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La ballata di Soapy Smith, il re dei truffatori

A cura di Gian Mario Mollar

Un uomo calca a grandi falcate il molo Juneau, che si affaccia sul mare gelido e tumultuoso della baia di Skagway, in Alaska. L’uomo è alto e dinoccolato, una corta barba, nera e folta, gli mangia il viso fin quasi all’altezza degli occhi, che sono iniettati di sangue per il troppo whisky bevuto e per la rabbia. Un cappello chiaro, a tesa larga, gli sta appollaiato su un ciuffo di capelli scuri e unti. Stringe un Winchester Modello 1892 tra le mani, come se volesse stritolarlo, e la sua bocca vomita imprecazioni che si confondono con il ruggito delle onde.
All’altra estremità del molo lo attende un uomo con una pistola. Sono le nove di sera, ed è soltanto una sagoma scura nella luce incerta.
L’uomo sul molo gli intima di fermarsi, ma l’uomo con il fucile non lo ascolta e continua ad avvicinarsi minaccioso.
È l’8 luglio del 1898. Tra una manciata di secondi e cinque spari, l’uomo con il fucile sarà morto con una pallottola conficcata nello stomaco.
Questa è la tragica fine di Soapy Smith, uno dei più pericolosi e astuti tra i tanti truffatori e tagliagole che popolano le storie della Frontiera.


Soapy Smith sul letto di morte

Per scoprire la sua storia e la dinamica della sparatoria sul molo Juneau, però, dobbiamo prima fare qualche passo indietro.
La storia che stiamo per raccontare si svolge a Skagway, la “porta del Klondike”. È una cornice affascinante per il nostro racconto: la città si affaccia su una stretta baia, recintata da alte montagne ricoperte di larici e neve. Il mare su cui si specchia è perennemente agitato da venti freddi che spirano dal nord: secondo i nativi Tlingit, a scatenarli è una donna di pietra di nome Kanagu e il nome Skagway, che in lingua Tlingit significa “bella donna”, è un omaggio a questa dea arrabbiata, trasformatasi nella Face Mountain che sovrasta la città.
La città venne fondata nel 1887 da “Captain Billy”, William Moore, un capitano di battello a vapore che reclamò la proprietà di quei 160 acri di terra sul mare e vi costruì una capanna di tronchi per la sua famiglia. La speranza del capitano era che, di lì a breve, si sarebbe scoperta una ricca vena d’oro nella parte superiore del fiume Yukon. Con questa prospettiva, costruì un molo per le navi e si dispose all’attesa dei cercatori d’oro che lo avrebbero reso ricco.


“Captain Billy”, William Moore

E in effetti i cercatori d’oro arrivarono, dieci anni dopo: nel luglio del 1897, le prime orde di disperati iniziarono ad affollare il molo di Skagway per riversarsi poi a Nord, affamati di ricchezza e di sogni. Era la Klondike Gold Rush, la corsa all’oro del Klondike: tra il 1896 e il 1899 si stima che circa centomila cercatori si riversarono nella zona. Era anche l’ultima frontiera: sul finire del XIX secolo, gli indiani erano già stati sterminati o confinati nelle riserve e le loro terre rubate e affidate a volenterosi coloni. Per chiunque avesse sete di avventura o di fortuna, l’unica opzione possibile era il Grande Nord.
In effetti, i pochi anni della Gold Rush sono entrati per sempre nella leggenda. Tanto per capirci, è qui che, secondo Walt Disney, Paperon de’ Paperoni ha costruito la sua fortuna, ed è proprio a Skagway che approda il giovane Jack London, che vi ambienterà uno dei suoi capolavori: “Il richiamo della foresta”. L’oro del Klondike è un formidabile richiamo per avventurieri di ogni tipo, comprese alcune leggende del vecchio west: il leggendario Wyatt Earp, per esempio, si trasferirà qui a vent’anni di distanza dalla sparatoria dell’OK Corral, per gestire un saloon, e lo stesso fa Frank Canton, che porta sulle rive dello Yukon la sua stella di latta dopo aver sbaragliato la pericolosa Banda dei Doolin in Oklahoma.


