Il Generale George Crook e le guerre contro gli indiani

A cura di Sergio Mura da un lavoro di J. Jay Myers

Un ritratto del Generale George Crook
Il colonnello George Crook era a bordo della traballante diligenza che si avvicinava a Tucson attraverso una pista che veniva da ovest e per lui e per gli altri passeggeri la vista delle prime case della cittadina era un sollievo dopo giorni di calore opprimente, strade sconnesse, polvere che si infilava dappertutto e la tensione costante di attraversare i deserti ostili dell’Apacheria, la terra dei temibili guerrieri Apache.
Crook aveva sopportato per giorni le asperità del viaggio di mille miglia da San Francisco, ma nessuno dei passeggeri sapeva chi fosse. Alle stazioni di posta, non lo avevano mai visto bere caffè o alcolici, neppure del semplice tè. Non fumava, non bestemmiava, non masticava tabacco. Eppure, nonostante l’assenza di quei vizi maschili tanto comuni all’epoca, era chiaro che era un uomo fatto di uno stampo molto speciale. Sedeva con un fucile a canne mozze appoggiato sulle ginocchia. Non indossava l’uniforme. Per la verità non la portava mai, se non era strettamente necessario.
Alto più di 180 cm, Crook non era massiccio, ma asciutto, atletico, abbastanza muscoloso. I capelli erano abbastanza chiari, rasati corti. La barba divisa all’estremità del mento e gli occhi grigio-azzurri, sempre vigili.


Un ritratto di Crook, colorato in tempi moderni

Aveva ordini precisi: assumere il comando del Dipartimento dell’Arizona dell’esercito americano. La sua missione era porre fine agli scontri tra Apache e bianchi, possibilmente in modo pacifico. La “terra oscura e insanguinata” del Kentucky ai tempi di Daniel Boone non era nulla in confronto al sangue e al terrore che aveva imperversato nell’Apachería negli ultimi dieci anni. Il compito di Crook era radunare gli indiani e confinarli nelle riserve.
Altri ci avevano provato. Tutti avevano fallito. Ma l’uomo che arrivò a Tucson all’inizio di luglio del 1871, così discreto che persino il conducente della diligenza ignorava la sua identità, aveva idee diverse su come trattare con i nativi. Da giovane tenente in California, nei primi anni Cinquanta, era rimasto sconvolto dal modo in cui gli indiani venivano trattati dopo che il Senato aveva respinto i 18 trattati negoziati con 139 tribù, lasciandoli senza diritti. «Quando erano spinti oltre ogni limite e prendevano le armi, noi dovevamo combattere, anche se le nostre simpatie erano con loro», ammise. Nonostante ciò, aveva guidato campagne vittoriose contro di loro a Washington, Oregon e California, dimostrandosi particolarmente efficace con gli Shoshoni e i Nez Perce. Credeva che gli indiani fossero esseri umani e meritassero di essere trattati come tali. Un’idea impopolare tra i bianchi dell’Arizona negli anni Settanta, e che avrebbe trovato quasi impossibile mettere in pratica.
Dopo aver servito con valore l’Unione durante la Guerra Civile, Crook era stato promosso tenente colonnello e rimandato nel Nordovest. Gli era stato affidato il compito arduo di domare i feroci Shoshoni, che possedevano alcune delle migliori unità di cavalleria leggera che il mondo avesse mai visto. Condusse una campagna dura ma vittoriosa, e poi si batté per ottenere un accordo equo per loro. Gli Shoshoni gli furono grati e lo rispettarono per la sua onestà.
Dieci anni dopo, quei guerrieri lo avrebbero aiutato nelle battaglie contro Cheyenne e Sioux. Ma prima, Crook doveva affrontare gli Apache. Quando fu inviato in Arizona, si recò a San Francisco e da lì partì per quella che sapeva sarebbe stata un’impresa titanica.


