Indiana 1790: la sconfitta di Harmar
A cura di Renato Ruggeri
La battaglia che porterà alla disfatta di Harmar
Immaginate una fitta e antica foresta che si estende a perdita d’occhio, interrotta, qua e là, solo da un fiume, un torrente, da una palude, da una prateria, da un pantano o da uno stretto sentiero indiano che non interferisce con gli alberi o con la copertura forestale.
Ci sono centinaia di vecchi alberi, con tronchi di 2-3 metri di diametro.
Ci sono querce, aceri, tigli, noci, olmi, frassini e faggi.
Possiamo osservare anche ippocastani (l’albero simbolo dell’Ohio), cedri, pioppi tremuli e pioppi neri, ciliegi, pini, castagni e salici. La vegetazione a terra è limitata a muschi che crescono rigogliosamente nell’ombra.
Alcuni pionieri raccontarono di aver camminato per giorni nella foresta senza vedere il cielo. La fauna lungo i corsi d’acqua include lontre, castori, visoni e topi ragno. In mezzo agli alberi o in una prateria ci sono cervi con la coda bianca, tassi, porcospini, alci e qualche bisonte, o predatori come gli orsi neri, linci rosse, puma, volpi e lupi. Naturalmente vi sono migliaia di uccelli.
In mezzo alla foresta, al di fuori dei villaggi indiani e di un pugno di forti e trading post, non vi sono persone, ma solo boschi senza fine.
Questo era l’Old Northwest, una terra di frontiera che si estendeva verso nord dal fiume Ohio ai Grandi Laghi, e verso ovest dalla Pennsylvania al fiume Mississippi.
Nel 1783, con il trattato di Parigi, che sanciva l’indipendenza americana, il Territorio del Nordovest fu ceduto alla giovane repubblica.
Si stima che, quando i primi pionieri arrivarono in Ohio, circa il 95 percento delle 44.825 miglia quadrate fosse ricoperto di foreste, più di 28 milioni di acri e, approssimativamente, il 90 percento dell’Indiana (36.418 miglia quadrate) era boscoso.
Il paesaggio naturale, la sua flora e fauna supportavano il modo di vita tradizionale dei nativi.
Il destino del Territorio del Nordovest consumò molte delle energie della giovane repubblica.
Negli anni che fecero seguito alla Rivoluzione Americana, un numero sempre maggiore di coloni invase la valle del fiume Ohio per costruire nuove fattorie e città, in cerca di opportunità commerciali e di una vita migliore nelle terre cedute dalla Gran Bretagna dopo il trattato di Parigi.
Per le tribù che vivevano nella regione, la fine della Rivoluzione segnò un profondo e immediato cambiamento nelle relazioni politiche con i bianchi. Le terre che appartenevano ai nativi da tempo immemorabile furono cedute agli Americani senza alcuna consultazione.

Mappa dei territori del nord-ovest
Naturalmente, lo stupefacente dono era una specie di Cavallo di Troia, dal momento che gli Inglesi non avevano alcuna intenzione di concedere alle colonie un permanente controllo dell’area.
Mantenevano guarnigioni nei territori disputati a Dutchman’s Point, Point au Fer, Oswego, Niagara, Mackinac e Detroit, sebbene queste fortificazioni fossero ben al di sotto della linea stabilita nel 1783.
Da questi avamposti fomentavano continui disordini, inviando agenti, mercanti e armi agli Indiani, con lo scopo di indebolire la già instabile, giovane repubblica. Il piano era fiaccarla finanziariamente, impegnandola in una lunga e costosa guerra di conquista.
Al tempo della spedizione di Harmar, la nazione aveva una popolazione totale di circa 4 milioni di abitanti. Il sessanta percento era di origine britannica, il 18 percento proveniva dalla Scozia e Irlanda, il 9 percento dalla Germania. Più del 10 percento erano africani, quasi tutti schiavi.
Solo cinque città — Baltimora, Boston, Charleston, New York e Filadelfia — avevano più di 10.000 abitanti. Pittsburgh arrivava, a malapena, a 400; Louisville a 200. Ma la fame di nuove terre alla frontiera stava rapidamente crescendo.
Un ufficiale americano di stanza a Fort Harmar ricordò che nei primi sei mesi del 1788 più di 600 imbarcazioni e seimila emigranti erano transitati lungo il fiume Ohio, portando con loro carri, cavalli, bestiame, pecore e maiali, ed erano entrati abusivamente nel Territorio del Nordovest. I coloni abusivi erano chiamati squatters.
La marea sembrava inarrestabile. Vi era, però, un grosso problema.
Quell’immenso territorio, 300.000 miglia quadrate di “foresta nera”, non era disabitato.

La mappa generale dei luoghi
La regione dell’Ohio, abitata dai nativi per migliaia di anni prima dell’arrivo degli europei, era stata gravemente depopolata nel diciassettesimo secolo a causa delle epidemie e delle Guerre del Castoro. Ma un secolo dopo si era trasformata in un luogo di raccolta, quando alcuni popoli che si erano dispersi si raggrupparono proprio in questa area.
Sebbene decimati da generazioni di contatti coi bianchi, le nazioni indiane rappresentavano ancora la maggior potenza nell’Ohio County, anche se la maggior parte dei villaggi si era spostata a ovest, lontano dagli Allegheny, dove un tempo erano localizzati.
La Confederazione del Nordovest, chiamata anche Confederazione dell’Ohio, Confederazione Miami o Confederazione del Wabash, era una coalizione di tribù decise a mantenere il fiume Ohio come confine permanente tra indiani e bianchi.
Il cardine di questa alleanza erano tre popoli: i Miami, gli Shawnee e i Lenape o Delaware.
I Miami erano Algonchini, come, del resto, lo erano i Lenape e gli Shawnee.
Quando i Francesi li incontrarono per la prima volta nel diciassettesimo secolo, li stimarono in circa 10.000. Al tempo della spedizione di Harmar, le malattie, l’alcol e le continue guerre avevano ridotto la tribù a non più di 1.500 uomini, donne e bambini.
Prima del contatto europeo, i Miami abitavano originariamente le aree tra il Mississippi e il fiume Wabash, in quella che oggi è l’Indiana sud-occidentale, ma anche porzioni dell’Illinois, Ohio occidentale, Wisconsin sud-orientale e Michigan.
In particolare, erano concentrati nella zona dei Grandi Laghi, ma le loro terre ancestrali sembrano collocarsi originariamente nel Wisconsin e nell’area nord-orientale dell’Iowa.
Durante il XVII secolo, a causa della pressione irochese e delle guerre del castoro (Beaver Wars), i Miami si rifugiarono più a est e a sud.
Si divisero in diverse bande (Eel River, Wea, Piankashaw, etc.), e una parte importante si spostò nel nord dell’Indiana, specialmente nella zona di Kekionga (odierna Fort Wayne), che divenne il loro centro politico e spirituale.
In questa fase ebbero frequenti contatti commerciali e militari con i Francesi, alleati dei Miami contro Irochesi e poi Inglesi.
Si riferivano a loro stessi con il nome di Mihtohseeniaki, “il popolo”, mentre il nome Miami deriva dal vocabolo Myaamia, “la gente a valle”.
La tribù era formata da sei divisioni. I Pepikokia erano i più bellicosi.
Altri clan erano i Greater Miami o Crane Band, la banda della gru, l’uccello feticcio dell’intero popolo; l’Eel River Band; i Michikinikwa; i Piankeshaw e i Wea. Le ultime due divisioni erano considerate quasi indipendenti.

Miami war party
Mihsihkinaahkwa, Piccola Tartaruga (1747-1812), nacque nell’odierna contea di Whitley, Indiana.
Il padre era conosciuto come “The Turtle”, dal nome della tartaruga dipinta che viveva nei fiumi Wabash e Ohio.
Faceva parte della Crane Band, la gente della gru; la madre era Mohican.
Quando Little Turtle nacque, nel 1747 (ma alcuni storici propongono, come data, il 1752), i Miami consideravano il fiume Ohio, dalla foce dello Scioto River fino alla foce del Wabash, come il loro confine meridionale. Il Kentucky era il loro territorio di caccia preferito.

