Pierre-Jean De Smet, vita di un gesuita amico dei nativi

A cura di Angelo D’Ambra

Pierre-Jean De Smet con gli indiani
La frontiera conobbe pure il coraggio di uomini come Pierre-Jean De Smet che credevano sinceramente nella possibilità di convivenza e integrazione coi nativi. Il missionario De Smet divenne il bianco più stimato tra le varie tribù delle Montagne Rocciose grazie al suo impegno ed alle sue qualità umane. La sua ascendente fu anche decisiva in numerosi negoziati e nella preparazione di una serie di trattati, come quello di Fort Laramie.
De Smet era nato a Dendermonde, in Belgio, il 30 gennaio 1801, e nel 1821, lasciato Mechelen, dove aveva frequentato il seminario cattolico, era emigrato negli Stati Uniti, a Baltimora.
Qui aveva iniziato il suo noviziato nella Compagnia di Gesù. Fu ordinato sacerdote nel 1827, dopo aver studiato al St. Francis Regis, una scuola di Osage vicino a Florissant, in Missouri, a circa 16 miglia da Saint Louis. Due anni dopo, al St. Louis College fu nominato decano, tesoriere e professore di inglese. Il 23 settembre 1833 De Smet divenne cittadino americano. Si spostò in Europa, tornando nel Nuovo Mondo nel 1837 con un obbiettivo chiaro: impegnare tutto sé stesso per convertire i nativi americani al cristianesimo romano.
Pierre-Jean De Smet
La Compagnia accolse questo suo desiderio e nel 1838 lo inviò tra i potawatomi della Missione di San Giuseppe in Iowa. Qui De Smet ebbe non pochi problemi perché, oltre a insegnare il cristianesimo ad una popolazione indifferente, dovette soprattutto scontrarsi con cattive abitudini e dipendenze. Divenne un infaticabile nemico del whisky che accusava d’esser ragione di omicidi, furti e diffusione di comportamenti immorali tra i nativi. Si fece molti nemici tra i commercianti d’alcol e non ebbe molto successo nel convincere i potawatomi a convertirsi al cattolicesimo. Pensando di offrire loro egualmente la salvezza, battezzò segretamente molti dei loro bambini, ma tanto zelo non portò a nulla. A questo periodo risale anche il suo primo incontro coi sioux per concertare la pace con i potawatomi.
La grande storia missionaria di De Smet, però, prese il via due anni dopo e nacque su richiesta dei salish, una tribù di teste piatte che aveva appreso del cattolicesimo e dei gesuiti dagli irochesi. I salish, assieme ai vicini nasi forati inviarono ben quattro delegazioni a St. Louis per chiedere un gesuita, un “Toga Nero”, tra loro nel Montana, per poter conoscere il cristianesimo. E fu così che De Smet iniziò la sua opera missionaria. Lo fece con un entusiasmo ed una dedizione che in pochi anni lo portò a percorrere oltre 180.000 miglia tra monti e praterie.