Una vista di Skagway

L’arrivo dei cercatori d’oro cambia completamente la realtà cittadina, che si trasforma in un caotico complesso di case di legno che ospitano quasi quindicimila persone. La main street, d’inverno, è invasa dalla neve, ma in primavera si trasforma in un fiume di fango: i marciapiedi di Skagway sono delle rudi passerelle di legno, che traghettano gli abitanti da un edificio all’altro evitando loro di affondare nella melma. Negozi, empori, alberghi e saloon spuntano come funghi: le loro insegne, scritte a mano con rozze pennellate, sembrano grida contro il cielo plumbeo e le montagne selvagge che abbracciano la città.
Ai consueti problemi di ordine pubblico – i pionieri, si sa, non sono celebri per la loro morigeratezza di costumi né per la loro sobrietà – si somma il fatto che la città è una specie di terra di nessuno, contesa tra Stati Uniti, British Columbia e la Russia, che accampa ancora dei diritti sull’Alaska. L’assenza di legge è un richiamo irresistibile per criminali e avventurieri di ogni sorta, tanto che gli agenti della North West Mounted Police, le celebri “giubbe rosse” canadesi, definivano Skagway: “solo un po’ meglio dell’inferno in terra” con “baruffe, prostitute e liquore costantemente presenti sulle sue strade”.


Cercatori d’oro

Il promotore di buona parte di queste attività illegali è un uomo chiamato Soapy Smith. Il suo nome di battesimo è Jefferson Randolph Smith II. Nasce nel 1860 nello stato di Georgia, nel Sud degli Stati Uniti, da una famiglia facoltosa: suo padre possiede una piantagione di cotone ed fa l’avvocato. Le sorti della Guerra Civile, però, stravolgono completamente l’equilibrio: gli Smith, in rovina perché schierati dalla parte sbagliata, sono costretti ad abbandonare la Georgia e a trasferirsi in Texas. A diciassette anni, dopo la morte della madre, Jefferson Smith abbandona Round Rock per trasferirsi a Fort Worth, sempre in Texas, e di lì si sposterà in Colorado: Leadville, Denver, poi Creede, poi ancora Denver. Del resto, per praticare il mestiere che si è scelto, è necessario avere poche radici e piedi veloci: truffare il prossimo è un lavoro sicuramente redditizio, ma anche dannatamente pericoloso.
Ben presto, Jefferson Smith si guadagna il soprannome di “Soapy”, “saponetta”. È un riferimento alla sua truffa più riuscita: quella, appunto, della “lotteria delle saponette”. Di fatto, la dinamica di questo inganno ricorda un po’ quello delle “tre carte” o dei “tre bussolotti”, più noti al pubblico italiano. Vediamo come funzionava, cercando di immaginare, con gli occhi della fantasia, Soapy Smith all’opera ad un angolo di strada, magari in occasione di una fiera o di una qualche celebrazione domenicale.
L’uomo monta un piccolo banchetto, su cui dispone una serie di barre di sapone rettangolari. Poi con fare teatrale estrae di tasca un grosso rotolo di banconote, accertandosi che tutti, nel capannello di persone che si va formando intorno al tavolino, le vedano bene. Ce ne sono di tutti i tagli: da pochi dollari fino, addirittura, a cinquanta e cento dollari.