Mihsihkinaahkwa, Piccola Tartaruga (1747-1812)
Durante la guerra Franco-Indiana, i Miami si erano alleati coi Francesi, consolidando il loro stile di vita in Ohio e Indiana. Passavano otto mesi in piccoli villaggi lungo il Maumee River e, in estate, si spostavano nella grande prateria dell’Illinois a caccia di bisonti.
Durante la Rivoluzione Americana, i Miami si erano schierati coi Britannici e avevano condotto numerosi raids contro gli insediamenti del Kentucky, partecipando alla sanguinosa battaglia del Blue Licks nel 1782.
Piccola Tartaruga nacque in un’epoca di aspri conflitti. Aveva sette anni quando iniziò la Guerra Franco-Indiana, 16 al momento della rivolta di Pontiac, 28 quando iniziò la rivoluzione e 43 quando Josiah Harmar condusse il Primo Reggimento contro Kekionga.
Quando morì, nel 1812, era iniziato anche l’ultimo conflitto in cui i nativi si allearono o con gli Americani o con gli Inglesi.
Il padre si era guadagnato la reputazione di capo di guerra combattendo gli Irochesi; il figlio la conquistò nel 1780 sconfiggendo il colonnello Augustin Mottin de La Balme, un avventuriero che aveva deciso di condurre una spedizione di franco-canadesi contro Detroit, vicino all’odierna Collins, Indiana.
La mattina del 5 novembre 1780, Little Turtle, a 33 anni, guidò i suoi guerrieri contro l’accampamento di La Balme, uccidendo 30 francesi, compreso Mottin.
Durante gli anni tra il 1780 e il 1790, Piccola Tartaruga condusse numerose spedizioni di guerra contro gli insediamenti del Kentucky e lungo il fiume Ohio.
Fisicamente, era alto per quei tempi, circa 6 piedi (1,82), era muscoloso e ben proporzionato.
Non disdegnava liquori, vino e tabacco, ma proibì la vendita di alcol alla sua gente. Amava indossare gioielli e ornamenti in argento.
In battaglia, si dipingeva di nero e vermiglio ed era solito portare due coltelli da scalpo, un tomahawk, una pistola e un fucile Brown Bess.

Little Turtle
Anche gli Shawnee erano un popolo algonchino, che si era spostato incessantemente prima di arrivare in Ohio, nelle prime decadi del diciottesimo secolo.
La parola Shawnee significa “southern, meridionale” e gli Shawnee chiamavano loro stessi Sa Wanna, “gente del sud”.
La nazione era divisa in clan: i Mekoche si curavano della salute e delle medicine e fornivano guaritori e sciamani; i Piqua supervisionavano le cerimonie e i rituali; i Chillicothe erano i veri politici della tribù e fornivano i leader tribali e i diplomatici; i Kispoko erano responsabili delle cose militari e addestravano guerrieri e capi di guerra.
Gli Shawnee non furono mai un popolo numeroso: ai tempi di Blue Jacket erano circa 2.500. Secondo tutti i racconti, erano feroci e spietati in battaglia.
Durante il diciassettesimo secolo, buona parte della tribù viveva nella Carolina del Sud, lungo il fiume Savannah, dove si era rifugiata per sfuggire agli Inglesi.
Avevano poi accettato l’invito dei Delaware e si erano stabiliti in Pennsylvania, nella valle del fiume Susquehanna. Ma la pressione dei coloni li aveva costretti a fuggire verso ovest, in Ohio, e si erano insediati lungo i fiumi Scioto e Muskingum.
Il loro numero era però precario, a causa delle malattie, dell’alcol e dei conflitti.
Nel 1779, gli Shawnee di Yellow Hair lasciarono le valli dell’Ohio per la terra dei Creek, in Alabama.
Nel 1779, ’80 e ’82, numerosi villaggi lungo il fiume Ohio furono assaliti e distrutti dalle milizie del Kentucky e, a causa di queste continue guerre, molti Shawnee decisero di abbandonare il territorio americano e si recarono a ovest, oltre il Mississippi, nel Missouri spagnolo.
Altri, invece, decisero di combattere e si spostarono a nord per risiedere a Kekionga, in Indiana, o presso un luogo chiamato “The Glaize”. Blue Jacket fu uno di questi irriducibili, decisi a difendere il confine dell’Ohio.

Migrazioni delle tribù nell’Ohio dopo le Beaver War
Blue Jacket nacque, probabilmente, nel 1743. Quando era un giovane guerriero, visse in un villaggio sul fiume Muskingum, nell’Ohio centrale.
Il suo vero nome era Weyapiersenwah, che significa “il vortice”, “il gorgo”, ma fu universalmente conosciuto come Blue Jacket.
Secondo una leggenda nata nel diciannovesimo secolo, Blue Jacket era un prigioniero bianco di nome Marmaduk Van Sweringen, catturato e adottato dagli Shawnee durante la guerra d’indipendenza americana.
Combatté, a vent’anni, durante la ribellione di Pontiac e partecipò, sotto il capo Cornstalk, alla battaglia di Point Pleasant nel 1774. Il suo villaggio sul Mad River fu un caposaldo della resistenza Shawnee.
Sebbene fosse culturalmente inflessibile, inviò un figlio a Detroit per farlo educare dai bianchi.
Due donne americane, prese prigioniere durante la rivoluzione, ricordarono che dormiva con la moglie franco-shawnee su un letto a baldacchino con quattro colonne e pranzava con posate d’argento. Le due donne dissero, inoltre, che visitavano spesso la sua casa fatta di tronchi, come quella dei coloni, per il tè delle cinque con biscotti al burro e marmellata d’arancia.
Oliver Spencer, un altro prigioniero, lo descrisse come un uomo muscoloso, alto più di 1,80, con occhi vivaci, naso aquilino e un’espressione del volto aperta e intelligente: “Il più nobile indiano che abbia mai visto”.
A dispetto del soprannome, Blue Jacket indossava spesso una giubba scarlatta con ricami d’oro, una cintura d’argento parzialmente colorata che gli cingeva la vita, pantaloni rossi e mocassini ornati nel più puro stile indiano.
Sulle spalle portava un paio di spalline dorate, sulle braccia braccialetti d’argento e, dal collo, gli pendeva una gorgiera d’argento e un medaglione di “His Majesty George III”.
Blue Jacket fu un grande capo di guerra e ebbe lo stesso ruolo, o forse un ruolo superiore, a quello di Little Turtle nel guidare la Confederazione, ma la sua reputazione fu parzialmente rovinata dalla predilezione per l’alcol e oscurata dalla figura di Tecumseh.

Blue Jacket
Buckongahelas, “colui che fa regali”, nacque sul fiume Delaware, probabilmente nel 1720.
Faceva parte del popolo dei Lenape, come preferivano essere chiamati (Delaware è il nome dato loro dai bianchi, dal nome del fiume che attraversava il loro territorio).
Durante la sua lunga vita, Buckongahelas assistette a tutte le distruzioni inflitte dagli europei al suo popolo e alla fine del vecchio stile di vita.
Cominciò il suo lungo pellegrinaggio in quello che è oggi lo stato del Delaware, e passò gran parte della sua esistenza spostandosi sempre più a ovest, cercando di rimanere il più lontano possibile dalla marea montante dei coloni inglesi e americani, prima attraverso la Virginia, poi la Pennsylvania occidentale e infine attraverso tutto lo stato dell’Ohio, per concludere il suo viaggio nell’odierna Muncie, Indiana.
Qui Buckongahelas morì nel 1805, a più di 600 miglia dal luogo di nascita, ancora pressato da tutti i lati dai coloni.
Fu testimone della perdita della terra natia, vide il suo popolo disperso attraverso il continente e distrutto dalle epidemie, dall’alcol e, in parte, dal Cristianesimo.
Malgrado tutte queste peripezie, divenne un grande leader e un nemico implacabile dei bianchi. Personificò il vero capo di guerra, esperto nell’arte dell’imboscata e indurito dalle guerre e dai lutti.
Nel 1773 suo figlio Mahonegon fu ucciso a tradimento da un virginiano, il capitano William White. Subito dopo, Buckongahelas ruppe con la fazione pacifista dei Lenape, guidata dal capo White Eyes, che fu il primo leader indiano a firmare un trattato con gli Stati Uniti.
All’inizio del 1781, il capo Delaware fu in Ohio e esortò i Lenape che si erano convertiti al Cristianesimo a spostarsi a ovest, dove potevano trovare terra più fertile e dove i suoi guerrieri li avrebbero protetti. Usò tutta la sua eloquenza per convincerli, dal momento che era un grande oratore, “il George Washington dei Delaware”.
Ma le sue parole caddero nel vuoto, e un anno dopo, l’8 marzo 1782, 96 Lenape cristiani, in gran parte donne e bambini, furono massacrati dalla milizia della Pennsylvania a Gnadenhutten.
Dopo aver perso la sua patria natia, il figlio e gran parte del suo popolo, Buckongahelas condusse la sua gente a Kekionga, dove attese, nel 1790, l’arrivo di Harmar.