Il suo compito, basato sulla richiesta della delegazione indiana di un sacerdote, era di determinare se fosse possibile o meno istituire missioni permanenti nelle aree remote dell’ovest americano. De Smet fu preceduto da padre Peter Gaucher che raggiunse l’accampamento sull’Eight Mile Creek nella Bitterroot Valley annunciando ai nativi che finalmente avrebbero avuto la loro “toga nera”.
Accompagnato dai nativi
Intanto De Smet partiva da Saint Louis con la guida Ignace la Mousse, figlio di un irochese cattolico, ed alcuni uomini dell’American Fur Company diretti al Green River Rendezvous. Sfortunatamente, De Smet fu colpito dalla malaria e soffrì per tutta la prima parte del viaggio, poi le cose sembrarono più facili. Al Green River Rendezvous, De Smet trovò la delegazione di indiani che avevano richiesto la presenza di un missionario. Fu accolto festosamente e condotto nel loro accampamento. Il 5 luglio 1840, dopo aver riposato per quattro giorni, tenne la prima messa cattolica presso i salish nell’area che ora è il Wyoming.
Capo Tjolzhitsay lo accolse con un caloroso benvenuto. Un mese dopo l’indiano sarebbe stato battezzato assieme a capo Walking Bear dei Pend Oreilles e altri 350 nativi.
Trascorse diverse settimane con i salish, nelle Montagne Rocciose, diffondendo il catechismo ed i precetti di vita cristiana, poi, con la sua scorta, si spostò a nord e a ovest, dirigendosi lungo il fiume Green, probabilmente attraversando la catena del Gros Ventre Range fino al fiume Snake. Il 12 luglio raggiunse Pierre’s Hole, ora Teton Basin, una valle di 25 miglia alla base occidentale del Tetons, appena oltre l’attuale confine tra Wyoming e Idaho, e là lo attendeva un campo di circa 1.600 indiani teste piatte, nasi forati e pend oreille. Si fece apprezzare come uomo di grande gentilezza e affabilità, in ogni circostanza calmo, pacato e sicuro. Complessivamente restò con gli indiani per due mesi, poi si diresse verso Fort Union a Yellowstone, e, nel dicembre del 1840, tornò a Saint Louis per ottenere l’assistenza necessaria a stabilire una missione permanente.
La delusione fu tanta quando apprese che mancavano i fondi per una nuova spedizione e l’istituzione di una missione. Non restò con le mani in mano. Imperterrito, intraprese una vasta campagna di raccolta fondi che lo portò a Philadelphia e New Orleans ottenendo tutto il necessario. Il 24 aprile del 1841, con altri due gesuiti e tre laici, salì a bordo di un battello e raggiunse Westport. Qui reclutò cinque mountain man, Tom Fitzpatrick, Jim Baker, John Gray, George Simpson e William Mast, con l’intento di viaggiare sino in Oregon. Nel maggio il gruppo era a Sapling Grove e si unì alla carovana guidata da John Bidwell, con quattro carri trainati da coppie di muli. Seguirono il Sante Fe Trail per due giorni prima di spostarsi su un sentiero percorso dai commercianti di pellicce diretti a Fort Laramie. Era la prima carovana in assoluto che portava persone dal Missouri alla California.