Un famoso ritratto di Soapy Smith

Le mani dell’uomo frullano come colombe mentre avvolge ciascuna banconota intorno a una saponetta, ricoprendola successivamente con un foglio di carta e gettandola in un canestro a lato del tavolino. Mentre prepara le saponette, Soapy Smith imbonisce i curiosi: vincere è facile, puntando soli cinque dollari si potrà estrarre una saponetta dal canestro e, se sarete fortunati, sotto alla carta che la ricopre potrete trovare una banconota da cento dollari. Un affare, no?
Quando ha finito di impacchettarle, Smith mischia le saponette nel canestro. Ben presto, un uomo si fa largo con foga tra la folla. Butta sul banchetto un pugno di monete e poi pesca dal canestro una delle barre di sapone. «Ho vinto! Ho vinto venti dollari» urla di lì a poco, sotto lo sguardo allibito della folla e quello sorridente ed enigmatico di Smith.
Al primo fortunato concorrente se ne accodano molti altri: si vince davvero, perché non provarci? Nessuna delle saponette estratte in seguito, però, avrà un premio così ricco: molte non hanno nulla, altre pochi spiccioli. Quando nel cesto rimangono poche saponette e il grande premio da cento dollari non è ancora stato estratto, Soapy Smith alza la posta in gioco: visto che le probabilità di vincita sono aumentate, le saponette rimanenti vengono messe all’asta e assegnate al miglior offerente, raggiungendo anche il valore di venti o trenta dollari ciascuna. Curiosamente, però, a intascare il premio finale sarà l’uomo di prima, quello che aveva già vinto. Gli occhi della folla, questa volta, non sono galvanizzati, ma tristi e delusi. Nella mente di qualcuno si fa strada il sospetto di essere stato truffato, mentre stringe tra le mani un pezzo di sapone che ha pagato a caro prezzo – l’equivalente di un centinaio di euro dei giorni nostri.
Troppo tardi, però, perché Soapy ha già ripiegato il suo banchetto e alzato i tacchi in fretta e furia…


La Soap Box di Soapy Smith

Smascherare una truffa è un po’ come rivelare un gioco di prestigio: il piacere intellettuale della scoperta distrugge in gran parte la meraviglia. In questo caso, però, il meccanismo è piuttosto evidente: con artifici degni di un prestigiatore di “close-up”, Soapy Smith non avvolgeva realmente le banconote intorno alle saponette, ma si limitava a fingere di farlo e i pochi, “fortunati” vincitori non erano altro che suoi complici, utilizzati per adescare la folla a scommettere.
Inizia così la carriera criminale di Jefferson Soapy Smith, destinato a diventare il “re dei truffatori della frontiera”. Intorno a lui si forma una gang di tagliagole, che lo rispetta e lo teme al tempo stesso: Soapy ha carisma, è capace di slanci di generosità, ma al tempo stesso è pericoloso, facile all’ira e alla violenza. Il gioco delle saponette, ormai, gli va stretto: è tempo di puntare più in alto. A Denver apre il “Tivoli Saloon & Gambling Hall”, un incrocio tra un saloon e un casinò dove le truffe si ampliano e diversificano: dalle carte truccate alle aste di fondi di bottiglia spacciati per diamanti, fino alla vendita di azioni di attività commerciali inesistenti. All’ingresso della sala sul retro, dove ci sono i tavoli da poker e si svolgono le attività più losche, c’è un’insegna che recita “Caveat emptor”. È latino, significa “Stia in guardia il compratore”. È un avvertimento sornione, un invito a non lasciarsi fregare, forse ereditato dal padre avvocato, ma non sono molti gli uomini di frontiera capaci di coglierlo.
A quanto raccontano le fonti, Soapy divenne il ragno al centro di una fitta ragnatela di truffatori, che si estende fino a coinvolgere anche i barbieri, utilizzati per sbirciare nei portafogli dei loro clienti. Se qualcuno si rivelava particolarmente “carico” di contante, il barbiere lo marchiava con una sfumatura a “v” nei capelli della nuca, permettendo agli uomini di Soapy Smith di identificarlo agevolmente e di spennarlo a dovere, qualora avesse varcato le porte a respingente del Tivoli Saloon.


