“Il Vento”, western femminista

A cura di Domenico Rizzi
La locandina del film
Quando si pensa al cinema western dei prmi decenni del Novecento, ci si riferisce solitamente – dopo gli iniziatori Wallace Mc Cutcheon (“Kit Carson”, 1903) e Edwin S. Porter (“L’assalto al treno”, 1903) – alle opere di David Wark Griffith, Thomas H. Ince e Cecil B. De Mille, autentici giganti del muto, che diedero un elevato contributo all’affermazione, diffusione e qualità del genere. Nella grande quantità di pellicole prodotte in quell’epoca, molte delle quali andate smarrite o distrutte, ve ne sono alcune che hanno segnato una pietra miliare nel percorso della filmografia western, anticipando tematiche e situazioni a cui anche il cinema moderno avrebbe poi attinto, spesso senza la medesima intensità dei precursori. “The Wind”, “Il vento”, fu una di queste.
Prodotta dalla Metro Goldwin Mayer, venne diretta dallo svedese Victor David Sjöström (1879-1960) nativo di Arjang ed emigrato negli Stati Uniti insieme alla famiglia quando aveva appena un anno. Diventato americano, il futuro regista non perse completamente l’indole introspettiva, un po’ cupa e introversa, delle origini scandinave, realizzando film che conservano intatto il loro fascino a distanza di un secolo.

La trama è ispirata ad un romanzo di Dorothy Scarborough (1878-1935) nata a Mount Carmel, Texas, autrice di numerosi saggi, racconti e raccolte di versi, che lo aveva pubblicato nel 1925; la sceneggiatura del film fu affidata a Frances Marion..Incentrata su una figura femminile, ai tempi in cui il western conservava ancora un’impronta prevalentemente maschilista nonostante i lavori diretti da Griffith (“Iola’s Promise”, 1912) e De Mille (“The Squaw Man”, 1914) la storia portata sullo schermo da Sjöström, che a Hollywood assumerà il nome di Victor Seastrom. è semplice e lineare. Una ragazza nubile della Virginia, Letty Mason, viene ospitata dal cugino Beverley, trasferitosi ad abitare con la moglie Cora in una landa desertica, nella quale il vento soffia in maniera costante e ossessiva, sibilando fra le case e sollevando nuvole di polvere che rendono impossibile l’apertura di porte e finestre. Durante il viaggio in treno conosce un elegante bellimbusto di nome Roddy, che le entra in simpatia, tacendole di essere già sposato. Nella nuova destinazione, la ragazza si trova inizialmente a disagio ed è malvista dalla moglie del cugino, che non ha gradito l’accoglienza eccessivamente calorosa tributata a Letty dal coniuge. Man mano che trascorrono i giorni, i sospetti che fra i due vi possa essere qualcosa di più di un semplice legame di parentela si acuiscono, fino al punto da invitare l’ospite a trovarsi un marito per andarsene da quella casa. Non avendo scelta, Letty accetta di sposare Lige, un onesto mandriano verso il quale tuttavia non prova amore, al punto che il matrimonio non viene consumato. Un giorno, mentre il marito è partito con un gruppo di cowboy per radunare una mandria di cavalli, ricompare il subdolo Roddy, che dopo averla corteggiata sbrigativamente abusa sessualmente di lei. Il mattino successivo l’uomo, dando per scontato che Letty accetti ormai di sottostare ai suoi voleri, tenta di obbligarla ad una relazione, ma la ragazza gli si oppone, impugna un revolver e lo uccide, seppellendone poi il cadavere nella sabbia accumulata dalla bufera intorno all’abitazione. Al ritorno di Lige dal roundup, Letty gli confessa tutto e i due si abbracciano teneramente: da quel momento fra loro sboccia finalmente l’amore.

E’ raro ritrovare questo film nelle numerose rassegne dedicate alla cinematografia western, eppure non vi è dubbio che ne faccia parte a pieno titolo. Gli elementi ci sono tutti: la ragazza dell’Est che emigra nel West, la fattoria isolata battuta dalle intemperie, gli uomini grezzi dalle maniere un po’ rudi, il duro lavoro dei mandriani, la violenza su una donna indifesa, ma soprattutto il deserto che circonda l’insediamento, con la sua presenza opprimente e lo spettro di uno stallone bianco che appare sinistramente nella foschia durante le tempeste di sabbia. In un’epoca in cui non esistevano ancora i moderni effetti speciali, Sjöström ricrea la bufera facendo posizionare i motori di alcuni aeroplani, che con le loro eliche in funzione sollevano turbini di polvere.
Nonostante che dall’ottobre 1927 sia già stato introdotto il sonoro (“The Jazz Singer” della Warner, seguito proprio nel giugno ’28 da “Lights of New York”, sempre della stessa casa di produzione) preferisce girare un film muto della durata di 84 minuti, rifiutando perfino una colonna sonora di sottofondo. L’atmosfera che il regista riesce a instaurare è quella tipica di molte pellicole svedesi, un po’ tetra e angosciante (si ricordino in particolare “Il settimo sigillo” e “Il posto delle fragole”, entrambi diretti nel 1957 dal celeberrimo Ingmar Bergman, che vorrà proprio Sjöström, rientrato in Svezia, quale protagonista). Sulla paura, la solitudine e il senso di isolamento dal contesto sociale incombe come un incubo la spietata natura che non risparmia né le persone, né le cose. In quest’ottica, l’ambientazione a Bakersfield, nel deserto di Mojave della California, si conferma una scelta vincente e il vento che dà il titolo al film è la minacciosa presenza che tartassa le povere figure in carne ed ossa senza un attimo di tregua.
Gli attori scelti da Sjöström hanno clichè molto diversi da quelli impiegati a quei tempi dai vari James Cruze, John Ford, George B. Seitz, Raoul Walsh, Victor Fleming e King Vidor. L’interprete principale è la bellissima Lillian Gish, che lascerà la propria impronta nel cinema per molti anni, recitando anche in “Duello al sole” di Vidor (nomination all’Oscar come miglior attrice non protagonista) e “Gli inesorabili”, di John Huston (1960) nel quale fa la parte dell’anziana madre degli Zachary, Mattilda). Nata a Springfield, Ohio, nel 1893, da genitori di origine germanica, è una splendida trentacinquenne quando il regista svedese – che l’aveva già voluta protagonista nei panni di Hester Prynne, in una delle prime edizioni di “La lettera scarlatta” (1926) trasposizione del capolavoro letterario di Nathaniel Hawthorne – la convoca per interpretare “The Wind”.