De Smet interviene tra gli indiani per salvare un soldato

Quattro giorni dopo De Smet scrisse nel suo diario: “Spero che il viaggio finisca bene; è iniziato male. Uno dei nostri carri è stato bruciato sul battello a vapore; un cavallo è scappato e non è mai stato trovato; un secondo si è ammalato, al che sono stato costretto a prenderne un altro… Alcuni dei muli si sono spaventati e sono scappati, lasciando i loro carri; altri, con i carri, sono rimasti bloccati nel fango. Abbiamo affrontato situazioni pericolose attraversando ripidi declivi, profondi burroni, paludi e fiumi”. Il viaggio invece divenne ancora più difficile. Attraversato il Kansas River, il terreno si fece impervio e malagevole così le famiglie dovettero rinunciare ai mobili, restarono pure terrorizzate da serpenti e indiani. Il 4 giugno, uno del gruppo, Nicholas Dawson, fu catturato dai cheyenne che lo denudarono e gli tolsero mulo, fucile e pistola, ridandogli tutto solo dopo un complesso negoziato portato avanti da Fitzpatrick. Nove giorni dopo la carovana conobbe il primo morto, un giovane di nome Shotwell che si sparò da solo per errore.


Padre De Smet tra i Sioux

Il 22 giugno i viaggiatori raggiunsero Fort Laramie nel Wyoming. Due giorni dopo si erano rimessi in marcia percorrendo la sponda meridionale del fiume North Platte fino all’incrocio di North Fork, troppo profondo da guadare. Ci provarono lo stesso, si organizzarono con zattere e con grande cautela raggiunsero la sponda opposta perdendo solo un mulo.
A luglio iniziarono a patire la fame. Non c’era più bufali da uccidere. Il terreno era faticoso, gli animali da traino stanchi ed il ritmo di marcia era divenuto estremamente lento. Da Fort Laramie a Soda Springs, in Idaho, impiegarono ben quarantotto giorni, percorrendo 560 miglia ad una media di dodici miglia al giorno. Si dettero una breve pausa di ristoro poi si separarono. L’11 agosto De Smet e Fitzpatrick si diressero a nord, verso Fort Hall, mentre un più piccolo gruppo guidato da John Bidwell proseguì sulla rotta per la California.
Finalmente il gruppo entrò nella valle scelta dai Salish come loro dimora permanente. Il posto prese il nome di St. Mary’s Valley (oggi Bitterroot Valley, nel Montana). De Smet la descrisse come “larga da quattro a sette miglia e lunga circa duecento. Ha solo una gola, che funge da ingresso e uscita dalla valle. Le montagne che la racchiudono su entrambi i lati sembrano inaccessibili”. Qui sorse la St. Mary’s Mission, la prima missione gesuita per gli indiani in quell’area.


Sempre in viaggio!

L’anno successivo visitò Fort Vancouver poi tornò a Saint Louis. Visitò l’Europa, raccolse finanziamenti e portò con sé sei suore di Notre-Dame de Namur per tornare, doppiando Capo Horn, ed inaugurare un convento e una scuola nella Willamette Valley in Oregon e, più tardi, la Missione di Sant’Ignazio tra i pend oreille. In tutta la sua vita avrebbe compiuto ben diciannove traversate atlantiche.
La notorietà di De Smet era cresciuta enormemente, tutti lo conoscevano come un uomo molto vicino agli indiani, un missionario che godeva di grande fiducia da parte dei nativi, un viaggiatore esperto pure di quei posti ad a ovest e sud del fiume Missouri. Così il governo lo scelse per trattare con gli indiani al Consiglio di Fort Laramie nel settembre 1851 al fine di convincere i rappresentanti tribali a firmare il Trattato di Fort Laramie, che prometteva un risarcimento alle tribù in cambio del libero passaggio dei coloni che viaggiavano nelle loro terre.
Questo viaggio – di circa 800 miglia – divenne una saga. Partì a bordo del battello a vapore St. Ange da St. Louis a Fort Union dove radunò un gruppo di circa 35 uomini tra scout, conducenti di carri e indiani assiniboin, minnetaree, arikara, mandan e crow. Il gruppo si perse e dovette tornare sui propri passi diverse volte prima di entrare in quella che ora è la contea di Sheridan, nel Wyoming settentrionale, vicino alla base delle montagne Bighorn. Superato il lago sei miglia a nord dell’attuale Buffalo, che oggi porta il suo nome, De Smet giunse a Red Buttes vicino all’attuale Casper, 160 miglia a nord e ad ovest di Fort Laramie. L’8 settembre poteva riunirsi il consiglio.
A causa del suo rapporto con i nativi e della fiducia che riponevano in lui, fu chiamato più volte ad assistere il Bureau of Indian Affairs e l’esercito americano nei loro negoziati di pace con gli indiani. Si dedicò pure a dirimere questioni tra le varie tribù così, per esempio, affrontò pure quella che era una minaccia costante per le tribù pacifiche, i riottosi piedi neri.