Soapy Smith in una famosissima foto scattata dentro un saloon

Con la nuova corsa all’oro nel Klondike, Soapy Smith si spinge a nord: proprio come una gazza ladra, non può resistere allo scintillio dell’oro. Sbarca a Skagway nel tardo ottobre del 1897, in compagnia di cinque amici, tutti esperti truffatori del suo calibro.
Cercare l’oro in Alaska non era un gioco da ragazzi: per realizzare i loro sogni di fortuna, i cercatori sfidavano il freddo, che poteva tranquillamente scendere sotto i -50 gradi centigradi, attraversavano immense distese innevate su slitte trainate da cani e allestivano fuochi per sopravvivere e bucare il permafrost, uno strato di ghiaccio duro e resistente come la pietra stessa. La sopravvivenza era una scommessa quotidiana.
Soapy Smith, invece, divenne un maestro nel cercare la fortuna in modo diverso: preferiva estrarre l’oro direttamente dalle tasche dei cercatori. Per farlo nel migliore dei modi possibili, però, Soapy seppe travestirsi da uomo onesto. Il giorno successivo al suo sbarco a Skagway, infatti, salvò dal linciaggio un barista di nome John Fay, accusato di aver ucciso due uomini nel corso di una rissa in un saloon. Spalleggiato dai suoi cinque compari, armati fino ai denti, Soapy Smith si fece largo tra la folla inferocita e liberò l’uomo, reclamando che il linciaggio non era una pratica accettabile. Di fatto, Fay era colpevole di quei due omicidi, ma salvandolo Soapy si costruì una facciata di cittadino di alti valori, che rinforzò ulteriormente stanziando una raccolta di fondi per le famiglie delle due vittime – soldi che con ogni probabilità finì per intascare lui stesso.
L’operazione “pubblicitaria” ebbe successo: Soapy venne accettato dalla comunità, che del resto aveva ben altro a cui pensare. Smith e la sua banda rilevarono dapprima il Clancy’s Saloon e successivamente, nel 1898, ne aprirono uno di nome Jeff’s Parlor. Ancora una volta, il saloon fungeva da centro operativo per una vasta serie di truffe, alcune delle quali così raffinate da meritare, se non ammirazione, almeno una certa considerazione.
Per esempio, anche se le linee telegrafiche non raggiungevano Skagway, Soapy Smith permetteva ai suoi laboriosi abitanti di inviare telegrammi alle loro famiglie lontane attraverso un finto ufficio telegrafico. Inutile specificare che i telegrammi venivano venduti a caro prezzo. Smith e i suoi provvedevano anche a inventarsi delle risposte per i messaggi che in realtà non erano mai stati inviati.
C’era anche un chioschetto che vendeva cartine della zona per un solo dollaro: in realtà, un espediente per sbirciare nei portafogli dei nuovi arrivati e identificare i più danarosi.


