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L’educazione del guerriero

A cura di Gaetano Della Pepa

Gli indiani dovevano le loro particolari doti di disciplina, abnegazione, resistenza e coraggio all’educazione che ricevevano, tutta improntata a far acquisire la padronanza di sé. Sin dalla più tenera infanzia il fanciullo indiano veniva allenato a controllarsi, a sottomettere il corpo, i sensi e la mente alle prove più dure, per renderli quanto più inaccessibili alla debolezza e questa salutare influenza agiva su di lui sin dalla culla e non in senso figurativo, ma realmente. Com’è noto, le culle indiane consistevano in un’asse di legno sulla quale era stesa una pelle di daino.
Qui il piccolo, il papoose, era legato e tale rimaneva sia al riparo della tenda, sia sul dorso della madre intenta alle sue quotidiane faccende o sulla groppa del cavallo in mezzo alla schiera in marcia durante lo spostamento del campo.
Così aveva inizio una disciplina corporale che avrebbe ricordato più tardi, nelle lunghe ore d’agguato durante le quali anche il trasalire di un muscolo avrebbe compromesso il risultato della caccia o attirato l’attenzione del nemico.


Una donna indiana col suo bambino

Oltre che a non muoversi, il fanciullo si abituava a non parlare. In molte tribù si avvolgevano nella lana i rudimentali poppatoi non soltanto per impedire al neonato di gridare, ma anche per obbligarlo a respirare col naso e non con la bocca, per determinare un’abitudine che poteva essere questione di vita o di morte per uomini la cui esistenza tanto si avvicina a quella degli animali selvaggi.
L’educazione del piccolo Indiano continuava in forme via via più dure quando sia in grado di reggersi in piedi, anche se non occorre concluderne che i genitori dessero prova di brutalità. Al contrario, erano innumerevoli le manifestazioni di affetto. Amavano molto i loro figli, come risulta nelle relazioni di viaggio dei missionari. “La tenerezza delle donne indiane per i loro figli”, afferma padre Savinien nelle sue Missioni Cattoliche, “non è certamente inferiore a quella delle donne dei paesi civili. Anche l’Indiano condivide questo sentimento. Il guerriero pronto ad affrontare la morte più crudele, la morte lenta mentre lo bruciano vivo, senza emettere un gemito, piange come un bambino se il figlio o la figlia si ammalano o muoiono.


Un piccolo indiano

Questa tenerezza degli Indiani per i piccoli talvolta ci mette in imbarazzo, perchè se qualche allievo ha un piccolo guaio o un leggero mal di testa l’intera famiglia, appena avuta la notizia, viaggia giorno e notte per giungere da noi e vedere quello che avviene. Qualche volta chiedono all’agente del governo il permesso di condurre il fanciullo al campo, senza rendersi conto che là gli mancheranno le cure necessarie, oppure vogliono applicare al fanciullo i rimedi dello stregone.”
Il Pellerossa del XIX secolo non soltanto era buono coi suoi figli ma rispettava anche quelli del nemico. Ciò non significa che allevasse i suoi figli nelle mollezze. All’età di cinque anni il bimbo andava a cavallo, a caccia col padre, si esercitava nella pesca, imparava a conoscere le piste, ad ascoltare le voci della natura, ad osservare, a discernere, a classificare nella sua memoria una quantità di piccoli fatti che avrebbero avuto per lui grande importanza.


Bakeitzogie, un guerriero Apache

Era, insomma, un’educazione assai simile a quella impartita dai genitori ad un lupachiotto, un modelli che affinava eccezionalmente i sensi del bimbo. L’odorato degli Indiani aveva la finezza di quello dei cani da caccia; la loro vista, senza essere oggettivamente migliore di quella dei Bianchi, consentiva di riconoscere particolari che per questi ultimi non avrebbero avuto senso; il loro orecchio distingueva tra mille rumori una voce, un segnale, un indizio e il loro tatto era assai affinato.
Nel corso dell’apprendistato, tanto il maestro che l’allievo conservavano il più assoluto silenzio. Il guerriero era gaio, brillante e rumoroso quando, attorno al focolare, narrava lunghissime storie o quando si divertiva con i compagni. Però diventava il più silenzioso degli uomini se era impegnato nella caccia o nella guerra, perchè considerava la parola un pericolo permanente. Essendogli tuttavia indispensabile comunicare agli altri i suoi pensieri, adottava il linguaggio dei segni.


L’Osage Black Dog

Il bambino Indiano veniva ritenuto privo di personalità sino a dodici anni, e considerato, indipendentemente dal suo sesso, una “fanciullina”, ossia poco più di un giovane animale. Al momento della pubertà, prendeva coscienza della sua futura condizione di guerriero mentre si trasformava non solo fisicamente, ma anche psicologicamente. Si anneriva il viso col nerofumo, per significare che iniziava il digiuno e che nessuno gli doveva rivolgere la parola. Poi, a seconda delle usanze, si ritrovava nella foresta o si chiudeva nel suo angolo, sotto la sorveglianza dello stregone, digiunando e meditando talvolta anche per otto giorni. Cadeva così in una sorta di estasi o in un sonno affollato dalle allucinazioni della fame, durante il quale gli accadeva di sognare un animale o un oggetto che divenivano il suo nume tutelare e di cui prendeva spesso il nome, e che, al risveglio andava a cercare o a cacciare per portarlo trionfalmente al campo. Allora il padre invitava gli amici a una grande festa, nel corso della quale il giovane guerriero assumeva il suo nuovo nome, mentre lo stregone decideva quale parte dell’animale – becco, dente, artiglio – avrebbe dovuto portare con sé come talismano.