Crook sulla sua fedele mula

Il colonnello arrivò a Tucson nell’anonimato, ma fu subito chiaro chi comandava. Entro la fine del suo primo giorno, aveva già ordinato a tutti i comandanti dei forti e degli accampamenti di presentarsi immediatamente a rapporto. Interrogò ogni ufficiale su tutto ciò che sapeva del territorio—fiumi, guadi, sentieri, terreno, clima. Si informò sugli uomini sotto il loro comando, sul loro morale, sulla loro esperienza.
Crook sottolineò l’importanza di avere muli e cavalli in salute, e fece domande dettagliate sugli animali. Aveva un interesse quasi maniacale per i muli, perché sapeva che il successo di ogni campagna dipendeva in gran parte da loro. Si assicurava che ogni spedizione avesse i migliori esemplari, controllandone personalmente la salute e le peculiarità. Ai muli erano assegnati gli uomini più capaci.
I muli da soma di George Crook trasportavano facilmente il doppio del carico previsto dai manuali militari, perché lui permetteva solo l’uso delle attrezzature migliori, e ogni sella era fatta su misura per ogni animale. Spendeva un’ora al giorno con gli uomini e i muli, insegnando loro come fare un carico perfetto e come controllare lo stato di salute degli animali. Grazie a questo, i suoi soldati non rimasero mai senza munizioni, e i suoi convogli di muli non fallirono mai in un’emergenza.


Crook con I suoi soldati in Arizona

Quando gli ufficiali conclusero i loro colloqui con Crook, gli avevano rivelato tutto ciò che sapevano, ma lui non aveva svelato nulla dei suoi piani. Non era un uomo intimidatorio — anzi, era affabile — ma manteneva una riservatezza inviolabile. Ciononostante, i suoi ufficiali sentivano che si interessava sinceramente a loro e alle loro carriere.
In pochi giorni, il nuovo comandante organizzò una spedizione “di addestramento” con cinque compagnie di cavalleria e alcune guide esperte. L’11 luglio, alle sei del mattino, la spedizione partì per Camp Bowie, cento miglia a sud-est, nel cuore del territorio dei Chiricahua. Poi a nord verso Camp Apache, di nuovo a ovest verso Camp Verde e la città di Prescott, e infine a sud, di ritorno a Tucson. Un percorso di 675 miglia, tutto in territorio nemico.
Crook dava l’esempio: spesso era il primo alzato al mattino e il primo in sella. Indossava un vecchio abito da caccia in tela e un elmetto di sughero. Cavalcava un mulo robusto di nome Apache e teneva un fucile appoggiato al pomo della sella. Sul sentiero, metteva in gioco tutta la sua esperienza di frontiera. Era sempre all’erta per i segni del nemico—un’impronta insolita sulla sabbia, tracce abilmente nascoste lasciate da un Apache per un altro, un odore sospetto nel vento o un suono fuori posto.
Una tipica posa di Crook
Quando la spedizione raggiunse Camp Bowie, ancora incompleto, Crook tenne un consiglio con i capi della zona. Parlò con uomini potenti e famosi come Miguel, Pedro, Cochise, Pitone ed Eskititsla. Gli dissero che erano in pace e volevano rimanerci. Crook rispose come faceva con tutti gli indiani: «Non importa chi abbia iniziato i problemi tra bianchi e nativi. Quel che conta è che non possono continuare. Arriveranno sempre più bianchi, e voi non potete più vivere solo di caccia, che sta già scomparendo. Dovrete imparare altri modi di vivere, e noi dovremo imparare a convivere in pace».
Promise che avrebbe protetto i nativi dai bianchi malvagi, ma i capi avrebbero dovuto proteggere i bianchi dagli indiani violenti. Se avessero permesso a certi guerrieri di razziare, rubare e uccidere, sarebbe stato impossibile difendere quelli che obbedivano alla legge. Crook assicurò che avrebbe trovato lavoro per chi lo voleva, e che gli indiani sarebbero stati pagati come i bianchi.
Disse che avrebbe sempre detto la verità e mai fatto promesse che non poteva mantenere. Si aspettava lo stesso dai capi. Questi avevano già sentito altri bianchi parlare di onestà e ne erano scettici, finché Crook non promise che ogni accordo sarebbe stato messo per iscritto e consegnato loro in copia. Credeva sinceramente che, finché gli indiani non avessero imparato i modi dei bianchi, sarebbero stati al sicuro solo nelle riserve. Ma era convinto che, una volta cessate le ostilità e instaurata la fiducia, avrebbero potuto vivere e lavorare ovunque.