Una parte degli uomini della gang di Soapy Smith

Gli uomini di Smith, poi, pattugliavano le strade travestiti da cercatori d’oro, coinvolgendo i veri cercatori in giochi di carte truccate che finivano immancabilmente con lo spogliare il malcapitato dei suoi averi.
Si racconta che Soapy Smith e i suoi uomini organizzarono una raccolta fondi per celebrare l’arrivo del nuovo predicatore. La somma considerevole venne in effetti consegnata al prete, che però venne derubato la notte stessa da Smith e i suoi, riportando il piccolo tesoro nelle tasche dei banditi.
Nell’arco di qualche mese, Soapy Smith divenne il signore della città, con le mani in pasta non soltanto nel gioco d’azzardo, ma anche nel cambio dell’oro in valuta e in tutte le attività nevralgiche di quella città basata sul culto del dio denaro. Durante la festa del 4 luglio 1898, soltanto quattro giorni prima di morire, Jefferson Soapy Smith guidava la parata in qualità di marshal della città e maggiore contribuente: il Jeff Parlor si era praticamente trasformato nel “vero municipio” di Skagway, e in città non si muoveva una foglia senza il consenso di Soapy e dei suoi tagliagole. Chiunque provasse ad opporsi veniva nel migliore dei casi rispedito a casa, quando non tolto di mezzo con la violenza.
Non tutti, però, vedevano di buon occhio la prepotenza di Soapy Smith. Un gruppo di cittadini, stufi di truffe e raggiri, si consorziò nel “Comitato dei 101”, un gruppo di vigilantes che intimò a tutti i truffatori di lasciare la città. Soapy non esitò a raccogliere il guanto di sfida, rispondendo da parte di un fittizio “Comitato dei 303 per la Legge e l’Ordine” che nessuna minaccia o attività di vigilantes sarebbe stata tollerata, per proteggere gli interessi economici della città (che in realtà erano i suoi).
Purtroppo per lui, sottovalutò i rischi della situazione, che era sul punto di precipitare. La scintilla che innescò la bomba fu l’arrivo in città di un cercatore, un certo John D. Stewart. L’uomo aveva con sé una vera fortuna: 87 dollari in contanti e una scarsella di stoffa con dentro 2700 dollari in polvere d’oro (che equivalgono a circa settantamila euro attuali). Sulla fangosa main street di Skagway, l’uomo venne abbordato da uno degli uomini di Soapy, che fu da subito molto amichevole e sollecito nell’invitarlo al Jeff’s Parlor, la tana del lupo.
Il Jeff’s Parlor
Giunto al saloon, il povero cercatore incontrò uomini ancora più cordiali, che furono subito pronti ad offrirgli da bere e ad invitarlo a una partita a carte “tra amici”, una partita che lo separò ben presto del denaro contante che aveva con sé. Non soddisfatti, gli uomini della gang lo attirarono nel cortile posteriore del saloon, per ammirare “l’aquila di Soapy”. L’aquila c’era davvero, ma non era uno spettacolo così interessante: Stewart vide soltanto un uccello impagliato. Mentre era intento a guardarla, però, qualcuno gli scippò con destrezza la borsa contenente la polvere d’oro. Esiste anche un’altra versione, secondo cui l’uomo venne derubato della borsa nel corso della partita a carte, da parte di un uomo che poi scomparve tra la folla. Poco cambia, tuttavia, ai fini della nostra storia.
Steward, l’uomo derubato, non ha un carattere remissivo. Dapprima se la prende con il barista, che lo rassicura: è soltanto uno scherzo, l’oro gli verrà restituito di lì a breve. Ovviamente, però, Stewart non è convinto, così si rivolge al vice sceriffo. Anche questi è pronto a rassicurarlo: compirà delle indagini, ritroverà il suo oro. In realtà, però, anche il vice sceriffo è sul libro paga di Soapy Smith e non muove un dito.
Frustrato e indignato, il cercatore derubato scende in strada, urlando ai quattro venti quello che gli è successo nel saloon di Soapy Smith. Gli uomini del Comitato dei 101 sono pronti ad ascoltarlo: la rapina di Stewart è il pretesto che occorreva loro per incastrare il magnate del crimine cittadino. Chiedono a Soapy di restituire l’oro, ma Soapy rifiuta recisamente: Stewart ha perso i suoi soldi perché ha avuto sfortuna in un regolare gioco di carte, adesso non può averli indietro.
Mandano a chiamare un giudice da Dyea, una città vicina. Il magistrato accorre. Non è sul libro paga di Smith, e così, una volta accertati i fatti, intima a Smith di restituire l’oro entro le quattro di pomeriggio.
Soapy Smith si presenta all’appuntamento, ma senza portare l’oro con sé. Ha già in corpo diversi whisky e brandisce il suo Winchester come se fosse lo scettro di un monarca offeso. Si racconta che un reporter abbia detto a Smith che, se non avesse restituito l’oro, sarebbero stati guai, ottenendo per tutta risposta una dichiarazione spavalda: “Per Dio, sto proprio cercando guai!”.
Il Comitato degli onesti cittadini è interdetto per questo nuovo gesto di sfida: si danno appuntamento sul molo per quella sera, per decidere il da farsi. Nel frattempo, Soapy Smith riceve un biglietto da uno dei suoi uomini, a capo del giornale locale: “La gente è arrabbiata. Se vuoi fare qualcosa, fallo in fretta…”.
E Soapy Smith, furibondo, agisce: dimenticando prudenza e astuzia, si precipita sul molo, scortato dai suoi uomini, deciso a farla finita con quei dannati vigilantes che gli ostacolano gli affari.