L’agguato nella foresta
Kekionga, conosciuta dai Miami come Kihkayonki (“cespuglio o macchia di more”), era situata in un punto strategico.
Era, infatti, il portage che collegava il lago Erie e i Grandi Laghi con i fiumi Ohio, Wabash e Mississippi (portage è un punto in cui è possibile trasportare via terra canoe e imbarcazioni da un corso d’acqua a un altro. A Kekionga era di 6 miglia).
Era quindi un importante snodo commerciale e un punto chiave delle comunicazioni e della diplomazia tra gli indiani dell’Ohio e gli inglesi a Detroit e in Canada.
Per gli americani rappresentava il “supreme nest of villainy”, il nido supremo di tutte le malvagità.
Per anni gli ufficiali alla frontiera si erano lamentati delle continue depredazioni attribuite agli indiani delle Miami Towns.
In realtà, l’agglomerato di Kekionga era formato da un gruppo di villaggi, spesso chiamati le “Seven Miami Towns”, abitati anche da altre tribù e da mercanti bianchi.
I mercanti inglesi e francesi vivevano in case di tronchi nel punto in cui i fiumi St Marys e St Joseph si univano per formare il Maumee River.
Un po’ più in alto, lungo il fiume St Joseph, vi era il villaggio di Miamitown, del capo Le Gris, che era, insieme a Little Turtle, il principale war leader dei Miami.
Sul lato sinistro del fiume St Joseph, un po’ più a nord, sorgeva Kekionga, il villaggio di Pacan, un capo più malleabile e incline alla pace.
Spesso gli americani facevano confusione tra Kekionga e Miamitown, e usavano l’uno o l’altro nome per indicare i villaggi alla biforcazione del fiume Miami.
Ci tengo a precisare che, in alcuni libri che ho consultato, la disposizione dei villaggi è invertita: Kekionga è a destra del St Joseph, Miamitown è a sinistra.
Gli Shawnee si erano stabiliti a Chillicothe, sul lato settentrionale del Maumee River; sull’altra sponda vi era il villaggio di Piqua.
In mezzo, tra Chillicothe e Miamitown, vi era il villaggio Delaware di Buckongahelas; un altro villaggio Delaware si trovava a sud, sul fiume St Marys.
Il villaggio di Little Turtle si trovava sull’Eel River, 15 miglia a nord-ovest.
L’insediamento era formato da centinaia di wigwams, capanne di tronchi e lunghe case coperte di corteccia, dove si tenevano le cerimonie e gli incontri al vertice.
Era circondato da campi di mais a perdita d’occhio, frutteti e orti dove si coltivavano zucche, meloni e fagioli.
Kekionga era abitata anche da alcuni Seneca-Cayuga, chiamati Mingo dai bianchi, e da un piccolo gruppo di Chickamauga Cherokee venuti dal Tennessee. Vivevano vicino agli Shawnee. In totale i guerrieri presenti erano sette-ottocento.

Mappa disegnata da Ebenezer Denny
Kekionga, odierna Fort Wayne (Indiana), era una comunità multiculturale, dove i mercanti francesi e inglesi si mischiavano con i nativi e rispettavano i loro costumi.
Henry Hay, un mercante ventiquattrenne di Detroit che passò l’inverno del 1790 a Kekionga, ci ha lasciato un diario che fornisce una rara e vivida descrizione del tipo di vita che vi si conduceva.
Hay scrisse che per sei volte, durante la sua permanenza, Little Turtle e Le Gris vennero nella sua casa di tronchi portando tacchini e selvaggina in cambio di un’abbondante colazione con uova, bacon e marmellata, una tazza di tè o caffè, un bicchiere di Madeira o di Porto.
Hay gradì molto la vivacità e gaiezza dell’atmosfera in stile francese che si respirava al villaggio. Bere, danzare, cantare e fare baldoria erano cose che animavano quasi tutte le serate.
Natale, Capodanno, il Mardi Gras, i giorni dei Santi e il compleanno della Regina furono adeguatamente celebrati con grandi libagioni.
Ogni domenica, il suono di tre campanelle chiamava i fedeli a pregare nella casa di Mr. Barthelem. Padre Louis Payet, un missionario di Detroit, celebrava il sermone mentre Hay e John Kinzie suonavano il flauto e il violino.
La cena della domenica era servita in grande stile, da camerieri in livrea, con arrosto di tacchino, cacciagione e vitello, annaffiati abbondantemente con grandi bevute di whiskey, rum, Porto e Madeira. In un’occasione Hay preparò “Tangrie per le Ladies e Grogg per i Gentlemen”, tutti vestiti con i loro abiti migliori e con cappelli di castoro ornati con coccarde e piume di struzzo.
Hay e Mrs. Adamber ballarono un minuetto seguito da alcune selvagge Dance Ronby, accompagnate dalle canzoni sconce di Mrs. Rangard. Il ballo era la passione dei francesi, che inventavano sempre nuovi passi, e una volta Hay ballò per tre sere consecutive e ebbe i piedi così gonfi che non riuscì più a continuare.
Hay fu, a volte, “very drunk”, “damned drunk” e “infernally drunk”. Fu memorabile un’occasione in cui nessuno si ubriacò.
Le Gris e Little Turtle vennero a celebrare il Capodanno. Il giorno dopo Hay fece il giro del villaggio per baciare tutte le ladies, giovani e anziane, e trovò Le Gris ancora completamente ubriaco.
Insieme ad altri mercanti formò una società chiamata i Frati di Sant’Andrea e ogni sera facevano serenate alle signore.
Una volta, quando le acque del fiume inondarono il villaggio, fecero un giro in barca con le ladies su e giù per il fiume, mentre Kinzie suonava il violino e Hay il flauto.

Capanne di legno usate dal 1791
In uno strano contrasto coi minuetti e le Dance Ronby vi erano le selvagge danze di guerra che celebravano i raidsvittoriosi contro gli insediamenti americani.
Dalla sua capanna di tronchi Hay poteva assistere quasi in prima fila a questi spettacoli.
In un’occasione un guerriero Shawnee uccise a colpi di tomahawk, davanti a Hay, un prigioniero per vendicare un parente ucciso. Il giorno dopo il guerriero gli mostrò quello che sembrava un pezzo di selvaggina seccato: era il cuore del prigioniero americano, infilzato su uno stecco.

Un guerriero Shawnee
Da Kekionga partivano molte delle spedizioni che colpivano le fattorie, le imbarcazioni e i villaggi lungo il fiume Ohio e in Kentucky.
Un war party poteva percorrere anche 25-30 miglia in un giorno. I guerrieri portavano solo l’essenziale per la guerra: un fucile, un tomahawk, una mazza da guerra, un coltello da scalpo, il corno della polvere, la borsa delle pallottole, il sacchetto delle medicine, una corda per legare i prigionieri, una coperta e mais secco addolcito con sciroppo d’acero.
Viaggiavano in fila indiana, in completo silenzio quando entravano in territorio nemico, con il leader in retroguardia.
Spesso il segnale di una vicina fattoria era il rumore di un’ascia che tagliava un albero, l’odore del fumo o il canto di un gallo.
Gli uomini si spogliavano e si dipingevano con i colori di guerra. “Un indiano, quando attacca il nemico, è generalmente quasi nudo” scrisse William Wells, “e il suo corpo è dipinto con vari colori, specialmente in rosso e nero”.
La faccia era pitturata per terrorizzare il nemico. La pittura esterna indicava la furia montante all’interno. Le coperte, le provviste e i vestiti erano lasciati indietro, sorvegliati da uno o due ragazzi.
I guerrieri si avvicinavano strisciando sul terreno come serpenti, fino a un tiro di pistola. Quando la famiglia usciva dalla capanna di tronchi per mungere le mucche o per uno dei compiti giornalieri, ad un segnale stabilito, aprivano il fuoco e correvano, ululando come lupi, con i tomahawk e le mazze da guerra alzate, pronti a colpire.
Il principio cardine della guerriglia indiana era: “Avvicinarsi come una volpe, combattere come un orso e sparire come un uccello.”
In pochi minuti il loro mortale lavoro era compiuto, e i guerrieri tornavano nella foresta con il bottino, lasciandosi alle spalle una scena di totale devastazione.
I morti si contavano a centinaia e la frontiera dell’Ohio era in fiamme.

