Le frontiere del cinema western

Il revisionismo

Cronologicamente il revisionismo western era nato molto tempo prima, addirittura agli albori del cinema, quando Thomas Ince e David Griffith avevano posto l’accento sul declino della razza pellerossa a contatto con la civiltà, sul cinismo del Bianco conquistatore, nonché sul crudo realismo di massacri e distruzioni di cui la storia della Frontiera è assai ricca.
In verità, tutta la cinematografia western è costellata di esempi che anticipano questa corrente affermatasi molto tempo dopo. In un certo senso, sono revisionisti sia “L’ultimo Apache” di Aldrich, quanto alcuni film di John Ford, da “I dannati e gli eroi” a “L’uomo che uccise Liberty Valance”.


Burt Lancaster nel film “L?ultimo Apache”

Il revisionismo della fine degli Anni Sessanta si deve ad alcuni registi che attaccarono, a volte in maniera esagerata, la leggenda del West, cercando di assestare un colpo mortale all’idealismo romantico che stava alle origini del mito.
Elliott Silverstein, rispolverando la figura tradizionale dello “squaw-man”, già cavallo di battaglia di De Mille e Samuel Fuller (“La tortura della freccia”) in passato, tentò di avvicinare il pubblico alla comprensione della tragedia pellerossa mediante l’azione di un nobile europeo, dapprima reso schiavo e poi conquistato alla causa dei Sioux (“Un uomo chiamato cavallo”, 1969).
Arthur Penn pretese di rivisitare l’intera storia del West attraverso i ricordi del cinico Jack Crabb (Dustin Hoffman) in “Piccolo Grande Uomo” (1970)
mettendo in caricatura personaggi quali Wild Bill Hickok e il generale Custer e commettendo molti errori di interpretazione. Lo stesso anno, Ralph Nelson attinse al romanzo di Theodore V. Olsen, “Arrow in the Sun”, per dare una versione propria delle guerre contro gli Indiani, assimilate al conflitto in corso nel Vietnam. L’effetto raggiunto da “Soldato Blu” (1970) nonostante la spettacolarità dell’azione e la crudezza delle scene del massacro finale – paragonato all’eccidio del Sand Creek, ma anche a quello di Song My – è quello di impressionare la platea stigmatizzando l’impegno militare americano in Indocina, ma le lacune e le contraddizioni del film affiorano, all’occhio di un esperto, in maniera evidente.
Più concreto nella costruzione, quantunque ancora influenzato dal parallelo con il Vietnam, “Nessuna pietà per Ulzana”, di Aldrich (1972) si rivela elegiaco e fatalista, quanto attendibile nei suoi sviluppi, riflettendo alcuni tratti salienti del racconto “Normale servizio di pattuglia” di Ernest Haycox. Il risultato migliore lo ottiene Sidney Pollack con “Corvo Rosso non avrai il mio scalpo” (1972) cogliendo l’obiettivo di narrare, senza esagerazioni né introspezioni psicologiche, la dura esistenza dei cacciatori di pellicce attraverso la biografia romanzata di Mangiafegato Johnson (il titolo originale del film è infatti “Jeremiah Johnson”).
“Buffalo Bill e gli Indiani” (1976) aggredisce forse ingiustamente l’immagine di William F. Cody, cercando di rivelarne, dietro il paravento creato dal mito, la vera natura speculativa, ma Robert Altman dimentica che, senza il “Wild West Show”, non sarebbe probabilmente nato neppure il cinema western.
Quelli di Penn, Nelson e Altman non sono gli unici tentativi di mettere a nudo la complessa personalità degli eroi del West. In quegli anni, diversi registi cercheranno di sfrondare i protagonisti della Frontiera della loro aureola, rivalutando e a volte giustificando l’operato dei “dannati” come Billy the Kid (“Pat Garret e Billy the Kid”, Sam Peckinpah, 1973) Butch Cassidy e Sundance Kid (Butch Cassidy”, 1969) goliardicamente rappresentati dal regista George Roy Hill in una pellicola di grande suggestione, ma poco rispettosa dei fatti.


