorità globale sul popolo rosso, che la società indiana era perfettamente anarchica e i suoi capi semplici fiduciari che potevano soltanto consigliare il meglio, in base alla loro esperienza o in forza del prestigio personale. Il governo non avrebbe riconosciuto un trattato che non fosse firmato dalla controparte, e per non tornare a mani vuote attribuirono a un piccolo, insignificante capo dei Sioux Brulé – Mato Wayuhi (chiamato Conquering Bear, ovvero Orso Agitato) -l’autorità che non aveva, ottenendo il suo consenso. Gli altri capi scuoterono la testa gravemente: “Non può funzionare”, dissero, e se ne tornarono alle loro sedi.
Non funzionò. Nel 1853, per una vacca smarrita da un emigrante mormone e uccisa da un Sioux Miniconjou, ospite dei Brulé, le cose precipitarono.


I carri attraversano il campo Sioux

Il mormone rifiutò l’indennizzo che gli fu offerto e si appellò all’autorità militare di Fort Laramie, facendone una questione di principio: l’indiano aveva violato il trattato del 1851 e doveva essere arrestato. Mato Wayuhi fu convocato al forte e propose di rimettere la faccenda al suo indian agent, momentaneamente assente.


Fort Laramie nel 1850

Il mormone s’impuntò, insinuò che i soldati avevano paura di quattro pidocchiosi indiani. Ci si mise di mezzo un tenente fresco di nomina, chiamato Grattan, smanioso di dimostrare che non aveva paura nemmeno dell’intera nazione Dakota. Avrebbe arrestato lui il colpevole. Il comandante gli diede trenta uomini e un obice, raccomandandogli di usare il cervello, per evitare incidenti.
Mato Wayuhi
Grattan marciò sul campo dei Brulé, sbraitò che voleva il colpevole entro due minuti e, non avendolo ottenuto, aprì il fuoco con l’obice sui capi raccolti a concilio. Il primo a cadere fu Mato Wayuhi, ma la reazione fu immediata e mezz’ora dopo, sul luogo, non restavano che i cadaveri di Grattan e dei suoi trenta soldati.
Gli indiani, certi che la rappresaglia non sarebbe mancata, se ne andarono chissà dove ma siccome il guaio era fatto, prima di abbandonare il campo avevano saccheggiato i magazzini del mercante autorizzato a fornire loro le merci governative, dopo avere ucciso i due addetti. La rappresaglia tardò un anno, ma arrivò, inevitabile.
Che Grattan fosse il provocatore, che avesse disubbidito agli ordini, che fosse stato lui ad aprire il fuoco, non fu tenuto in conto.
Quando il generale Harney arrivò con mille soldati al seguito, i Brulé erano tornati vicino alla pista, ad Ash Hollow. In fondo, Mato Wayuhi, il responsabile della pace aveva pagato con la vita, e non solo lui. Sembrava un conto chiuso.
Ma il paese meno militarista del mondo era, fin d’allora, sensibile soprattutto alle lezioni inflitte alle sue forze armate. Harney pretendeva i responsabili dell’eccidio, non era venuto per chiarire chi avesse ragione e chi torto, ma per punire, e siccome i capi indiani insistevano sul loro buon diritto alla difesa, scatenò l’attacco.
I morti furono più di cento, soprattutto donne e bambini falciati dalla cavalleria.
Fu soltanto dopo il massacro di Ash Hollow che le tribù dell’Ovest impararono la lezione. E fu da quel giorno che le guerre indiane divennero inevitabili, così come inevitabile fu il genocidio che seguì.
Ma questa è un’altra storia.

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