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Il massacro Webster

A cura di Gian Carlo Benedetti

L’attacco alla carovana
L’anno 1839 nella frontiera del Texas, ritenuta la più selvaggia del Far West, si presentava un poco meno problematico per i coloni del settore occidentale, anche se non vanno taciuti i massacri della famiglia Morgan avvenuto il primo gennaio e quello dei Campbell il 23 successivo. Ciò poiché gli Shawnes erano stati sconfitti, ucciso in battaglia il vecchio capo Bowles, costretti a lasciare le loro terre per il preciso disegno politico di Mirabeau Lamarr Presidente della neonata Repubblica dal primo dicembre 1838 che, sconfessando l’operato pacifista filo-indiano del predecessore Sam Houston, prevedeva l’allontanamento, con le buone ma soprattutto le cattive, di tutte le tribù stanziali.
All’Ovest invece la situazione era assai più delicata poiché gli irriducibili Comanches ed alleati Kiowas costituivano da sempre una temibile e ricorrente minaccia. Pure nel Sud Ovest, ove l’esercito aveva costruito Fort Burleson, i Comanches avevano ripetutamente attaccato all’inizio dell’estate una spedizione per il rilevamento e mappatura del territorio. Il sistema dei Forti e Campi militari, all’epoca ancora tutto da sviluppare, quali presidi al limite delle terre colonizzate nel Texas si rivelò sempre effimero poiché anche grosse formazioni di razziatori, grazie alla perfetta conoscenza del territorio e grande mobilità, transitavano inpunemente tra le maglie degli itinerari delle pattuglie di interdizione. Questo esponeva i coloni a periodiche micidiali razzìe e non è quindi strano che la politica vincente risultasse quella dello sterminio. Soltanto anni dopo si realizzò che l’unico sistema per contrastare le razzie era quello di dare la caccia ai responsabili nel cuore della stessa Comancheria e nel rifugio delle Staked Plains (Llano Estacado). Per queste spedizioni occorrevano però consistenti truppe ben armate e montate, guidate da esperti scouts nativi, trattandosi di un territorio impervio, brullo, con pochi pozzi per di più stagionali ed allora inesplorato. Una formazione militare poteva girare a vuoto per intere settimane, sino allo sfinimento di uomini e bestie, senza vedere l’ombra di un solo nemico.
Un’ulteriore complicazione stava spesso sulla incerta identità e provenienza dei razziatori poiché a vessare i coloni non erano soltanto i Comanches, seppure i più potenti e molesti, ma anche i loro alleati Kiowas, e poi gli Apache Lipan, Caddo, Shawnee, Kickapoo, Kichahis, Anandarko, Ionis ed altri.
La depredazione più spaventosa avvenne il 27 agosto 1839 ma la sua data, come vedremo, è rimasta per molto tempo incerta.


Guerrieri Comanche

Fu perpetrata ai danni di una carovana organizzata da John Webster, un avvocato possidente che aveva venduto le sue terre nella natìa Virginia per stabilirsi nel Texas nell’autunno del 1835. Aveva partecipato all’insurrezione dei patrioti texani contro il Messico e dal 1839 operava come speculatore terriero. All’epoca venivano assegnate dal Governo terre gratis per favorire l’immigrazione nel paese e ci si poteva appropriare di zone fertili considerate libere. Si ignorava il fatto che per i pellerossa, pur non riconoscendo la proprietà privata e non praticando l’agricoltura, si trattava pur sempre di indebite intrusioni che ne restringevano lo spazio vitale. Il convoglio era partito in agosto dal fiume Colorado dirigendosi verso il San Gabriel con sei carri coperti stipati di provviste, armi, munizioni, un cannoncino, vestiario ed accompagnato dalla famiglia e tredici uomini, compreso un servo di colore. Inizialmente alla spedizione si era aggregato un altro speculatore, John Harvey, con i suoi uomini, intendeva proseguire per raggiungere la sua famiglia presso Austin. Un contrattempo dell’ultimo minuto impedì ad Harvey ed al suo gruppo di lasciare l’abitato di Hornsby Station insieme al Webster. Secondo un articolo pubblicato il 16 ottobre 1839 dal giornale locale “Telegraph & Texas Register” la sfortunata spedizione era composta da tredici uomini e dalla signora Dolly Webster moglie del boss con i due figli minori Virginia e Booker. Dopo circa trenta miglia di viaggio incontrarono una grossa formazione di Comanches. Si trovavano a circa sei miglia di distanza dal luogo ove il Webster intendeva costruire un fortino ed accaparrarsi le terre ma, saggiamente, decise di tornare indietro anche per riunire la parte dei suoi uomini che si era allontanata per radunare del bestiame fuggito in una stampede. Durante il viaggio notturno si ruppe l’asse di uno dei carri mentre stavano guadando il corso del San Gabriel e furono costretti a lavorare sino alle tre di notte per la riparazione. Proseguirono poi senza sosta sino a raggiungere Brushy Creek quasi all’alba. I Comanches, che li attendevano in agguato, attaccarono alle prime ore dell’alba in un luogo situato a circa due miglia dall’odierna città di Lender nella Contea di Williamson.
Virginia Webster nel 1912, settanta anni dopo il massacro, rammentò così l’accaduto:
“Gli indiani ci aspettavano in agguato. Gli uomini tennero un breve consiglio poichè alcuni intendevano attestarsi dentro il canale del Brushy Creek per resistere ma poi optarono per formare il cerchio difensivo con i carri.


