Armi del West, recensione del libro di Mario Raciti

A cura di Domenico Rizzi

Fronte e retro della copertina del libro di Mario Raciti
Ecco un libro che nessun appassionato del West dovrebbe perdere, perché analizza a fondo gli strumenti che consentirono ai colonizzatori di occupare le immense aree occidentali, dalla costa atlantica alla California.
La stragrande maggioranza delle persone conosce l’argomento attraverso la filmografia western, i romanzi e i fumetti del genere, ma pochissimi si sono fatti un’idea precisa del variegato arsenale utilizzato da esploratori, cacciatori di pellicce, cowboy, soldati, sceriffi e banditi. Mario Raciti, già noto per altre interessanti pubblicazioni sull’argomento – ricordiamo in particolare “Piombo, polvere e sangue” e “Piccolo prontuario del vecchio West” – ha raccolto la materia in questo suo recentissimo lavoro dal titolo “Piccolo catalogo illustrato delle armi del West”, realizzato in collaborazione con Enrico De Meo che ne ha curato la parte illustrata.
La ricerca dell’autore anticipa l’epoca del West tradizionale, partendo dall’era coloniale e della guerra di indipendenza americana. Infatti vi sono descritte alcune armi utilizzate dai primi frontiersmen, quali i fucili ad avancarica monocolpo Kentucky, Northwest Trade Gun e il celeberrimo Hawken, derivazione modificata del primo. La rassegna delle pistole parte invece dagli Anni Trenta dell’Ottocento, con la Pepperbox a 4, 5 o 6 colpi molto utilizzata dai giocatori d’azzardo, un modello rimasto sostanzialmente invariato per decenni, per proseguire con la nota Colt Paterson di vario calibro, che, come scrive correttamente l’autore, fu la prima ad essere ideata da Samuel Colt, sebbene si fosse rivelata poi un insuccesso commerciale. Ad essa fecero seguito la Colt Walker, prodotta per un solo biennio dal 1847 e la Colt Dragoon, maggiormente perfezionata e in uso fino allo scoppio della Guerra Civile. Dopo numerosi esperimenti, si giunse alla produzione della Colt Navy, modello destinato alla marina ma preferito da molti gunmen, quali Wild Bill Hickok, costruita dal 1851 per almeno due decenni, nonché della Colt Army, teoricamente destinata all’esercito; mentre la prima era un calibro 36, la seconda era una 44, preceduta di qualche anno dalla Smith & Wesson nelle versioni calibro 31 e 41. Terminato il conflitto secessionista, apparvero le Colt e le Remington “single action”, tutte con tamburo rotante contenente 6 colpie a retrocarica (acune delle prime Colt erano a caricamento anteriore, con tamburo di 5 colpi).
I fucili fecero invece grandi passi in avanti fin dal conflitto secessionista, dopo che allo Springfield 1847 e all’Enfield 1853, entrambi ad avancarica, subentrarono gli Sharps a retrocarica e cartuccia metallica, poi gli Henry a 15 colpi con caricamento a leva e gli Spencer a 7 colpi. Appena terminate le ostilità, fu la volta del celeberrimo Winchester 1866 a 13 colpi e del modello 1873 a 15 colpi, le armi comunemente usate dagli scout e dai mandriani delle praterie. Nello stesso anno si diffuse anche lo Springfield Trapdoor, di cui erano dotate le truppe americane stanziate nei presidi occidentali per contrastare l’azione dei Pellirosse. Particolare evidenza merita anche il Remington Rolling Block 1867, un’arma a retrocarica con caricatore di un solo colpo in dotazione alla Guardia Rural (Rurales) che pattugliava i confini del Messico settentrionale per arginare le incursioni di Indiani e desperados .
Raciti enumera e commenta con dovizia di particolari molte altre armi in uso alla Frontiera, delle quali il bravo De Meo riporta le immagini a lato di ogni pagina, fornendo al lettore un’idea precisa dei modelli menzionati. Infine vi è un doveroso accenno alla mitragliera Gatling a canne rotanti azionata a manovella e ideata da Samuel J. Gatling nel 1861, ma, sconfessando certi luoghi comuni, scarsamente impiegata nelle battaglie della Guerra Civile e ancor meno negli scontri con gli Indiani. E’ peraltro giusto il rilievo di Raciti che se Custer avesse accettato la batteria di mitragliatrici offertagli dal generale Alfred Terry, forse il massacro di Little Big Horn sarebbe stato evitato o comunque ridimensionato nelle sue proporzioni.
Il catalogo si pone come opera fondamentale per chi desideri conoscere o approfondire la storia del West, troppo a lungo alterata e spesso bristrattata dal cinema hollywoodiano, ma ancor più dallo spaghetti-western. In molti film si vedono le truppe americane affrontare le tribù ostili facendo strage di guerrieri con i loro Winchester e talvolta con le Gatling (“L’avamposto degli uomini perduti”, di Gordon Douglas, 1951). Nulla di più falso, dal momento che nelle battaglie di Rosebud e di Little Big Horn, entrambe del 1876, i soldati erano armati di Springfield-Allin monocolpo e le mitragliatrici non furono mai usate negli scontri campali. Contrariamente a quanto si crede, infatti, le perdite subite dai due schieramenti nel corso delle Guerre Indiane, furono assai limitate: secondo fonti accreditate, dal 1837 al 1891, in un lasso di tempo di 54 anni, i militari e i civili che li coadiuvavano persero poco più di 1.800 uomini, mentre le perdite dei Pellirosse si aggirarono sulle 6.000 unità.
Questo libro è dunque indispensabile per chi intenda conoscere la vera storia del West, lasciando da parte le fantasiose alterazioni apportate da cinema e fumetti. Vale la pena ricordare che in un celebre film diretto nel 1961 da Michael Curtiz, “I Comancheros”, ambientato nel Texas del 1843, i Ranger sparano con fucili a ripetizione non ancora inventati, mentre in numerose pellicole di pistoleri si usano le Colt con una disinvoltura che un’arma pesante più di 2 chili non consentiva. Al riguardo, bene ha fatto Raciti a precisare che le fondine per le pistole erano abbastanza rare e che i cinturoni si portavano all’altezza della vita, non sotto l’ombelico come si vede frequentemente nei film. Del resto, come raccontò l’ex sceriffo Pardner Jones al regista John Ford, la regola del più veloce ad estrarre fu una pura finzione cinematografica, escogitata per spettacolarizzare l’azione senza rispetto per le risultanze storiche e nei duelli i contendenti si servivano più spesso del fucile.
In conclusione, sul West – quello della verità – vi è ancora molto da imparare e per questo non è esagerato sostenere che il catalogo di Raciti e De Meo costituisca un passo irrinunciabile, almeno per chi voglia staccarsi dalla leggenda e approfondire una realtà troppe volte mistificata, che a lungo andare ha finito per inficiare la credibilità di un genere. Il saggio può anche costituire una valida consultazione per coloro che intendano scrivere di narrativa western, senza basarsi su testi inattendibili o film di discutibile credibilità.
Il consiglio è di andarsi a leggere attentamente questo libro, che racconta, attraverso l’evoluzione delle armi in oltre un secolo, anche la storia della nascita e della crescita di una nazione.

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