La parte del marito di Letty, il cowboy Lige, viene assegnata ad un altro svedese, Lars Hanson, che avrebbe lavorato in seguito anche con Greta Garbo, terminando la carriera nel 1951. Montagu Love, attore inglese di teatro che compare in moltissime pellicole fino agli inizi del secondo conflitto mondiale, è invece il perfido Roddy, stupratore della dolce quanto ingenua Letty. L’altra interprete femminile è l’australiana Dorothy Cumming, arcigna nell’espressione e drastica nel comportamento come esige il ruolo assegnatole.
Nell’evoluzione della filmografia western, l’opera si allontana quanto basta dai canoni tradizionali del genere e si può considerare rivoluzionaria rispetto ai canoni classici. La donna assurge ad una parte di primo piano che per decenni le verrà negata dai film successivi, a parte alcune eccezioni, fra le quali è doveroso menzionare “Donne verso l’ignoto” di William A. Wellman (1951) e “Johnny Guitar” di Nicholas Ray (1954). Peraltro, Griffith e De Mille avevano già provato a trasferire il fulcro dell’azione su personaggi femminili. Il primo soprattutto con “Iola’s Promise” nel 1912 e “The Battle at Elderbush Gulch” l’anno dopo (in quest’ultimo la stessa Gish recita al fianco di Mae Marsh); il secondo con “The Squaw Man” (1914) nel quale Red Wing – una Winnebago Sioux, prima nativa a ricoprire il ruolo di donna pellerossa nel cinema – impersona la squaw Nat-u-Ritch, suicida dopo essere stata abbandonata dal marito, un aristocratico inglese che ritorna in patria. Nei western successivi, però, lo scettro sarà destinato a ritornare saldamente nelle mani degli uomini, sebbene spesso le loro partner rappresentino, come sostenuto da alcuni registi, il movente dell’azione. Budd Boetticher, autore di diversi film ambientati alla Frontiera, riteneva infatti spregiativamente che “la donna in se stessa non ha la minima importanza.”
L’orientamento de “Il vento” si può invece considerare decisamente femminista. Letty subisce l’oppressione di un ambiente claustrofobico, la diffidenza della gente, la violenza fisica e l’umiliazione, ma trova la forza di reagire con un gesto estremo, uccidendo il proprio violentatore, né più nè meno di come avevano fatto alcune donne della Vecchia Frontiera catturate dagli Indiani. Alla fine, il panico generato dal suo gesto e tutti i timori che l’hanno assillata fino a quel momento, svaniscono in un abbraccio liberatorio con l’uomo che l’ha sposata, al quale confessa l’omicidio, incontrando la sua piena comprensione e soprattutto l’amore che lui prova verso di lei.
Non è esagerato il giudizio del critico francese Georges Sadoul che questo film rappresenti “uno dei massimi capolavori della storia del cinema muto” ed è pertinente l’osservazione che si tratti addirittura di un western, genere ritenuto da molti e per parecchi anni, di importanza secondaria. Altrettanto condivisibile il commento dell’americano Charles Silver, laddove sottolinea che “Il vento” è “probabilmente la più pura espressione di un genere cinematografico molto raro: il western – solitamente cavallo di battaglia degli uomini – visto dalla parte delle donne.” A proposito della Gish, lo stesso critico conferma che l’attrice, “nel pieno della sua maturità artistica…si esibisce in una splendida interpretazione, la migliore della sua carriera di diva del muto.”

La conclusione del film avrebbe dovuto essere, secondo il progetto iniziale, molto più tragica, con Letty che, in preda alla follia per il delitto commesso, fugge nel deserto per darsi la morte, ma la produzione americana decise di cambiarla, si dice per non danneggiare la carriera della Gish, ma forse anche per non scontentare un pubblico amante del lieto fine.
Come anticipato, la figura della protagonista si accosta idealmente ai personaggi storici che avevano dato prova di forza d’animo, sopportazione e capacità di reazione, in primis Hannah Dustin, che insieme ad un’altra donna e ad un ragazzo, sterminò nel 1697 la banda di Abenaki autrice del suo rapimento, trucidando di notte 10 Indiani senza distinzione di sesso ed età, per fare poi ritorno alla civiltà con gli scalpi tolti alle loro vittime.
Proiettato nelle sale a partire dal 23 novembre 1928 e inizialmente distribuito, oltre che negli USA, anche in Svezia, Finlandia e Portogallo, nel 1993 “Il vento” è stato inserito nell’elenco del National Film Registry della Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti, in coincidenza con la scomparsa di Lillian Gish, deceduta a New York il 27 febbraio all’età di 99 anni. L’attrice, che non si è mai sposata e non ha avuto figli, secondo alcuni pettegolezzi messi in giro a Hollywood avrebbe avuto una relazione sentimentale con il regista David Griffith, deceduto nel 1948, essendone stata una stretta collaboratrice e consulente.

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