I figli di Quanah Parker, Comanche

Da quel momento il fanciullo era considerato uomo e faceva di tutto per dimostrarlo. Il primo risultato da ottenere era l’acquisizione della piena padronanza di sé, poiché gli Indiani consideravano massima virtù non cedere né alla paura, né alla collera, né al desiderio, restando impassibili persino durante l’agonia. Un vecchio capo incoraggiava così un guerriero che partiva per la caccia al bisonte in pieno inverno per soccorrere la tribù che moriva di fame: “Né la fame,né il freddo, né il dolore, né la paure di queste cose, né il dente acuto del pericolo, né la stessa stretta della morte debbono impedirti di compiere un’azione utile.” Inoltre i missionari bianchi documentano: “Oltre alla sua volontà, l’Indiano possiede un vigoroso organismo che gli permette di conseguire l’autocontrollo. Ogni guerriero si allena sin da giovane per resistere alla fatica e alle intemperie, per giungere a poter correre per molti giorni di seguito portando le armi ed i viveri; si disseta all’acqua di fonte e solo una coperta od una pelle lo protegge dalla pioggia e dal freddo. Quando è necessario, l’Indiano deve essere in grado di braccare l’animale per più giorni consecutivi senza mangiare, senza bere, senza dormire e senza cedere alla debolezza”. Così si legge nelle Missioni Cattoliche di padre Savinien.


Le figlie di Black Coyote Claw Necklace, Arapaho

Per arrivare a questa padronanza occorreva sottoporsi a un regime rigoroso ed a precise regole igieniche. Tutti coloro che li hanno conosciuti al tempo della loro vita libera, prima che le miserie e i vizi della civiltà li facessero degenerare, hanno concordato nel porre in rilievo la grande cura che avevano del loro corpo. Quando l’intera prateria era il loro regno, restavano per quanto potevano nei pressi dei laghi e dei fiumi per lavarsi e bagnarsi il mattino e la sera, uomini, donne e bambini. Inoltre, nonostante i metodi rudimentali, avevano elaborato veri e propri bagni di vapore, il cui uso era generale e permanente. Vi era per questo un apposito luogo, la sweat house, una tenda bassa ricoperta di pelli e di spesse coperte perchè l’aria non vi circolasse. Vi si entrava nudi e si prendeva posto presso una tinozza d’acqua, mentre fuori venivano scaldate grosse pietre poi fatte rotolare a una a una dentro la tenda, sulle quali si versava l’acqua, che vaporizzava in modo che ben presto una nube densa e umida riempiva il locale rendendo l’atmosfera quasi soffocante. Ma l’indiano, soffrendo, vi rimaneva, bevendo una grande quantità d’acqua per evitare la disidratazione che poteva essere provocata dal sudore che usciva abbondantemente dal corpo.
Gall e suo nipote
Infine dopo un certo tempo, si usciva in fretta per buttarsi nel fiume, talvolta ghiacciato, perchè si facevano bagni di vapore tanto in estate quanto nel cuore dell’inverno. Quando si usciva dall’acqua, il corpo veniva frizionato vigorosamente mente ci si avvolgeva in coperte calde. Si concludeva l’operazione ungendosi con il grasso d’orso allo scopo di mantenere elastici i muscoli e proteggere la pelle dalle intemperie, dal sole e dalle punture degli insetti. Talvolta in luogo del grasso di orso si usava il misterioso “Balsamo dei Seneca” che non era altro che “Olio di roccia”, ossia il petrolio.
Purtroppo, per via della loro aspirazione a vincere ogni debolezza fisica e ad allenarsi alla sopportazione del dolore, gli Indiani sottoponevano il loro corpo a ben altre prove, comprese autentiche torture che l’orgoglio li induceva a sopportare senza un lamento ma che portavano, sia pure raramente, persino alla morte e che, in ogni caso, invece di renderli più forti fisicamente, li indebolivano. Di queste tragiche cerimonie la danza del sole resta la più cruenta.
L’adolescente aveva diritto di chiamarsi guerriero solo dopo aver dato prova di coraggio di fronte al nemico e, nella maggior parte delle tribù, dopo aver personalmente abbattuto un avversario. Questo evento non si faceva attendere molto perché per questi nomadi sempre all’erta la guerra non era un’operazione molto diversa dalla caccia con cui procurarsi ciò di cui si abbisogna. Così il giovane aveva presto occasioni per cimentarsi. Tanto per fare un esempio Toro Seduto all’età di quattordici anni aveva già affrontato e ucciso un nemico della tribù dei Crow.


Iron Elk (Oglala) e la sua famiglia

Questo stile di vita comporta conseguenze che modificavano profondamente il carattere. Il nomade passava da periodi di intensa attività ad altri di completo riposo. Aveva momenti di distensione, ma in altri casi doveva compiere sforzi notevoli.
Quando non era in guerra o alla caccia, non si dedicava ai lavori agricoli. Non aveva il senso della proprietà e si mostrava facilmente ladro, il che era un difetto che li metteva in cattiva luce. Ma essi rubavano senza pensare di agire male, anzi si vantavano delle loro imprese. Rubare un cavallo era bene, ma rubarne dieci era decisamente meglio e costituiva la prova di destrezza,abilità, astuzia. Era ben più difficile impadronirsi di un cavallo chiuso in un recinto o legato vicino ad una tenda occupata da uomini armati che abbattere un bisonte nella pianura che un cervo nella foresta. Il furto, quindi, diventava una caccia come un’altra nella quale non si vedeva nulla di vergognoso. Parimenti, di tanto in tanto, le tribù nomadi si saccheggiavano reciprocamente.