Ulysses S. Grant e il generale Oliver O. Howard

Il presidente Ulysses S. Grant inviò il generale Oliver O. Howard, quello con un braccio solo, a negoziare la pace con Cochise e i Chiricahua, ma toccò a Crook piegare militarmente il resto degli Apache ribelli. Il colonnello aspettò fino a novembre 1872 per lanciare la campagna. Il suo piano era rendere la vita impossibile a chi ancora sceglieva la guerra. Sapeva che si sarebbero ritirati sulle montagne, cercando di sopravvivere alla neve e al gelo. Sperava che, quando donne e bambini avessero cominciato a soffrire, gli uomini si sarebbero arresi senza combattere.
Crook credeva che ci volessero Apache per trovare Apache, così assoldò quelli che volevano la pace per stanare quelli che volevano la guerra. Li pagò come i bianchi e fece diffondere la voce sulle sue intenzioni. Molti bianchi si opposero, inclusi alcuni suoi superiori, ma fu una mossa geniale.
Il piano di Crook era colpire duro, saturando la zona con colonne di soldati. Ogni colonna era autosufficiente, con le proprie guide, i propri muli da soma e un ufficiale competente al comando. Il colonnello diede poche direttive, ma fece capire bene cosa si aspettava: dovevano usare l’iniziativa per portare avanti la sua politica. Combattere fino a quando ogni maschio ostile non si fosse arreso o fosse stato ucciso. Se gli indiani si fossero ritirati, inseguirli senza tregua. Se i cavalli fossero crollati, continuare a piedi. Un ordine era sacro: mai fare del male a donne o bambini, e mai maltrattare un prigioniero.


Apache nella riserva di San Carlos

L’obiettivo era il bacino del Tonto. Alcune bande di Apache occidentali — insieme agli Yavapai, che si mescolavano ai Tonto Apache — avevano razziato e eluso le truppe per anni. Crook dispiegò le sue colonne in modo che non ci fosse un solo rifugio in cui potessero sfuggire alla pressione. Le sue guide Apache li trovarono sempre. Aveva ragione: ci voleva un Apache per stanare un Apache. In poche settimane, le bande cominciarono ad arrendersi. Quelle che resistevano venivano braccate e scovate. Si arrendevano, o morivano.
Il capo Chalipan (spesso chiamato Charlie Pan) venne a negoziare la pace per 2.300 Apache occidentali. Disse che erano stanchi della guerra. Non potevano cucinare perché le guide vedevano il fumo, e non potevano dormire per paura degli attacchi a sorpresa. «Non possiamo combattere i soldati e la nostra stessa gente allo stesso tempo», ammise.
Se Chalipan avesse mantenuto la pace, Crook gli promise che sarebbe stato il miglior amico che avesse mai avuto. Gli indiani avrebbero lavorato come i bianchi e sarebbero stati trattati esattamente come loro. Il lavoro sarebbe iniziato subito con un progetto di irrigazione per i campi. Il colonnello avrebbe trovato mercati per i loro raccolti, e sarebbero stati pagati direttamente, senza intermediari che intascavano i profitti. Gli Apache avrebbero avuto una propria polizia, pagata dall’esercito. Ladri e ubriaconi sarebbero finiti in prigione se condannati da giurie Apache.
Crook sapeva che non poteva aspettare che Washington mandasse gli attrezzi, così raccolse ogni vecchia pala, vanga e piccone da tutti i forti e gli accampamenti. Il lavoro iniziò immediatamente. Gli uomini scavavano, le donne trasportavano la terra nei loro cesti intrecciati a mano. In poco tempo, scavarono un canale largo quattro piedi, profondo tre e lungo cinque miglia. Piantarono 57 acri di angurie e altri ortaggi che amavano.
Crook enfatizzò l’individuo, non la filosofia comunitaria tradizionale delle tribù. Un uomo tagliava il fieno, lo vendeva e incassava il denaro. Un altro era pagato per tagliare la legna. Ogni individuo era responsabile delle proprie azioni e veniva premiato o punito. Le giurie Apache erano rispettate, e se avevano un difetto, era quello di essere troppo severe.
Crook si impegnò molto, senza successo, per istituire scuole nelle riserve. Credeva che gli indiani potessero integrarsi nella società bianca solo con l’istruzione. Trovava sbagliato mandare i bambini in collegi a Est, per poi farli tornare in una società che disprezzava la loro conoscenza superiore. Non sarebbero stati accettati né dai bianchi né dalla loro gente.
In molti dei suoi sforzi, il colonnello Crook fu osteggiato da cittadini comuni che odiavano gli Apache per i massacri degli ultimi dieci anni e volevano vederli sterminati. Il problema più grande, però, era il famigerato e corrotto “Anello di Tucson” — un gruppo di uomini d’affari dell’Arizona che volevano gli indiani in guerra. Un territorio in conflitto significava che potevano vendere rifornimenti all’esercito e armi agli Apache. Se non potevano avere la guerra, volevano gli indiani nelle riserve, dove l’Anello poteva truffare gli agenti corrotti. Mettere sassi nei sacchi di farina e zucchero, vendere bestiame destinato alle riserve: questi erano solo due dei modi in cui raggiravano i nativi. L’Anello sapeva che indiani autosufficienti avrebbero significato la fine dei lauti profitti dei contratti governativi.


