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Non c’è ombra in South Dakota

A cura di Gian Mario Mollar
La Bella copertina del libro
Ci sono romanzi che ti piacciono. E ci sono romanzi di cui ti innamori. Mi è successo con “Non c’è ombra in South Dakota” di Andrea B. Nardi, edito da Robin Edizioni.
La storia ruota intorno a La Calahorra, un puntino di case di legno perduto nelle Grandi Praterie tra un oceano di erba ondeggiante e un cielo altrettanto sconfinato. Inizia con un uomo, Isaac Colquitt, che arriva tra le baracche in un giorno di pioggia del 1875, e ne diventa lo sceriffo. Per scoprire qual è il suo segreto e che cosa l’abbia portato proprio lì, nel bel mezzo del nulla, dovrete attendere proprio fino alla fine: quello che c’è nel mezzo è la storia di un ragazzo, un trovatello abbandonato da una carovana di quaccheri, che si intreccia con le anime di quel remoto villaggio. Il bambino diventerà un uomo e abbandonerà quel mondo disperato e incantato, salvo poi rimpiangerlo al punto di farvi nuovamente ritorno.
Attraverso il filtro dei suoi occhi, sgranati su quella vastità impassibile all’odio e all’amore degli uomini, rivivremo vicende della Guerra Civile, ma anche i difficili rapporti con i Nativi, le migrazioni dei bisonti, i furti di bestiame e le ardue sfide della vita quotidiana dei pionieri, che decisero di chiamare casa quel punto preciso nel vuoto della prateria. “La prateria si fa burla del vostro desiderio di riparo: non ne troverete. E rende precario ogni tentativo di costruirne. Ve lo distruggerà. Alla fine tutto ciò vi porterà al delirio, a uno di quei momenti in cui si muore. Oppure inizierà a piacervi.” Il romanzo intreccia le storie di uomini e donne a cui questa sfida piacque, al punto che decisero di chiamarla casa: tra le sue pagine, ad esempio, incontrerete il capovillaggio Teddy, che sapeva tutto di mandrie, mucche, cavalli e ladri di bestiame, ma che era pronto a “tacitarsi sereno non appena si fosse scivolato su una argomento che non conosceva o non voleva conoscere”, dote ormai dimenticata ai giorni nostri. E anche Aaron, il padre del ragazzo, costantemente impegnato a determinare se fosse più dura la sua schiena oppure la terra che coltivava, e tutta una serie di personaggi minori, ma destinati a restare impressi nella memoria.
La Calahorra, in qualche modo, con la sua coralità e la sua distanza dal resto del mondo, mi ha fatto tornare in mente un villaggio delle mie letture giovanili: la Macondo di “Cent’anni di solitudine”, di Gabriel Garcia Marquez. Anche in questo caso, infatti, c’è un po’ di magia, non tanto nelle vicende narrate, quanto piuttosto nello stile di scrittura. L’autore, infatti, riesce, meglio che in un teorema di fisica della relatività, a fare uno strano esperimento con lo spazio e con il tempo e a comprimere tra le righe stampate gli orizzonti mistici dell’Ovest e lo stillicidio della storia e delle generazioni.
Quello di Nardi è un romanzo western, su questo non c’è dubbio, eppure allo stesso tempo è qualcosa di più. Attraverso le vicende di cowboy e indiani (molte delle quali rigorosamente prese dalla Storia con la esse maiuscola), ci parla anche dell’essenza della vita. “Il cowboy è un tizio dalla faccia infelice a cui piace cavalcare nella prateria per poter guardare da lontano i ranch in cui amerebbe vivere rimpiangendo di non essere a cavallo nella prateria”. L’intera vicenda si basa su questa dialettica contrastante: anche il protagonista, infatti deciderà di abbandonare La Calahorra per vedere il mondo e la vita “civile”, solo per poi ripensarlo con nostalgia, proprio come la Teresa di “Rimini”, una celebre canzone di Fabrizio De Andrè. Anche gli abitanti del villaggio sognano l’arrivo della cosiddetta civiltà, rappresentata dalla ferrovia, eppure al tempo stesso la temono come una sventura. L’essenza della vita, sembra suggerirci l’autore, si nasconde forse proprio lì, nella tensione frustrante ed esaltante tra ciò che si desidera e ciò che si ottiene.
Nel raccontare, Nardi si prende il tempo necessario. Fraseggia lungo, su più righe, e il progresso della narrazione è descrittivo, cesellato. I dialoghi non hanno virgolette o caporali, come nei romanzi di Cormac McCarthy. Succedono tante cose tra le pagine di “Non c’è ombra in South Dakota”, eppure al tempo stesso si ha l’impressione di rimanere fermi allo stesso punto, perché “nel West rimangono solo le cose serie, tutto il resto si squaglia, spazzato via dall’immensità degli spazi, dove perfino la natura – l’alba, la notte – deve fare i conti col tempo infinito che impiega ad attraversare”. Il testo è anche consacrato da una breve ma incisiva postfazione di Enzo G. Castellari, il regista del mitico Keoma con Franco Nero, uno dei miei spaghetti western preferiti.
Ogni giorno in Italia si stampano decine di libri, gran parte dei quali stentano a raggiungere anche solo cinquanta lettori. In questo rumore bianco, è facile smarrire le perle, i testi che contano veramente. “Non c’è ombra in South Dakota” è uno di questi. Non perdetevelo.

Titolo: Non c’è ombra in South Dakota
Autore: Andrea B. Nardi
Editore: Robin Edizioni
Pagine: 288
Rilegatura: Brossura leggera
Prezzo: € 12,75

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