La copertina del film “Piccolo Grande Uomo”

Revisionista contro corrente appare invece Robert Mulligan con il suo “The Stalking Moon” (“La notte dell’agguato”, 1969) che presenta l’Indiano come un essere crudele e privo di sentimenti umani, un autentico kamikaze ante litteram che si muove in un’atmosfera crepuscolare da film “noir”. La vittima è la donna bianca Sarah Carver (Eva Marie Saint) che gli è stata sottratta insieme al figlio mezzosangue per tornare alla vita civile insieme all’attempato esploratore Sam Varner (Gregory Peck) scevro da pregiudizi, quanto spaventato dalla prospettiva di dover gestire una propria famiglia.
Sadismo e violenza degni di “Soldato Blu” dominano il film “Apache”, di William A. Graham (1972) nel quale una squaw, vanamente difesa da un coraggioso giovane, viene violentata dalla peggiore soldataglia. Il film non viene molto apprezzato dal pubblico e finisce presto nel dimenticatoio.
Infine, nel 1979, Anthony Harvey propone una lettura del West inconsueta ed amorale, con “Io, grande cacciatore”, ricalcando un modo di pensare assai diffuso nel West. La donna bianca, rapita da un Kiowa, fa soltanto da esca per la cattura di un meraviglioso cavallo bianco “Eagle Wing”, che è anche il titolo originale dell’opera) posseduto dal cacciatore Pike. I due contendenti si battono esclusivamente per il proprio prestigio personale e per la conquista dell’ambìto destriero, fedeli al motto della Frontiera che “la miglior donna non vale un buon cavallo”.
La rivisitazione critica dell’epopea proseguirà ancora per anni, con una produzione sempre più rarefatta, a conferma della crisi galoppante del western. Nel 1970 erano stati lanciati sul mercato 22 film, nel 1977 si riducono a 7, nel 1982 scendono a 4.


Il Cavaliere Pallido, con Clint Eastwood

Bisognerà attendere che i registi della nuova generazione – soprattutto Clint Eastwood con “Il cavaliere pallido” (1985) e “Gli spietati” (1992) Kevin Costner con “Balla Coi Lupi” (1990) Michael Mann con “L’ultimo dei Mohicani” (1992) e Walter Hill con “Geronimo” (1993) – resuscitino l’antica Fenice dalle proprie ceneri.

La quarta frontiera

Ma le celebrazioni del vecchio West non si esauriscono con la fine delle guerre indiane o dei duelli nelle assolate città della pianura.
Terminata l’epoca delle carovane in marcia, dei conflitti con gli Indiani e delle lotte fra contadini ed allevatori, il cinema rivolge la propria attenzione al periodo successivo, agli anni in cui la Frontiera subisce un’altra radicale trasformazione. Questa fase si colloca in un momento, storicamente inquadrabile fra la fine dell’Ottocento e la seconda guerra mondiale, ma le sue propaggini si spingono fino all’era contemporanea: la società fondata dai pionieri deve ora misurarsi con l’avanzata del progresso e con le inevitabili trasformazioni e ripercussioni sociali che esso comporta.
Nasce un nuovo tipo di conflittualità, fra l’uomo del West, ancorato a tradizioni e valori del passato e la spregiudicata intraprendenza del moderno colonizzatore. La scoperta del petrolio, che prospetta nuove possibilità di facile ricchezza, le speculazioni minerarie ed edilizie che faranno scempio delle terre degli avi, l’arrivo di avidi affaristi che non mostrano alcun riguardo verso le tradizioni del frontiersman, il problema indiano ridotto ad una fastidiosa seccatura che il disinteresse generale finge di avere risolto con l’istituzione delle riserve.
Questa è l’essenza della Quarta Frontiera, alla quale il western dedica spesso film di notevole levatura, quali “Il gigante”, di George Stevens (1956) “Solo sotto le stelle” di David Miller (1962) “Hud il selvaggio”, di Martin Ritt (1963) “La caccia” di Arthur Penn (1966) “Ucciderò Willie Kid” di Abraham Polonsky (1969) “Il mucchio selvaggio” di Sam Peckinpah (1969) “L’ultimo spettacolo” di Peter Bogdanovich (1971) “L’ultimo buscadero” di Peckinpah (1972) “Il pistolero” di Don Siegel” (1976) “Arriva un cavaliere libero e selvaggio”, di Alan J. Pakula (1978) “Il cavaliere elettrico” di Sidney Pollack (1979) “Cuore di Tuono” di Michael Apted (1992) e “Vento di passioni” di Edward Zwick (1994).
Gli emarginati e i delusi del sogno infranto, si lasciano alle spalle le sue rovine per riparare altrove, ma scelgono talvolta la propria autodistruzione, che può essere rappresentata dalla guerra in Corea (“L’ultimo spettacolo”) dall’anacronistica resa dei conti con le ombre del proprio passato (“Il pistolero”) dal furore eroico in nome dell’amicizia virile (“Il mucchio selvaggio”) o della preservazione dei valori della famiglia (“Vento di passioni”). L’insurrezione dei Lakota di Pine Ridge nel 1973 lascia il segno nel suggestivo “Cuore di Tuono”, film-denuncia dell’avidità degli speculatori bianchi, avvalendosi della figura del reincarnato Ray Levoi (Val Kilmer) agente dell’F.B.I. tornato nella riserva per soccorrere la propria gente.
Il western della Quarta Frontiera va oltre il revisionismo e sconfina in aperta dissacrazione con “Brokeback Mountain”, di Ang Lee, tratto dall’omonimo romanzo di E. Annie Proulx, un grande successo di critica e di pubblico del 2005.