Un war party di rientro da un saccheggio
Quando George Washington fu proclamato ufficialmente primo presidente degli Stati Uniti d’America, il 30 aprile 1789, si trovò subito costretto ad affrontare numerose sfide che sembravano quasi impossibili da risolvere.
Una, forse la più grande, era l’enorme debito nazionale accumulato durante e dopo la Rivoluzione Americana: 40 milioni di dollari, circa 6 bilioni odierni.
Un modo per ripianarlo, almeno in parte, era lottizzare e vendere il Territorio del Nordovest ai coloni, agli speculatori terrieri e alle grandi compagnie commerciali come l’Ohio Company e la Scioto Company.

Principali posizioni nei territori del nord-ovest
Prima, però, bisognava sbarazzarsi dei suoi abitanti di pelle rossa, attraverso trattati truffaldini o con la forza delle armi.
Il suo Segretario alla Guerra e responsabile degli affari indiani si chiamava Henry Knox.
Era un uomo amabile, ambizioso e corpulento (pesava, infatti, 150 kg).
Era anche un uomo colto. Conosceva la “Leggenda Nera” della brutale conquista degli Atzechi e degli Inca, e pensava che il comportamento dei coloni nei confronti degli Indiani fosse ancor più distruttivo della condotta degli Spagnoli in Messico e in Perù.
Pensava anche che gli uomini di frontiera non fossero le vittime innocenti delle aggressioni indiane, e che i continui scontri e uccisioni tra gli “Indiani del Wabash e il popolo del Kentucky” fossero così reciproci da rendere difficile stabilire di chi fosse la responsabilità più grande.
Credeva, inoltre, che i popoli indiani – che considerava alla stregua di nazioni straniere – potessero accettare la benedizione della civilizzazione, abbandonare l’età delle barbarie e partecipare alla società americana, se trattati con equità e giustizia.

Henry Knox
Per mettere in pratica i suoi buoni propositi, Knox ordinò al governatore del Territorio del Nordovest, Arthur St. Clair, di invitare i capi della Confederazione a Fort Harmar (odierna Marietta, Ohio) per discutere un nuovo trattato.
Circa 200 nativi si radunarono intorno al forte. Knox consigliò a St. Clair di comportarsi in modo diplomatico, di non apparire arrogante e supponente, ma quando i capi chiesero che fosse ristabilito il vecchio confine sul fiume Ohio, St. Clair rispose indignato:
«Avete alzato, per anni, l’accetta contro gli Stati Uniti e vi siete alleati con gli Inglesi. Gli Inglesi, per ottenere una pace onorevole, ci hanno ceduto tutti i territori a sud dei Grandi Laghi, e da allora il Territorio del Nordovest è nostro per diritto di conquista. Gli Stati Uniti vogliono la pace con gli Indiani, ma se vogliono la guerra, l’avranno».
I leader degli irriducibili non si erano presentati, boicottando il trattato, e così Washington decise di inviare una spedizione militare che doveva penetrare nel cuore del territorio nemico e castigare quelli che definì «duecento banditi Shawnee e rinnegati Cherokee e alcuni Indiani del Wabash».
Una vera e propria invasione.

Fort Harmar
Vi era, però, un altro grosso problema: la difesa nazionale.
L’Armata Continentale era stata sciolta alla fine della Rivoluzione, ad eccezione di 25 uomini a Fort Pitt e una guarnigione di 55 soldati a West Point.
Molti, nel Congresso, temevano che un’armata permanente in tempo di pace contraddicesse i principi della repubblica e fosse un pericolo per la libertà dei cittadini.
Nel 1784 il Congresso formò il First American Regiment per la difesa della frontiera. Il reggimento comprendeva 700 soldati di fanteria e due compagnie di artiglieri, arruolati in quattro stati: Connecticut, New Jersey, New York e Pennsylvania.
Ma, a causa della paga irregolare, del cibo immangiabile, delle punizioni e delle diserzioni, gli uomini in servizio, nel 1789, erano solo 672: un numero ridicolo per sorvegliare l’intera frontiera.
E così, il 30 aprile 1789, il Congresso deliberò una nuova legge che portava il numero degli effettivi – ufficiali, soldati e musicisti – a 1216.
I soldati sarebbero rimasti in servizio per tre anni, con una misera paga mensile di tre dollari. Di questi, 90 centesimi venivano detratti per le uniformi e 10 centesimi per le cure mediche. Un pagamento extra di sei dollari veniva elargito al momento della firma.
I soldati dovevano avere un’età compresa tra i 18 e i 46 anni; l’altezza minima richiesta era di 1,73 m, senza scarpe.
A ogni nuova recluta spettavano un cappello, un cappotto, una giubba, una maglia, due paia di calzoni in lana e due paia di calzoni in lino, quattro camicie, due paia di calze, quattro paia di scarpe, una coperta e un paio di stivali.
La razione di provviste giornaliera prevedeva una libbra di manzo o ¾ di libbra di maiale, una libbra di pane o farina e un gallone di rum, whiskey o brandy.
Ogni cento soldati venivano distribuiti un chilo di sale, due litri di aceto, un chilo di sapone e mezzo chilo di candele.
L’armamento dei soldati consisteva nel moschetto Charleville, modello 1766 e 1774, ad avancarica e canna liscia, fornito dai francesi durante la Rivoluzione.
Era un’arma calibro 69, che sparava palle di piombo. Aveva una gittata teorica fino a 200 metri, ma una capacità di tiro utile fino a 50 metri. Un soldato esperto poteva sparare tre colpi al minuto.
A ogni moschetto era fissata una baionetta.
Vi era anche una compagnia di dragoni a cavallo che portavano la sciabola e un moschetto Charleville modello 1763, più corto e a canna doppia, che usavano quando combattevano a terra come fanteria.

Soldati di fanteria
Al comando della spedizione fu nominato il brigadiere generale Josiah Harmar, un veterano della Rivoluzione.
Harmar, rimasto orfano a tre anni, era stato allevato da una zia quacchera. All’età di 22 anni si era arruolato, con il grado di capitano, nella milizia della Pennsylvania. Aveva partecipato alla spedizione fallimentare contro Québec e aveva trascorso l’inverno 1777-78 a Valley Forge con Washington, che lo considerava un brillante ufficiale.

Moschetto Charleville
Quando, nel 1784, la Pennsylvania aveva inviato il contingente più numeroso – 260 uomini – per formare il Primo Reggimento, Harmar era stato promosso comandante in capo.
Harmar era un ufficiale molto attento alla disciplina. Puniva severamente chi indossava uniformi sporche o aveva armi arrugginite. Era vissuto in un ambiente urbano e, quando fu trasferito a ovest con la moglie, portò con sé alcuni privilegi della vita cittadina.
Quando fece edificare Fort Harmar e gli diede il suo nome, si fece costruire un alloggio elegante e lo arredò con preziose sedie Windsor, un tavolo in noce, e pranzava su piatti in oro zecchino, con posate d’argento e bicchieri di cristallo. Si faceva inviare da Filadelfia casse di Madeira, Porto, e dei migliori cognac e rum. Si costruì, però, anche una reputazione di alcolista.
Nominato brigadiere generale a 37 anni, Harmar fu sempre fedele a uno stile di guerra europeo, ispirato dal manuale di tattiche militari del barone prussiano Friedrich von Steuben, con i soldati disposti in file serrate: un modo di combattere che si era dimostrato efficace contro Inglesi e Assiani, ma che non era adatto alla guerriglia nelle foreste, contro un nemico che conosceva il territorio ed era maestro in quel tipo di combattimento.