Una missione in mezzo agli indiani

Chiese un incontro con loro nel 1846 e li riuscì a placare. Raggiunse con loro Fort Lewis e qui li indusse a concludere la pace con gli altri indiani a cui erano ostili. Arrivò anche a fondare una missione in questa tribù.
Ha poi attraversato le Montagne Rocciose canadesi prima di viaggiare lungo il fiume Saskatchewan prima di svernare in una stazione di commercio di pellicce in Canada. Nel 1858 accompagnò pure il generale Harney come cappellano nella sua spedizione contro i mormoni dello Utah, al termine della quale il governo gli chiese di accompagnare lo stesso ufficiale nei territori dell’Oregon e di Washington, dove, si temeva, una rivolta degli indiani. Anche qui la sua presenza ebbe l’effetto desiderato, perché gli indiani lo amavano e si fidavano implicitamente di lui. Ormai s’era conquistato la fama di “vero amico degli indiani”. Visse con loro, imparò le loro usanze, le loro abitudini, stabilì missioni, combatté il traffico di liquori e promosse sempre la pace.
Probabilmente gli anni più difficili per lui furono quelli che seguirono alla Guerra Civile, quando i coloni bianchi si riversarono a ovest e il governo tentò in tutti i modi di spingere gli indiani nelle riserve. Tribù come sioux e cheyenne si rifiutarono di rinunciare alle loro vite ed alle loro terre e così De Smet fu chiamato a impedire il prolungarsi di ostilità, massacri e rappresaglie.
De Smet fu contattato da William Sherman e dai Commissari per la pace dell’amministrazione Grant per portare avanti i negoziati con i sioux. Il risultato fu una serie di riunioni della Indian Peace Commission, un’agenzia incaricata di negoziare la pace con gli indiani delle pianure. Il ruolo di De Smet era quello di viaggiare, a volte per lunghe distanze, e incontrare i leader tribali parlando loro dell’importanza di negoziare accordi di pace con il governo federale.


Padre De Smet entra nel campo indiano di Toro Seduto

A malincuore De Smet dovette convincerli ad accettare pacificamente di trasferirsi nelle riserve o di andare incontro al triste destino di uno sterminio. All’età di 67 anni viaggiò per diversi giorni per raggiungere Powder River, nel Montana, e qui incontrò Toro Seduto. Era il giugno 1868 e riuscì a stabilire un ottimo rapporto con lui. Un ufficiale dell’esercito, James Burns, affermò che “nessun uomo bianco si è mai avvicinato a eguagliare il suo fascino universale per l’indiano”. Arrivò al campo il 19 giugno 1868 e trovò 4000 guerrieri riuniti. Scrisse nel suo diario: “Ho parlato loro dei danni cui andavano in contro e della loro debolezza rispetto alla grande forza dei bianchi, se il Grande Padre fosse stato costretto a usarla contro di loro… Oggi la mano di Dio era pronta ad aiutarli, a dare loro attrezzi agricoli, animali domestici, uomini per insegnare loro il lavoro nei campi e insegnanti di entrambi i sessi per istruire i loro figli…”. Toro Seduto ovviamente citò le ingiustizie subite dai nativi, poi convinto, acconsentì all’accordo. “Alcuni del mio popolo torneranno con te per incontrare i capi del nostro Grande Padre che sono stati inviati a fare la pace”, disse il capo sioux. “Spero che la pace sarà fatta, e qualunque cosa accada, accetterò e rimarrò sempre un amico dei bianchi”. I colloqui quindi ebbero successo e i rappresentanti dei sioux accettarono di firmare un trattato di pace a Fort Laramie.


Ancora un bel ritratto di Padre De Smett

De Smet fu a tutti gli effetti un seminatore di pace. Si mosse da tribù a tribù, predicando e raccomandando la serena convivenza tra indiani e tra indiani e bianchi. Attraversò in lungo e in largo le Montagne Rocciose da Nord a Sud, provò a frenare la diffusione dell’alcool e per ben due volte incontrò il presidente Abramo Lincoln per negoziare e arginare l’espropriazione delle terre dei nativi. Nel 1870 tornò ai Sioux per stabilire una missione. Tre anni dopo morì e fu sepolto a Florissant, nel Missouri, dove 50 anni prima aveva completato il suo noviziato.

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