Ucciderò Willie Kid

Per alcuni il film sancisce la fine del mito del cow-boy, ma la morale di “L’ultimo spettacolo” – che si conclude emblematicamente con la proiezione del film “Il Fiume Rosso” di Howard Hawks in un’atmosfera nostalgica nella quale il West rimane soltanto un pallido ricordo – aveva già anticipato questa tendenza.
Il tempo della conquista, del coraggio, delle imprese esaltanti ha lasciato il posto ad una monotona vita di routine, in luoghi senza futuro e in una dimensione nella quale la vita scorre in modo insulso e deprimente. E’ inevitabile che anche il modello virile dell’uomo della Frontiera subisca questa trasformazione, rivelando inclinazioni che l’epopea eroica, permeata della sua etica conservatrice, non ha mai osato esplorare, sebbene l’abbia talvolta lasciata esplicitamente sottintendere (“Ultima notte a Warlock”, di Edward Dmytryk, 1959).
La società onesta e laboriosa che i pionieri intendevano creare si rivela uno squallido consesso di persone avide che la noia ed il fallimento delle proprie aspirazioni trasforma in esseri spietati e crudeli in “La caccia”, Il puro Kirk Douglas di “Solo sotto le stelle”, che incarna i valori dell’uomo solitario di “My Rifle, My Pony and Me”, dopo essere sfuggito ad un lungo inseguimento condotto anche con gli elicotteri, viene abbattuto sulla frontiera messicana da un mostro tecnologico, un camion che trasporta elettrodomestici.


My Rifle, My Pony and Me

Metaforicamente, la sua fine ricorda quella del leggendario Pecos Bill, che muore ingerendo del filo spinato, simbolo del nuovo ordine civile voluto dai conquistatori del West.