Brig. Gen. Josiah Harmar, da un dipinto di Raphael Peale, 1795-96
Lo scopo della spedizione era, secondo le parole di Knox, “dimostrare il nostro potere di punire i banditi del Wabash per tutte le loro depredazioni, e per aver rifiutato di trattare con gli Stati Uniti, quando invitati”.
In poche parole, la colpa principale era non essersi presentati a discutere trattati dove solo la parola “sì” veniva accettata.
Nel mese di giugno, Harmar si incontrò con St. Clair a Fort Washington (odierna Cincinnati, Ohio) per preparare la spedizione. Pianificarono una manovra a tenaglia.
La colonna principale, condotta da Harmar e formata da 320 soldati federali e 1200 miliziani del Kentucky e della Pennsylvania, da Fort Washington si sarebbe mossa contro Kekionga e le Miami Towns. Una seconda colonna, partita da Vincennes e guidata dal maggiore Hamtramck, composta da 500 soldati regolari e miliziani del Kentucky, doveva colpire i villaggi Wea, Piankeshaw e Kickapoo sui fiumi Vermilion e Wabash, per poi convergere su Kekionga.
L’idea era buona, ma le cose non andarono come previsto.

Una semplificazione delle manovre nella battaglia
Il modo migliore per sconfiggere i nativi era distruggere i loro villaggi e le provviste di cibo prima dell’inverno. Così aveva fatto la spedizione francese contro gli Irochesi nel XVII secolo, la spedizione inglese contro i Cherokee nel 1760-61 e la devastante campagna del generale John Sullivan attraverso il territorio irochese nel 1779.
Colpire a tarda estate o inizio autunno, quando le spighe erano mature e non vi era più tempo per ripiantare il grano prima del gelo, costringeva le famiglie indiane alla fame e, spesso, alla resa.
Questo era lo scopo dell’invasione dell’Ohio nel 1790: guerra totale contro i guerrieri, distruggere le case e i campi dove lavoravano le donne.
Quando i miliziani del Kentucky e della Pennsylvania iniziarono ad affluire a Fort Washington, all’inizio di settembre 1790, provocarono a Harmar quasi un colpo apoplettico.
Tra i miliziani vi era un gran numero di uomini che riuscivano a malapena a stringere in mano un’arma. Non era quello che ci si aspettava da una terra di frontiera.
I frontiersmen più esperti, abituati a usare le armi nelle foreste e pronti a vendicare le offese fatte a loro e ai loro parenti, non si erano presentati. Al loro posto vi era un gran numero di sostituti che, probabilmente, non avevano mai sparato.
Il maggiore Paul, della milizia della Pennsylvania, raccontò che alcuni di loro erano così maldestri che non riuscivano nemmeno a caricare o a pulire il moschetto.
Il Lt Ebezener Denny aggiunse: “Due terzi della milizia del Kentucky è stata reclutata solo per gonfiare il numero”.
Un ufficiale di ordinanza osservò che un miliziano portava un moschetto senza il meccanismo di blocco, un altro un’arma senza grilletto, un terzo senza il calcio. Quando l’ufficiale chiese perché avessero con loro moschetti in queste pietose condizioni, risposero che gli era stato detto che li avrebbero riparati al loro arrivo a Fort Washington.
Lo storico Howard Peckman ha riassunto questi fatti, che furono cruciali per il fallimento della spedizione:
“Vi erano ragazzi, vecchi, ubriaconi, stranieri, uomini che fuggivano dalla giustizia, uomini senza denaro e lavoro e falliti espulsi dalla società e spediti alla frontiera. Questa marmaglia eterogenea allarmò Harmar, dal momento che non aveva il tempo per addestrarla. Erano 1133. Harmar disse che almeno 200 erano buoni a nulla. Aggiunse 320 soldati alla milizia per un totale di 1453 uomini”.
Per sintetizzare ancora di più, gli uomini di frontiera più esperti, come Simon Kenton, Benjamin Logan e Isaac Shelby, abituati alla guerriglia nelle foreste, che sparavano con fucili precisi e a gittata più lunga e sapevano usare l’accetta e il coltello, non erano venuti. Preferivano combattere i nativi a modo loro e non essere soggetti a ufficiali, spesso, incapaci.

Fort Washington
La spedizione, sulla carta, doveva essere un “sudden stroke”, un attacco improvviso, e la marcia attraverso 160 miglia di territorio incontaminato, nel cuore del territorio ostile, doveva essere così rapida e decisa da sbalordire e tramortire il nemico e sconfiggerlo dopo una flebile resistenza.
Ma la sorpresa fu vanificata da Knox (e, probabilmente, dallo stesso Washington) che ordinò a St Clair, per evitare incidenti diplomatici, di informare gli Inglesi “a tempo debito”, che Detroit non era un bersaglio, ma lo erano i “foolish Indians”, gli Indiani stupidi, di Kekionga. Ma St Clair mise al corrente gli Inglesi prima della partenza dell’armata, dando tutto il tempo agli agenti britannici di informare i banditi di Kekionga. I capi delle “foolish Nations”, dopo aver appreso la notizia, inviarono subito messaggeri in tutte le direzioni in cerca di aiuto e si prepararono a mettere in salvo i non combattenti.
Ci furono, poi, ulteriori problemi. La totale mancanza di un sistema di approvvigionamento efficace provocò un ritardo nelle operazioni.
L’esercito si appoggiava a contractors privati che, il più delle volte, si intascavano i fondi. I cavalli forniti erano magri, le tende bucate, le scarpe cadevano a pezzi, la qualità del cibo era scadente e mancavano farina, polvere da sparo e zaini.
Quando, prima della partenza, il colonnello Robert Trotter e il colonnello John Hardin si disputarono il comando dell’intera milizia, Harmar, in maniera salomonica, divise la milizia del Kentucky in tre battaglioni, affidati ai maggiori Hall, McCullen e Ray, con Trotter al comando generale, mentre a Hardin spettava il comando dei tre battaglioni e del battaglione della milizia della Pennsylvania del Lt Colonnello Truby.

Milizia del Kentucky in azione
Alle 11 di mattina del 30 settembre 1790 l’armata di Harmar lasciò Fort Washington.
La forza totale era di 1453 uomini, di questi 320 erano soldati regolari. Il maggiore Fontaine guidava un piccolo battaglione di dragoni, l’artiglieria del maggiore Ferguson constava di tre cannoni da 6 libbre.
Completavano la spedizione 600 muli e cavalli da soma che portavano le provviste e le razioni dei soldati e una mandria di bovini che doveva fornire carne fresca.

L’armata di Harmar lasciò Fort Washington
La spedizione seguì quello che gli Shawnee chiamavano old salt trail, il vecchio sentiero del sale, usato da generazioni di cacciatori e guerrieri per passare in Kentucky.
Il percorso, che attraversava le valli dei fiumi Miami, Loramie Creek e St Marys, era relativamente piatto, con acqua abbondante e buoni pascoli per i cavalli e i muli.
Il diario di Harmar ci fornisce un dettagliato racconto del viaggio attraverso l’Ohio occidentale.
Dopo aver lasciato Fort Washington, l’armata si mosse lungo la valle del fiume Little Miami. I soldati marciavano divisi in tre colonne, con i fianchi ben coperti e gli esploratori in avanguardia. I bivacchi notturni furono allestiti in quadrati difensivi con il convoglio dei rifornimenti al centro. I soldati coprivano circa 10 miglia al giorno e rimasero nella valle del Little Miami fino al 6 ottobre, percorrendo quello che Harmar chiamò Clark’s Old Trail, il percorso usato dai miliziani di George Rogers Clark nel loro raid contro Piqua.
Il 7 ottobre l’armata piegò leggermente a nordovest, attraversò il Mad River ed entrò nella valle del Great Miami River, seguendo il fiume fino a raggiungere, il 10 ottobre, le rovine di Piqua. Qui alcuni esploratori trovarono una canoa indiana e vicino una pelle d’orso tagliata in piccoli pezzi, segno che i nativi sapevano della spedizione e che pensavano di prendere molti scalpi.
Poi la spedizione penetrò ancora più a nord, fino a raggiungere un tributario del fiume Great Miami chiamato Loramie Creek. Nel punto di congiunzione dei due fiumi l’armata raggiunse un luogo chiamato, da Harmar, French Store.