Crook tratta con gli Apache

Nonostante gli ostacoli, nell’autunno del 1872, Crook e il generale Howard portarono la pace in Arizona. Howard negoziò un trattato con Cochise, che il capo rispettò fino alla morte, due anni dopo. Il presidente Grant promosse Crook a generale di brigata. Rimase in Arizona altri due anni, battendosi per un trattamento umano e saggio degli indiani, costruendo strade, riparando e migliorando i forti, trasferendoli in zone più salubri.
Nel 1875, il Dipartimento della Guerra aveva una nuova sfida per il generale. L’Arizona era sotto controllo, ma gravi problemi stavano esplodendo nelle Pianure del Nord. Sioux e Cheyenne erano irrequieti e pericolosi. Crook fu inviato a comandare il Dipartimento del Platte, con quartier generale a Omaha. Il suo distretto includeva Nebraska, Wyoming, Utah e parte dell’Idaho.
Gli indiani avevano buone ragioni per tornare in guerra. Il governo non rispettava il trattato del 1867, che garantiva loro un vasto territorio, comprese le splendide Black Hills e le montagne del Bighorn. Dovevano essere costruite scuole, ma dopo otto anni, non ce n’era una.
Sempre più bianchi arrivavano e restavano. L’oro era stato scoperto nelle sacre Black Hills, quindi altri sarebbero venuti, e ci sarebbero stati scontri. Troppi trattati erano stati violati, e Little Big Man, tra gli altri, sosteneva che l’unico modo per salvare i territori di caccia era combattere.
Nel 1876, Crook cercò di prevenire la crisi. Ordinò a tutti i bianchi di lasciare le Black Hills. Funzionò, per un po’. Ma gli indiani si preparavano alla guerra che sapevano sarebbe arrivata. Acquistavano armi e munizioni, e la situazione rimase stabile finché i bianchi non cominciarono a infiltrarsi di nuovo nelle Black Hills. L’ultima goccia fu quando il governo pretese che gli indiani si presentassero per essere registrati nelle riserve. Alcuni obbedirono, altri ignorarono la richiesta, altri mandarono a dire che non l’avrebbero fatto. Toro Seduto chiese: «Sei forse il Grande Spirito che mi ha creato?» E disse che se i bianchi volevano parlare, sarebbero dovuti venire da lui.