Universalità del western

Le atmosfere classiche del western rappresentano un contesto ideale che travalica i confini storico-geografici della Frontiera americana.
Volendo assegnare delle definizioni, si potrebbe parlare di un western “canadese”, nel quale fanno spicco film quali il celebre “Giubbe Rosse”, di Cecil B. De Mille, interpretato da Gary Cooper nel 1940 e “Le Giubbe Rosse del Saskatchewan” di Raoul Walsh (1954) con Alan Ladd, ma soprattutto di un western di ambientazione messicana, che offre una vastissima produzione, da “Vera Cruz” di Robert Aldrich (1954) a “Il mucchio selvaggio” di Sam Peckinpah, prodotto nel 1969.
Per estensione, qualcuno considera assimilabile al medesimo genere anche “”La Carovana dei coraggiosi” (George Sherman, 1961) “Zulu” di Cy Endfield (1964) e “Zulu Dawn” di Douglas Hickox, del 1979, nei quali il teatro dell’azione si sposta in Sudafrica e gli Indiani sono sostituiti dai combattivi Zulu.
Secondo tale interpretazione estensiva, emergerebbe anche un western “australiano”, che si esprime attraverso “Carabina Quigley” di Simon Wincer (1990) “The Tracker”, di Rolf De Heer (2002) “Ned Kelly”, di Gregor Jordan (2003) e “Australia”, di Baz Luhrmann (2008) nelle quali il Pellerossa è sostituito dall’indigeno locale. Il mistero dei nativi pre-colombiani, mai sufficientemente indagato dal cinema, trova maggiore approfondimento nel contrasto che oppone i valori della cultura aborigena all’invasivo pragmatismo del colonizzatore europeo, che impone una forzata civilizzazione e catechizzazione delle minoranze di colore.
Verrebbe da chiedersi, a questo punto, perché in tutti questi Paesi, particolarmente in Messico e nell’America del Sud, il western non abbia avuto lo stesso impulso che ebbe negli USA – quasi tutte le pellicole elencate sono di produzione americana o europea – ma la risposta appare piuttosto ovvia e forse si può sintetizzare in un’unica parola: Hollywood!
La magia creata dalla mecca del cinema, che monopolizzò il genere per decenni, non incontrò mai altrove una seria alternativa, se si esclude il periodo in cui lo “spaghetti-western” fece asurgere Cinecittà a potenziale concorrente. Tuttavia ciò avvenne in un momento in cui la cinematografia western americana aveva imboccato la parabola discendente e comunque il fenomeno legato alla trilogia di Sergio Leone, ai Ringo, ai Django ed agli improbabili Sartana non fu di lunga durata.
Le giubbe rosse del Saskatchewan
Fortemente condizionata dall’esigenza del confronto finale – il duello individuale, la sfida che si trasforma in un massacro, il bounty killer o il colonnllo di turno che porta a compimento la sua vendetta – del tutto indifferente alla molteplicità delle situazioni del genere (gli Indiani, i cacciatori di pellicce, gli esploratori, la cavalleria sono sempre assenti) finì per stancare a causa della sua ripetitività e delle crescenti esagerazioni, che in qualche misura avevano peraltro influenzato anche il cinema hollywoodiano.
L’epopea d’oro del western fu caratterizzata da una serie di fattori sinergici che ne propagarono la fama in tutto il mondo.
L’America di quel periodo, soprattutto a cavallo tra la prima e la seconda guerra mondiale, si avvalse di registi del calibro di Raoul Walsh, Howard Hawks, John Ford, Delmer Daves e più tardi di maestri quali Robert Aldrich, Sydney Pollack e Sam Peckinpah: gente entusiasta e convinta del proprio lavoro, capace di catturare l’interesse di un vasto pubblico. Per alcuni di essi, girare un film western significava infatti calarsi anima e corpo nello spirito della Frontiera, rivivendo le emozioni dei pionieri, dei soldati e dei guerrieri indiani. John Ford dichiarò di essersi ispirato, per l’ambientazione de “I cavalieri del Nord-Ovest”, ad un grande pittore della Frontiera: “Ho tentato di imitare lo stile di Remington…Come obiettivo minimo mi ero dato quello di cogliere il movimento che gli sono peculiari e penso di esserci in parte riuscito” (Petr Bogdanovich, “Il cinema secondo John Ford, Partiche Editrice, Parma, 1990).
Il cast di attori d’eccezione di cui essi si servirono è universalmente noto: John Wayne, James Stewart, Gary Cooper, Burt Lancaster, Kirk Douglas, Gregory Peck, Richard Widmark, Anthony Quinn, per citarne soltanto alcuni dei migliori, affiancati da figure femminili – Jane Russell, Maureen O’Hara, Joan Crawford, Debbie Reynolds, Vera Miles, Audrey Hepburn, Angie Dickinson – che stentavano ancora a ricavarsi uno spazio nell’esclusivo universo maschilista del West.
Purtroppo il western, anche quando dimostrò di possedere grandi qualità, non riuscì a raccogliere i riconoscimenti dovuti, perché lungamente considerato dalla critica come un genere minore.
Un pregiudizio che è venuto meno soltanto nell’ultimo ventennio.