Il percorso seguito da Harmar
Dopo aver lasciato French Store, l’armata si mosse lungo un vecchio sentiero indiano chiamato Piqua Trail, raggiunse la sorgente del fiume St Marys e si accampò vicino a Girty’s House. Poi proseguì verso nordovest. A quel punto i soldati si trovavano a circa 45 miglia in linea d’aria da un altro covo di rivoltosi chiamato Grand Glaize, alla confluenza dei fiumi Auglaize e Miami.
Tra i villaggi indiani e Harmar si estendeva l’inospitale Great Black Swamp. Harmar decise di seguire il lato meridionale della palude e, il 13 ottobre, raggiunse La Somer’s House.
Qui un giovane Shawnee, un mezzosangue di circa 20 anni, fu catturato. Alcuni miliziani parlavano il linguaggio Shawnee e lo interrogarono. Il guerriero raccontò che gli indiani, a Kekionga, erano in grande agitazione per l’arrivo dei soldati e stavano abbandonando in fretta e furia i villaggi per fuggire a nordovest.
In effetti, alcune spie avevano informato, il 6 ottobre, Little Turtle e i capi che un’armata forte di 2.500 uomini si stava avvicinando a Kekionga. Un mercante francese catturato disse che i capi avevano subito inviato messaggeri per chiamare a raccolta gli Indiani dei Grandi Laghi – Potawatomi, Ottawa e Ojibway – e i Wyandots di Sandusky, ma, malgrado la loro pronta risposta, pensavano che non sarebbero giunti in tempo.
Così i capi decisero di evacuare Kekionga e di bruciare i villaggi.
Frances Slocum ricordò che “le donne, i bambini e i vecchi furono mandati a nord”. Le Gris informò i mercanti che le loro capanne sarebbero state ridotte in cenere. I Miami li aiutarono a raccogliere le loro mercanzie, ma confiscarono polvere da sparo e pallottole. Le mandrie furono uccise e un migliaio di bushels di grano furono dati alle fiamme (un bushel equivale a 27 kg).

Un guerriero Miami
Harmar, dopo aver ascoltato le informazioni del prigioniero, si consultò con i suoi ufficiali e decise di inviare un distaccamento sotto il comando del colonnello Hardin, che doveva procedere a marce forzate verso i villaggi sul fiume Miami, così da intercettare “i selvaggi che fuggivano” e mettere al sicuro, se possibile, i loro beni e pellicce.
I 600 uomini di Hardin partirono la mattina seguente ed entrarono tra le rovine fumanti di Kekionga il pomeriggio del 15. In mezzo alle capanne di tronchi e ai wigwams bruciati vi erano i detriti di una fuga precipitosa. I soldati spararono a due guerrieri a cavallo sulla riva del fiume St. Joseph. I due fuggirono, ma i cavalli tornarono al campo con tracce di sangue.
I miliziani, immediatamente, corsero di villaggio in villaggio – alcuni erano quasi intatti – in cerca di bottino, contravvenendo agli ordini. Gli Indiani avevano infatti seppellito molti dei loro beni e provviste, e la “marmaglia” iniziò a scavare in cerca di tesori sepolti.
Un ufficiale federale, disgustato, osservò che ci fu subito un gran caos. Hardin inviò un messaggio a Harmar per informarlo della vittoria senza sangue. Nel rapporto scrisse che si rammaricava per non aver catturato i malvagi mercanti britannici e le loro spie.
Il 16 ottobre l’armata principale riprese il cammino e arrivò a Kekionga nel pomeriggio del 17. L’assenza del nemico aveva imbaldanzito la milizia e, ora, gli uomini stavano esplorando i dintorni in cerca di bottino. Tutti sembravano assorbiti dalla caccia al tesoro, soprattutto quando sei pentole di rame contenenti 32 dollari furono dissotterrate.

Spostamento di milizie
Nel frattempo, e senza che Harmar ne venisse a conoscenza, l’armata di Hamtramck, dopo aver saccheggiato e bruciato un villaggio Piankeshaw abbandonato sul fiume Vermillion, si era ammutinata per mancanza di provviste ed era rientrata a Vincennes, facendo fallire già dall’inizio il piano programmato.
La truppa si accampò vicino al villaggio bruciato dei mercanti.
Il maggiore Ferguson notò che “i cani degli Indiani vennero nel nostro campo, segno che le famiglie non erano lontane”.
Il mercante francese catturato spiegò “che gli Indiani erano dispersi nei boschi, e non erano in grado di combattere”. Alcune tracce indicavano che molti “selvaggi” erano fuggiti a nord-ovest, verso il villaggio Potawatomi di Elkhart.
La mattina del 18, Harmar inviò il colonnello Trotter e 300 uomini, per la maggior parte miliziani, con provviste per una missione di tre giorni, a esplorare la regione circostante e scoprire se vi erano nemici. Nel frattempo fece spostare il resto dell’armata a Chillicothe, il villaggio Shawnee, che offriva una maggiore protezione.
Gli uomini di Trotter guadarono il St. Joseph e seguirono le tracce.
In una vicina radura, un Indiano a cavallo fu inseguito e ucciso da alcuni Kentuckiani. Poi fu avvistato un secondo Indiano. Gli ufficiali, abbandonando la truppa per un’ora, si unirono – come in una caccia alla volpe – all’inseguimento del guerriero, che fu colpito e cadde a terra. Un miliziano di nome Johnson si avvicinò per finirlo, ma la sua pistola fece cilecca e l’Indiano gli sparò col fucile, uccidendolo.
Poi un cavaliere terrorizzato informò Trotter che 50 Indiani a cavallo l’avevano inseguito. Trotter si innervosì per l’imprevista notizia e, quando Harmar fece sparare un colpo di cannone per richiamare i saccheggiatori, colse la palla al balzo e ritornò all’accampamento.
Harmar rimproverò Trotter con parole pesanti, e il colonnello Hardin, ansioso di dimostrare il valore dei suoi uomini, chiese il permesso di completare la missione con lo stesso distaccamento.
Quella notte, il capitano McLure e un conducente di carri di nome McClary sorpresero un Indiano, lo decapitarono e appesero la testa in cima a un palo. Il guerriero Shawnee catturato identificò il morto come un capo Delaware: “Capitan Punk, grande uomo”.
Quella stessa notte, 150 cavalli furono rubati dagli Indiani.

Il percorso di Trotter e di Hardin
La mattina del 19, gli uomini di Hardin lasciarono l’accampamento. Un ufficiale federale notò che lo fecero con grande riluttanza. Molti di loro uscirono dai ranghi e tornarono al campo, lasciando Hardin con una forza di circa 150 miliziani e 30 regolari, guidati dal capitano John Armstrong.
I soldati guadarono il St. Joseph e si diressero a nord-ovest, “verso i villaggi Kickapoo”. A 5 miglia da Kekionga, alcuni cani uscirono dai boschi e Hardin, temendo un’imboscata, ordinò l’alt e inviò gli esploratori in ricognizione. Gli scoutstrovarono un bivacco indiano abbandonato e tracce fresche del nemico. Sentita la notizia, Hardin fece subito riprendere la marcia, ma si dimenticò di informare il capitano Faulkner e la sua compagnia, che furono lasciati indietro.
Le truppe erano “ansiose” di proseguire e avanzarono a passo spedito, prima di accorgersi che Faulkner era rimasto indietro. A quel punto Hardin ordinò ai dragoni del capitano Fontaine di recuperarlo.

Un indiano a cavallo in perlustrazione
Improvvisamente, ai lati del sentiero apparvero due Indiani che, apparentemente sorpresi, fuggirono precipitosamente nel bosco. Poi si udì uno sparo, forse un segnale d’allarme. Convinto che il nemico fosse ormai vicino, Hardin spronò i suoi uomini. Una fitta foresta e una palude di erba alta costeggiavano il sentiero, mentre si avvicinavano all’Eel River. I soldati, in singola fila, giunsero all’inizio di una radura. Al centro del prato era stato acceso un falò e, intorno al fuoco, erano sparpagliati coperte, pelli e oggetti vari.
L’avanguardia si mosse verso il fuoco.
Hardin e i suoi uomini erano penetrati nel territorio di Little Turtle, il cui villaggio si trovava sull’Eel River.
Piccola Tartaruga aveva spiato i soldati da vicino. Harmar fece, probabilmente, il suo errore più grande quando divise le sue forze e inviò distaccamenti lontano dal campo base.