Un altro ritratto di Soapy Smith

Siamo tornati al punto da cui siamo partiti: la leggendaria sparatoria del molo Juneau. L’uomo con il fucile è Soapy Smith, l’uomo con la pistola si chiama Frank Reid. In gioventù, ha militato come volontario nell’esercito dell’Oregon con il grado di tenente, poi ha studiato ingegneria e fatto il maestro di scuola. A Skagway ha lavorato in un saloon di Soapy, prima di unirsi al gruppo dei 101 vigilantes. Lui e altri tre uomini presidiano il molo, per impedire a Soapy Smith e ai suoi uomini di disturbare la riunione.
In effetti, i suoi uomini vengono fermati dai vigilantes e costretti a lasciare il molo, ma Soapy non si lascia convincere: punta dritto verso Reid, imbracciando il fucile. Frank Reid lo attende, fermo sui piedi e con la pistola spianata. Gli intima di fermarsi.
“Quando un uomo con il fucile incontra un uomo con la pistola, quello con la pistola è un uomo morto” recita il vangelo secondo Sergio Leone. Se questo fosse uno dei suoi film, i duellanti rimarrebbero lontani, studiandosi con intensi primi piani e accarezzando i cinturoni prima di estrarre le pistole ed esplodere i colpi fatali, in un crescendo di musica di trombe.
Ma questo non è un film e la realtà è meno poetica e più brutale. Difficile ricostruire con esattezza quello che successe, perché le versioni raccolte si accavallano e contraddicono, ma alcuni punti sono assodati: i due uomini si spararono a bruciapelo, quasi contemporaneamente. Forse Reid riuscì a impugnare la canna del fucile di Smith, deviando la traiettoria dei suoi colpi. Forse una delle cartucce della sua pistola era difettosa, e non esplose, dando modo a Soapy Smith di sparagli a sua volta.


La morte di Soapy Smith

I duellanti si sparano diversi colpi, almeno cinque in totale, che li raggiungono alle gambe e al basso ventre. Soapy Smith muore sul colpo: si dice che le sue ultime parole siano state «Mio Dio, non sparare!». Frank Reid, vincitore di questo brutale duello, non avrà tempo di godersi la gloria: morirà dodici giorni dopo, per le ferite riportate.
Crolla così l’impero di Soapy Smith: nei giorni successivi, i suoi uomini vengono cacciati e, dopo qualche tumulto, nelle strade di Skagway tornano la quiete e l’ordine. Con Soapy Smith finisce un’epoca: il truce truffatore con la faccia patibolare cede il passo ai tempi nuovi, in cui i poveri diavoli si faranno truffare da uomini più rispettabili, con abiti eleganti e sorrisi rassicuranti.

A proposito di Soapy Smith… qualche riferimento bibliografico:

  1. Keith Wheeler, The Alaskans, The Old West, Time-Life Books, 1977
  2. Robert Wallace, The Miners, The Old West, Time-Life Books, 1976
  3. Gianluigi Bonelli – Guglielmo Letteri, Tex n. 340 – 341, Senza via di scampo, Terra Violenta, 1989
  4. Jeff Smith, Alias Soapy Smith: The Life and Death of a Scoundrel