La carovana in viaggio

Iniziò così l’impari battaglia tra i coloni e circa 300 indiani che durò dall’alba sino alle 10 del mattino, allorquando cadde l’ultimo difensore. Nel frattempo erano sopraggiunti altri seicento pellerossa, portando i loro numero totale a circa novecento (sic). I selvaggi abbandonarono il campo di battaglia a buio fatto, sfasciando tutto ciò che non potevano portare seco. Svuotarono i sacchi di caffè sul terreno, ruppero tutta l’argenteria ed il servito di fine porcellana di mia madre per farne ciondoli da indossare ed apporre sulle armi, al collo e sui fianchi. Spezzarono la spada di mio padre, la cui elsa fu divisa in tre pezzi per ciascuno dei capi che avevano guidato l’assalto. Ero terrorizzata dalla vista di tutti i coraggiosi caduti per mano dei selvaggi e ricordo come mio fratello lottò contro gli indiani a battaglia finita e come mia madre ebbe a soffrire, nel corpo e nella mente, vedendo mio padre ed i nostri uomini caduti, smembrati, scotennati e spogliati e le loro vesti stracciate. Non la lingua ne’ la penna può descrivere quali terribili pensieri passavano per la mente della mia cara vecchia madre. Mio fratello allora aveva otto anni ed io solo tre, compiuti in aprile”. Secondo il lontano ricordo di Virginia gli uomini della carovana avevano combattuto coraggiosamente ma erano stati inevitabilmente massacrati all’interno del cerchio dei carri dal soverchiante numero degli assalitori. I carri erano infatti pieni di frecce conficcate e fori di pallottole a muta testimonianza della ferocia della lotta ed il successivo ritrovamento di fucili con il calcio spezzato ne denotava l’uso come clave nella disperata lotta corpo a corpo.
Alla fine della breve battaglia John Webster e tutti gli uomini erano stati massacrati. Da registri dell’epoca i loro nomi sono: i fratelli William P. Reese e Washington P. Reese di Brazoria; John Stilwell e Wilson Flesher della Virginia; lo scozzese Martin Watson; sig. Blazley; Nicholas Baylor; Milton Hicks del Kentucky; William Rice della Virginia; Albert Silsbey del Kentucky; James Martin del Texas; il sig, Leshter, messicano ed infine un ignoto uomo di colore al servizio di uno dei prospettori.
Questa è l’unica testimonianza diretta del massacro resa a distanza di molti anni dai fatti da Virginia che indicò come data dei tristi fatti il 20 giugno 1839 mentre lo Stato del Texas, a seguito di riscontri, stabilì che la corretta datazione era il 27 agosto, giorno apposto sulla lapide commemorativa visibile oggi sulla Highway texana Nr. 39 presso Lender.
Gli indiani ridussero in schiavitù Dolly Webster con i figli Booker e Virginia, certe volte tenendoli separati. La coraggiosa donna non si arrese mai e scappò ben tre volte, in due delle quali fu ricatturata. Riferì che delle trentatrè persone bianche, fra donne e bambini, come lei prigioniere nel campo dei Comanches nel tardo 1839 ed inizio del 1840, almeno sei furono uccise a colpi di Tomahawk per disobbedienze od astio. Ciò avvenne prima del proditorio massacro di una delegazione di capi Comanches mentre parlamentava a Council House (San Antonio, 19 marzo 1840) che esacerbò la lotta a scapito della vita dei prigionieri ancor in mano alla tribù. Dopo sette mesi di prigionìa la donna e la piccola Virginia riuscirono a fuggire coronando