L’imboscata
I due Indiani appiedati erano solo delle esche, e i soldati furono attirati in una trappola: il nemico, sapientemente dipinto con pitture di guerra che si confondevano con i colori autunnali del bosco, era appostato tra gli alberi e i giunchi della palude.
La prima raffica partì dalla palude e colpì gli uomini all’avanguardia. Nicholas Tomlinson, uno scout, fu letteralmente fatto a pezzi. I miliziani e i soldati, in stato di shock, si spostarono a sinistra verso la foresta, ma furono investiti dal fuoco degli Indiani appostati tra gli alberi.
Ci fu, subito, un gran caos. Molti uomini della milizia gettarono i fucili e fuggirono, in preda al terrore, senza sparare un colpo. Il capitano John Armstrong e i regolari cercarono di formare una linea di difesa al centro della radura, ma erano talmente tanti i miliziani che attraversavano questa sottile linea che ci fu un gran disordine.
Più indietro, la colonna di miliziani che stava ancora avanzando, sentendo le grida di guerra e gli spari, si rifiutò di proseguire e di supportare i soldati di Armstrong, abbandonandoli al loro destino.

L’attacco degli indiani
Armstrong raccontò, in seguito, che solo nove miliziani rimasero con i 30 regolari. I soldati iniziarono a sparare alla cieca nel fitto sottobosco che li circondava, ma Little Turtle, percependo il loro disorientamento, ordinò una carica immediata.
I guerrieri, brandendo tomahawk e mazze da guerra, si gettarono sui soldati prima che riuscissero a ricaricare i loro moschetti. I soldati cercarono di opporsi all’assalto del nemico con le baionette, ma erano pochi e furono sopraffatti. Armstrong vide cadere uno a uno i suoi uomini, ma riuscì a fuggire passando in mezzo al fumo e a nascondersi nella palude, seppellendosi nel fango fino al collo.
Lo scontro fu breve e sanguinoso. In pochi minuti, 22 regolari e tutti i miliziani furono uccisi. Armstrong rimase nascosto per tre ore e vide, con orrore, gli Indiani che ballavano selvaggiamente sui corpi scalpati dei soldati e li depredavano di armi e vestiti. Con le lacrime agli occhi raccontò, in seguito, che i suoi uomini avevano “fought and died hard”.
Un miglio più indietro, lungo lo stesso sentiero percorso da Hardin, le compagnie di Faulkner e Fontaine si stavano avvicinando al campo di battaglia quando, all’improvviso, sbucarono due dragoni che portavano dietro di loro due uomini feriti. Erano in preda al terrore e urlarono: “Fermatevi, ci sono abbastanza Indiani da mangiarvi tutti!”.
Gli uomini di Faulkner formarono una linea attraverso il sentiero e si nascosero tra gli alberi. Furono raggiunti da Hardin e da altri ufficiali, ma la maggior parte della milizia continuò la sua fuga a rotta di collo verso l’accampamento di Harmar a Chillicothe.
Gli Indiani si avvicinarono fino a una distanza di 50 metri e poi si fermarono. La battaglia di Hell’s Corner, come fu in seguito chiamata, era finita.
Secondo il capitano Armstrong, più di 20 soldati regolari e tutti i miliziani con loro furono uccisi, mentre 40 miliziani risultarono dispersi. Per il capitano John Bradford, 52 uomini perirono in pochi minuti, e alcuni miliziani furono colpiti mentre fuggivano, per un totale di almeno 60 vittime.
Nessuno degli Americani notò a quali tribù appartenessero i vincitori. Secondo un rapporto britannico poco credibile, Hardin fu assalito da “un party di Shawanes e Potawatamis”. William Wells, più attendibile, raccontò che Hardin fu attaccato da 300 Miami, comandati dal famoso capo Little Turtle, e che le perdite indiane erano state irrisorie: un morto e due feriti.

Nel canneto
Fu solo in tarda serata che i miliziani raggiunsero il campo tendato a Chillicothe.
Si raccontò, in seguito, che Hardin pianse lacrime di rabbia quando riferì a Harmar il comportamento codardo della milizia. Subito il generale ordinò di sparare un colpo di cannone ogni ora per indirizzare i superstiti che erano ancora dispersi.
Poi contò i caduti: due terzi dei federali e una cinquantina di miliziani mancavano all’appello.
La notizia del massacro fece il giro dell’accampamento e, quando Hardin chiese a Harmar il permesso di recuperare i corpi dei caduti, il generale glielo negò, dicendogli che il morale dei soldati era già abbastanza basso e che la vista dei cadaveri scalpati e mutilati poteva demoralizzarli ancora di più.
Decise che la missione era conclusa e che era giunta l’ora di rientrare a Fort Washington, dal momento che le provviste stavano rapidamente diminuendo e che molti cavalli e muli erano stati rubati o persi.
Prima però, la mattina del 20, ordinò di bruciare tutti i villaggi, compreso Chillicothe, e anche grandi quantità di grano, zucche e fagioli furono date alle fiamme. Quando il lavoro fu terminato, Harmar stimò che i suoi uomini avevano polverizzato 20.000 bushels di grano.
“Con enorme soddisfazione” — scrisse nel suo diario — “abbiamo distrutto tutte le città Miami, la base operativa delle loro infami razzie.”
Quello stesso giorno alcuni dragoni di Fontaine sorpresero e uccisero uno Shawnee che stava osservando un villaggio che bruciava. Fu riconosciuto come Big Shawnee Ben e il suo corpo decapitato fu portato al campo. Dal momento che aveva osservato con intensità il villaggio in fiamme, alcuni Kentuckiani presero il suo corpo e lo appoggiarono a un tronco di fronte alle rovine fumanti, prendendosi così gioco della sua curiosità.

Soldati schierati
Il 21 ottobre, alle 10 di mattina, l’armata iniziò il viaggio di ritorno, percorrendo 8 o 9 miglia verso sud-est.
Quella sera uno scout, Daniel Williams, riferì a Harmar che circa 120 Indiani erano ritornati a Kekionga.
Hardin, nel tentativo di risollevare la reputazione della milizia, disse a Harmar che il chiarore della luna piena forniva una buona opportunità per cogliere il nemico di sorpresa.
Il generale, all’inizio, si mostrò scettico, ma poi, con riluttanza, acconsentì a rimandare indietro una compagnia di soldati regolari e un centinaio dei migliori miliziani.
Hardin, però, riteneva che il numero fosse troppo esiguo per la missione, e così Harmar, dopo essersi consultato con tutti gli ufficiali, ordinò a 60 regolari, 40 dragoni e 300 miliziani di tenersi pronti per una marcia notturna.
I soldati arrivarono a Kekionga poco prima dell’alba. Il maggiore Wyllys, che comandava i regolari, e il colonnello Hardin prepararono il piano di battaglia. Predisposero una manovra avvolgente. Il battaglione di miliziani del maggiore Hall, sulla sinistra, doveva varcare il fiume St. Marys e muoversi verso la sponda occidentale del St. Joseph, mentre a destra il battaglione del maggiore McMullen doveva attraversare il fiume Miami e costituire l’ala opposta dello schieramento.
Al centro, i regolari di Wyllys e i dragoni di Fontaine avevano il compito di attraversare il fiume Miami al guado principale e avanzare frontalmente verso il villaggio di Le Gris, con lo scopo di spingere il nemico verso i due battaglioni in attesa.
Il piano, ben congegnato, richiedeva simultaneità e coordinazione, ma non andò come si pensava fin dall’inizio.
Alcuni miliziani di Hall, dopo aver guadato il St. Marys, spararono a un indiano solitario, contravvenendo agli ordini e vanificando così il fattore sorpresa, mentre sulla destra gli uomini di McMullen incontrarono un piccolo gruppo di nemici e lo inseguirono, lasciando senza supporto i soldati regolari.
I primi ad attraversare il fiume Miami — che in quel punto era largo una cinquantina di metri e profondo poco più di trenta centimetri — furono i dragoni di Fontaine. Quello che non sapevano era che Little Turtle aveva posizionato i suoi tiratori scelti sulla sponda settentrionale del fiume, in un frutteto.
Uno dei dragoni, John Smith, ricordò che i primi cavalieri erano giunti in mezzo al fiume quando, dalla riva opposta, si scatenò un inferno di fuoco e fiamme. Smith fu colpito e cadde in acqua, e osservò — dalla sua scomoda posizione — cavalli e cavalieri che venivano falciati dal fuoco nemico. “L’acqua diventò scura per il sangue.”
Un testimone indiano raccontò che così tanti cavalli e cavalieri caddero nel fiume, uno sull’altro, che si poteva passare da una sponda all’altra camminando sui corpi.