Crook con Sheridan e altri ufficiali nella campagna del 1876

Nelle sconfinate pianure del Nord, c’erano probabilmente 50.000 indiani. I guerrieri erano abilissimi cavalieri, e le alleanze tra tribù erano solide. Credevano di poter sconfiggere i soldati bianchi quando volevano. La situazione era molto diversa dai problemi che Crook aveva affrontato in Arizona.
Decise per un’altra campagna invernale. Doveva trovare un grande villaggio e distruggerlo, per dimostrare la potenza dell’esercito. Assoldò tutte le guide indiane disponibili e fece i soliti preparativi meticolosi. Il 1° marzo 1876, le truppe lasciarono Fort Fetterman per un viaggio di 150 miglia verso il fiume Powder e le Bighorn Mountains. Crook aveva dieci compagnie di cavalleria e quattro di fanteria. Gli uomini indossavano cappotti di pelliccia, cappelli foderati e soprascarpe. Erano una forza addestrata e disciplinata.
Il 5 marzo, Crook ordinò una ricerca intensiva dei nemici per due settimane. Niente carri, solo muli, e razioni dimezzate. Una bufera si abbatté su di loro, e il termometro scese a 40 gradi sotto zero. Quando mangiavano, passavano le forchette tra le ceneri calde per evitare che il metallo gli strappasse la lingua.
Il 12 marzo, la colonna del colonnello Joseph Reynolds trovò un grande villaggio occupato. Reynolds schierò le truppe per un attacco a sorpresa all’alba, ma un ragazzo che abbeverava il cavallo vide i soldati e diede l’allarme. Gli indiani ebbero il tempo di rifugiarsi su una scarpata, una posizione perfetta per sparare. Mirarono ai cavalli e ai muli. Altre truppe arrivarono e cominciarono a sparare sui tepee, che contenevano polvere da sparo, cartucce, stampi per proiettili e piombo. Le tende bruciarono e alcune esplosero, e i pali volarono in aria come frecce.
Alcuni soldati cominciarono a saccheggiare le ricchezze nei tepee—pelli pregiate di castoro, cervo, alce, grandi mantelli di bufalo e grandi scorte di cibo, che gli indiani avrebbero barattato per armi e munizioni. Reynolds scoprì di aver attaccato il villaggio di Cavallo Pazzo, con 100 tepee di Sioux, e che altri 40 tepee di Cheyenne erano fuggiti dall’agenzia di Nuvola Rossa per unirsi a lui. Forse il colonnello capì di non poter sconfiggere quelle forze unite. Fatto sta che improvvisamente ordinò la ritirata, anche se i soldati avevano appena iniziato a saccheggiare. Quando Crook arrivò per finire il lavoro, non riuscì a nascondere la sua amarezza. La sua colonna avrebbe potuto distruggere, o almeno indebolire gravemente, la capacità di combattere di Sioux e Cheyenne. L’ordine di Reynolds aveva sprecato quell’opportunità.
Reynolds fu sottoposto alla corte marziale e sospeso dal comando per un anno. L’esercito non aveva ottenuto una vittoria schiacciante nella battaglia del Powder River. Anzi, Sioux e Cheyenne si convinsero di aver vinto, e questo diede loro fiducia per il futuro.
Il generale Crook sapeva di dover organizzare un’altra grande campagna. Il 29 maggio 1876, era pronto. Bande di Crow e Shoshoni si unirono a lui, e la colonna di Crook risalì il fiume Rosebud come parte di un’avanzata su tre fronti nei territori del Wyoming e del Montana. Crook era preoccupato perché non aveva notizie dalle colonne del generale Alfred Terry e del colonnello John Gibbons, e aveva bisogno del loro supporto.