il terzo tentativo e giunsero in salvo dopo dodici lunghi giorni di peregrinazione nel wilderness, disidratate e quasi morte di fame e sete. Booker fu invece recuperato a San Antonio, appena sei giorni dopo l’arrivo della madre e sorella. Vari anni dopo Booker Webster si arruolò nella Compagna “F” del Primo Reggimento dei Volontari a Cavallo al comando del famoso Texas Ranger John Coffee “Devil Jack” Hays nella guerra contro il Messico nella cui capitale morì per ferite, appena diciottenne, il 16 gennaio 1848.
Virginia indicò la tribù responsabile la Comanche ed i suoi capi in Yellow Wolf (Lupo Giallo), Guadalupe e Buffalo Hump (Gobba di Bisonte).
Intanto John Harvey, ignaro dell’accaduto si era messo a distanza di pochi giorni in viaggio seguendo l’itinerario dei Webster, giunse sul luogo del massacro segnato dai carri distrutti ed corpi martoriati.
Il dr. G. Gilmore, che partecipava ad un’altra spedizione di ricognizione sul Brazos con un gruppo di venti compagni, riferì alcuni giorni dopo al medesimo giornale di essere stato lui stesso il primo a trovare i corpi.
Il cippo che ricorda l’evento
Harvey fece dietrofront e riportò la notizia alle autorità militari. Da Bastrop partì una colonna di circa 50 coraggiosi volontari radunata in tutta fretta dal Col. Edward Burleson che presto raggiunse il luogo. E’ registrata la testimonianza di uno di questi tardivi soccorritori, il giovane John Jenkins, che ricordò la macabra scena come surreale, con le ossa delle vittime spolpate dagli animali e sparse intorno ai relitti dei carri bruciati. Seppellirono i miseri resti dentro una vecchia cassa. Riuscirono ad identificare con certezza solo lo scheletro del sig. Hicks che aveva una gamba di legno persa nella battaglia di Anahuac nel 1835. Non trovando i corpi o tracce della signora Webster e dei bambini ne dedussero correttamente che erano stati catturati vivi dai Comanches per essere ridotti in schiavitù o scambiati secondo il costume della tribù. Il gruppo armato seguì la pericolosa pista per diverse miglia ma, non trovando nulla di concreto, fece un mesto rientro alla base. E’ noto che nelle depredazioni i Comanches, e non solo loro, uccidevano tutti i maschi adulti ma solitamente prendevano in schiavitù donne e bambini anche piccoli a patto che non ritardassero la marcia o dessero fastidio con strilli e pianti. Gli infanti venivano uccisi sbattendo loro il capo su una pietra od un albero per non sprecare munizioni. Qualche fortunato poteva essere adottato dalla tribù, magari in sostituzione di un figlio caduto, e quindi ricevere amorevoli cure mentre tanti altri finivano schiavi e venivano maltrattati dagli orgogliosi guerrieri e dalle loro sqaws. Fiorì, sviluppandosi negli anni successivi, anche per anni dopo Guerra Civile, un vero e proprio mercato dei riscatti con i Comancheros quali mediatori interessati, tanto che i raids puntavano a procurasi prigionieri da cui ricavare in cambio merci pregiate, cavalli, armi, munizioni e coperte. Inutilmente le Autorità Militari cercarono in seguito di spezzare questa spirale vietando il pagamento dei riscatti: ordini disattesi dai giustamente trepidanti parenti ed a volte pure dagli stessi ufficiali subalterni sul territorio, inorriditi dal trattamento riservato ai prigionieri, specie se di sesso femminile.