L’attraversamento del fiume sotto il fuoco degli indiani
Ripresosi dallo shock, il maggiore Fontaine, miracolosamente illeso, ordinò la carica e spronò il cavallo con la furia di un pazzo verso la sponda opposta. Si precipitò in mezzo ai nemici, sparando a bruciapelo con la pistola. Poi sguainò la sciabola. Un solo cavaliere, George Adams, l’aveva seguito. Fontaine ebbe appena il tempo di gridare “Avanti, ammazziamoli tutti!” prima di essere preso di mira da una dozzina di indiani. Adams riuscì a voltare il cavallo e a fuggire con cinque pallottole in corpo, ma Fontaine non fu così fortunato.
A differenza dei dragoni, la fanteria di Wyllys riuscì ad attraversare il fiume Miami senza grossi problemi. I soldati marciarono in direzione nord verso il villaggio di Le Gris, passando accanto ai resti carbonizzati dei wigwams e delle log houses, ed entrarono in un campo di grano bruciato. Improvvisamente, da un boschetto di noccioli, partì una devastante scarica di fucileria.

Hardin divide le sue forze
Little Turtle e Blue Jacket, dopo aver mandato al fiume i tiratori scelti, avevano preparato una trappola per la fanteria regolare in uno spazio piano e aperto, dove era difficile difendersi.
Wyllys fece disporre i soldati in linea per fronteggiare il nemico, che caricava con grande furia. I soldati scaricarono i moschetti e poi combatterono all’arma bianca con le baionette, non avendo il tempo per ricaricare le armi. Lo scontro si trasformò in un duello corpo a corpo — baionette contro tomahawk, mazze da guerra e coltelli — tra le grida degli indiani e le urla dei feriti e dei morenti.
Il capitano Asheton ebbe la fugace visione di Wyllys seduto sul terreno e circondato dagli indiani, e quando vide un guerriero col volto dipinto di nero che sollevava e indossava il tricorno del maggiore, seppe quale era stato il destino del suo comandante.
Alcuni soldati, miracolosamente, riuscirono a fuggire dal luogo della battaglia approfittando del fumo e della confusione, e corsero in direzione del fiume St. Joseph. Solo dieci regolari sopravvissero al combattimento, quel giorno, con una perdita dell’83 per cento degli effettivi.
Un ufficiale, in seguito, osservò che questa debacle era paragonabile al vecchio disastro sul Blue Licks.

Solo 10 regolari sopravvissero al combattimento
L’azione si spostò, quindi, sul fiume St. Joseph.
Gli indiani che inseguivano i superstiti della compagnia di Wyllys si scontrarono con i miliziani del Kentucky del maggiore Hall sulle rive del fiume, che in quel punto era largo poco più di un torrente.
Gli indiani cercarono di forzare il passaggio attraverso il fiume, ma furono respinti. Un miliziano osservò, con grande soddisfazione, alcuni suoi compagni che infilzavano i nemici con le baionette, come pesci presi alla fiocina.
Quando un contingente di Ottawa e Delaware si aggiunse alla lotta, la milizia sembrò sul punto di cedere, e il colonnello Hardin gridò ai suoi uomini di tenersi pronti per la ritirata.
Ma in quel momento arrivò, da est, il battaglione di McMullen, che si era perso in una serie di scaramucce “di albero in albero e di cespuglio in cespuglio” con alcuni Shawnee.
Pensando che fosse l’avanguardia dell’intera armata di Harmar, gli indiani abbandonarono il campo.
La battaglia di Kekionga era finita.

La battaglia è finita
Dopo la morte del maggiore Fontaine, alcuni dei suoi dragoni tornarono da Harmar e gli riferirono che le truppe stavano sostenendo un duro scontro e che avevano bisogno di rinforzi, ma Harmar rifiutò, dicendo che non voleva rischiare di perdere l’intera armata.
Quella che viene oggi chiamata “Harmar’s Defeat” – la disfatta di Harmar – non fu, in realtà, un unico combattimento, ma una serie di scontri disorganizzati, di azioni separate: vicino al fiume Eel, al guado del fiume Miami, presso il villaggio di Le Gris, sulle rive del fiume St. Joseph, oltre a una serie di altre scaramucce più piccole.
Ci furono scontri sparsi su un fronte di alcune miglia, e gli indiani tennero il campo. Alla fine i morti tra le fila dei soldati regolari e dei miliziani furono ufficialmente 183, e i feriti 37.
I nativi vittoriosi la chiamarono “Battle of the Pumpkin Fields” – la battaglia dei campi di zucche – osservando che i crani scalpati dei soldati sembravano zucche che fumavano nell’aria autunnale.
Non si conosce il numero preciso delle perdite indiane. William Wells scrisse che avevano avuto 15 morti e 25 feriti, mentre un ufficiale disse di aver contato i corpi di 40 indiani sulle sponde del fiume St. Joseph.

La battaglia del campo di zucche
L’armata di Harmar fece ritorno a Fort Washington il 3 novembre 1790. Esattamente un anno dopo, l’esercito di St. Clair si sarebbe accampato sulle sponde del fiume Wabash.
La sera della battaglia di Kekionga, il 22 ottobre, Blue Jacket, Little Turtle e i leaders della coalizione si riunirono per un consiglio di guerra. L’idea era di inseguire il nemico che si stava ritirando e infliggergli un colpo mortale, ma avvenne un fatto singolare: un’eclissi lunare, che iniziò alle 7 di sera e durò circa un’ora. Gli Ottawa, che erano molto superstiziosi, la interpretarono come un presagio sfavorevole e, quella stessa notte, abbandonarono gli alleati, seguiti da molti altri. Probabilmente questo evento naturale salvò l’esercito di Harmar dalla completa distruzione.
Da Fort Washington, Harmar inviò un rapporto al governatore St. Clair in cui affermava di aver vinto. Esprimeva disappunto per aver trovato abbandonati i villaggi e per non aver potuto catturare i mercanti rinnegati.
I suoi soldati avevano però distrutto “il quartier generale della malvagità”, ucciso 100 o 120 indiani, bruciato tonnellate di grano, zucche, fagioli e fieno, e più di 300 wigwams e log houses.
Ma Washington era furioso: 183 soldati morti raccontavano un’altra storia.
Disse a Knox che aveva previsto il fallimento della spedizione sotto il comando del generale Harmar, dal momento che aveva sentito che era un ubriacone.
Inoltre, già durante il viaggio di ritorno vi erano state pesanti critiche da parte degli ufficiali della milizia, che l’avevano accusato di ubriachezza, di non aver partecipato agli scontri — rimanendo quasi sempre nella sua tenda — e di non aver recuperato i morti e i feriti.

Un momento della battaglia
Per risollevare la sua reputazione traballante, Harmar chiese e ottenne che si riunisse una commissione d’inchiesta. Alcuni ufficiali federali testimoniarono in suo favore, addossando la responsabilità del fallimento al comportamento codardo della milizia e all’incapacità dei suoi ufficiali.
Alla fine la commissione lo assolse dalle accuse, giudicando la sua condotta meritevole di alta approvazione.
Ma, ormai, il suo destino era segnato. L’anno dopo si dimise dall’esercito e poi, tornato alla vita civile, si dedicò ad attività commerciali in campo mercantile, prima di morire a Filadelfia nel 1813.
NOTE FINALI
Ho ricavato le notizie per questo articolo dai seguenti libri:
- President Washington’s Indian War di Wiley Sword
- War Along the Wabash di Stephen Locke
- Field of Corpses di Alan Gaff
- The Victory With No Name di Colin Galloway
- William Wells and the Struggle for the Old Northwest di William Heath
- The Soldiers Fell Like Autumn Leaves di Rick Schoenfield
- The Trans-Appalachian Wars 1790–1818 di John Eric Vining
- Wabash 1791 di John Winkler.
Ho ricavato ulteriori informazioni da:
- Outpost in the Wilderness: Fort Wayne 1706–1818 di Charles Poinsatte
- American Indians of the Ohio Country in the 18th Century di Paul e Sally Misencik
- The Bones of Kekionga di Jim Pickett (romanzo storico)