La battaglia del Rosebud

Il 17 giugno, Cavallo Pazzo attaccò con 1.500 uomini. «Il terreno accidentato frammentò gli scontri, rendendo il comando centrale quasi impossibile», scrisse lo storico Robert Utley. Fu ogni uomo per sé, con le truppe sparse su una linea sottile lunga tre miglia. Mai prima d’allora i guerrieri Sioux e Cheyenne avevano combattuto con tale audacia. Caricarono i soldati a briglia sciolta, sfondando più volte le linee. Crook e i suoi alleati indiani riuscirono infine a fermarli, e il generale contrattaccò quando possibile. Quando gli assalti di Cavallo Pazzo fallirono ripetutamente, i guerrieri si fermarono. Anni dopo, un guerriero Cheyenne disse che avevano smesso perché erano stanchi e affamati. All’epoca, i contemporanei di Crook sostennero che aveva sconfitto gli indiani, e l’esercito la definì una vittoria. Alcuni storici oggi la considerano una sconfitta, perché permise alla grande forza indiana di raggiungere il Little Bighorn, dove il tenente colonnello George Armstrong Custer li trovò, con esiti disastrosi, il 25 giugno. In realtà, nessuno poteva sapere dove sarebbero andati gli indiani dopo lo scontro del Rosebud. La battaglia del Rosebud fu probabilmente l’unica volta in cui Crook non fu un vincitore indiscutibile.
Washakie, il più grande capo Shoshone, si unì a Crook con altri guerrieri, ma gli consigliò di aspettare rinforzi. Disse che Cavallo Pazzo e Toro Seduto avrebbero presto dovuto dividere le loro forze per cercare cibo, e che molti guerrieri sarebbero tornati dalle famiglie. Il tenente generale Philip Sheridan concordò, e informò Crook del tragico destino di una delle colonne di Terry—quella di Custer—al Little Bighorn.
A settembre, Crook trovò e distrusse l’accampamento di Cavallo Americano, Naso Romano e Scudo di Ferro. Cavallo Pazzo arrivò e attaccò, ma ben presto abbandonò lo scontro e lasciò la zona. Quell’inverno, Crook sconfisse il grande capo Cheyenne Coltello Spuntato e distrusse le sue provviste essenziali. Presto, Arapaho, Ute, Bannock, Shoshoni, Crow e Winnebago vollero combattere i loro vecchi nemici, i Sioux. I ribelli cominciarono a rientrare nelle riserve in gran numero. Persino Cavallo Pazzo si arrese, il 6 maggio 1877, con 1.100 persone.
Le ultime grandi battaglie delle Pianure erano finite. Quando Cavallo Pazzo lasciò la riserva più tardi, cercando di portare la sua banda a nord per vivere la vecchia vita libera, fu fermato dalla sua stessa gente. In una colluttazione, fu ucciso—probabilmente da una baionetta. Il capo Tocca le Nuvole disse: «È giusto. Cercava la morte, e la morte è arrivata».
Nel 1882, Crook fu rimandato in Arizona. In sua assenza, gli affaristi dell’Anello di Tucson avevano ottenuto un successo scandaloso. Avevano trattato gli Apache con tale disonestà e spudoratezza che alcuni capi erano in guerra da anni. Victorio, Nana, Loco e Nan-tia-tish avevano ucciso molti bianchi e distrutto proprietà per migliaia di dollari, prendendo in giro sia i civili che i militari.
Il vecchio Alchise disse a Crook: «Quando te ne andasti, non c’erano indiani cattivi fuori. Eravamo contenti; c’era pace». Il vecchio Pedro aggiunse: «Quando eri qui, se dicevi una cosa, sapevamo che era vera… Ero felice… Dove sono quei bravi ufficiali? Perché non tornano?»
Crook ripristinò tutte le politiche che avevano funzionato in passato, e la maggior parte dei Chiricahua tornò nelle riserve. Inseguì quelli che non lo fecero, spingendosi fino in Messico, e li riportò tutti indietro.
Purtroppo, Geronimo e Natchez si ubriacarono di tiswin (una bevanda fermentata di mais) e scatenarono il caos. Il generale e i suoi alleati Apache li inseguirono per mesi, li catturarono e li riportarono indietro. Sheridan non capiva i Chiricahua e criticò i metodi di Crook. Il generale cercò di spiegare, ma alla fine chiese solo un trasferimento.


I colloqui di resa tra Crook e Geronimo

Fu rimandato al Dipartimento del Platte, dove continuò a battersi contro il trattamento vergognoso riservato a Geronimo e alla sua banda dopo la resa del 1886. Il governo imprigionò persino molti degli Apache che per anni erano stati scout leali e fidati.
Crook mantenne la pace con gli indiani delle Pianure, e nel 1888 il presidente Grover Cleveland lo promosse a maggior generale, affidandogli il vasto Dipartimento del Missouri. Il 21 marzo 1890, Crook ebbe un infarto e morì. Il capitano John G. Bourke, suo aiutante per anni, raccontò che nella riserva di Camp Apache, le sue guide formarono un grande cerchio, chinarono la testa e piansero. Nuvola Rossa disse: «Le sue parole diedero speranza alla gente. Lui è morto. E la speranza è morta con lui».
Crook aveva combattuto bene contro gli indiani ostili. Lo storico Robert Utley scrisse: «Il generale George Crook [fu] considerato da molti suoi contemporanei il più abile combattente di indiani dell’esercito…». Se fosse stato il più grande si può discutere, ma una cosa è certa: non fu mai un odiatore di indiani. Deve essere ricordato come uno dei più grandi amici che i nativi abbiano mai avuto nell’esercito. Rispettò i guerrieri delle Pianure come avversari valorosi e sconfitti, che meritavano di essere trattati da esseri umani.

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