Riconoscimenti tardivi

Il primo Oscar concesso ad un western come film fu assegnato nel 1931 a “Cimarron” (I pionieri del West) di Wesley H. Ruggles, interpretato da Richard Dix e Irene Dunne.
“I cavalieri del Nord-Ovest” di John Ford (1949) ne meritò un altro per la fotografia di Winton C. Hoch e Charles P. Boyle, ma solo dopo gli Anni Novanta del ventesimo secolo, il genere ottenne gratificazioni massicce ed a volte perfino eccessive, se paragonate ai meriti indiscussi di precedenti film deliberatamente ignorati.
“Balla Coi Lupi” di Kevin Costner (1990) vinse ben sette statuette, “Gli spietati” di Clint Eastwood (1992) ne ebbe quattro. Se da un lato ciò equivalse alla definitiva consacrazione del western come genere di serie A, rimase il rammarico per il mancato apprezzamento di decine di ottime pellicole prodotte in quasi un secolo.
Appare emblematico che a John Wayne sia stato concesso l’Oscar alla carriera dopo l’interpretazione di “El Grinta” (Henry Hathaway, 1969) che non è certamente il suo film migliore. Un’evidente riparazione delle ingiustizie fatte al grande attore in passato, perchè Wayne avrebbe semmai meritato l’Oscar per “Il Fiume Rosso” di Howard Hawks (1948) “I cavalieri del Nord-Ovest”, “Sentieri selvaggi” e “L’uomo che uccise Liberty Valance”, questi tre ultimi diretti da John Ford.
Purtroppo la lunga odissea del western, che vanta una produzione di oltre 3.000 film, ha rallentato moltissimo la sua marcia negli ultimi anni. Le pellicole del genere sono sempre di meno, caratterizzate a volte da idee sfruttate e poco originali, o da remake di film precedenti. Non convincono pienamente, infatti, nonostante la bravura degli interpreti, la spettacolare riedizione di “Quel treno per Yuma” di James Mangold (2007) che fa rimpiangere l’originale soggetto di Delmer Daves (1957) nè il recentissimo “Appaloosa”, di Ed Harris (2008) che non brilla per originalità neppure nel titolo.
Altrettanto significativo è che gli Indiani siano pressochè scomparsi nel moderno western, fatta eccezione per l’ottima ricostruzione della vicenda di John Smith e Pocahontas in “The New World”, di Terence Malick (2006). Non si tratta probabilmente di un problema legato ai costi di produzione, ma piuttosto di una scelta che non sembra molto felice. Illudersi di assicurare la sopravvivenza del western rispolverando le solite storie di pistoleri, alla stregua di “Bad Girls” (Jonathan Kaplan, 1994) o “Pronti a morire” (Sam Raimi, 1995) sarebbe assurdo.
The Alamo, del 2004
Eppure, dopo la temporanea diversificazione dei primi Anni Duemila – meticolosa e di sicuro interesse è la riedizione della battaglia di Alamo (“The Alamo”, di John lee Hancock, 2004) che accentua, senza inventare nulla, le eccentricità del personaggio Davy Crockett, così com’è crudele ed intrigante la trama di “The Missing” di Ron Howard (2003) – sembra che il gusto dei produttori sia nuovamente orientato verso la formula delle “pistole calde”. Di recente, dopo l’uscita di “Appaloosa”, negli USA si sta lavorando ad una riedizione di “El Grinta”, il film che condusse Wayne all’Oscar.
L’impressione è che si debba ancora una volta a Kevin Costner e Robert Duvall il merito di avere tenuto alto l’onore del western con due avvincenti storie: “Terra di confine”, del 2004 ed il meno noto “Broken Trail” (2006) mirabilmente interpretato da Duvall e diretto da Walter Hill, già autore de “I cavalieri dalle ombre lunghe” (1980) Geronimo” (1993) e “Wild Bill” (1995).
La crisi del western è sicuramente dovuta, oltre che alla diminuita disponibilità di risorse finanziarie, all’incapacità di escogitare nuove trame che possano rilanciarne l’immagine.
Esistono moltissimi personaggi storici intorno ai quali non si è mai pensato di costruire un film (John Portugee Phillips, l’eroe di Fort Kearny, Texas Jack Omohundro, gli sceriffi Dallas Stoudenmire ed Elfego Baca, i trappers John Colter, Jedediah Smith e Jim Baker, le numerose donne catturate dagli Indiani, quali Cynthia Ann Parker, Fanny Kelly, Josephine Meeker, ecc.) mentre si è insistito oltre misura con i soliti Buffalo Bill, George Custer, Wyatt Earp e Billy il Kid.
Pochi protagonisti della Frontiera possono vantare imprese pari a quella compiuta da Hannah Dustin contro gli Abenaki nel 1697, oppure una vita più avventurosa di Carlo Camillo De Rudio, combattente del Risorgimento italiano, attentatore di Napoleone III, ufficiale nordista nella guerra civile e subordinato di Custer al Little Big Horn.
Il western ha sempre ignorato le loro vicende, come pure quelle di tanti altri, dimenticando le storie di grandi esploratori, di importanti condottieri indiani – passati sempre in secondo piano dietro le figure di Toro Seduto, Cochise e Geronimo – e di gente comune che ebbe una parte rilevante nella storia del West.
Le sfide nelle polverose strade delle città di Frontiera, per quanto stimolanti e ricche di fascino, hanno ormai esaurito il loro magico effetto.
In ogni caso, la Frontiera americana non si fondò soltanto su questi eventi dall’importanza marginale, esageratamente enfatizzati a discapito della credibilità storica.

Pagine di questo articolo: 1 2

Per i Commenti è possibile usare il nostro forum