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L’altra metà della paura: fantasmi, demoni e presenze al femminile nel folklore americano.

A cura di Gian Mario Mollar

La donna cervo
È risaputo che il folklore americano è popolato da numerosi fantasmi, da storie oscure che infestavano l’inconscio collettivo tanto dei nativi quanto dei coloni europei sopraggiunti in seguito. In molti casi, come vedremo, le leggende del vecchio continente si intersecavano con quelle preesistenti sul territorio, dando vita a oggetti folklorici estremamente interessanti da studiare e approfondire.
L’articolo che state per leggere esplora questo territorio, una “zona d’ombra” che sta al crocevia tra storia, antropologia e folklore, concentrandosi su un aspetto ancora più insolito di questo tema già di per sé piuttosto lontano dall’ordinario: i suoi protagonisti, o meglio, le sue protagoniste, sono spettri e manifestazioni inquietanti al femminile.
Nel mondo del West, dominato da archetipi maschili (cowboy, guerrieri, soldati…) intraprenderemo una lunga – ma, speriamo non noiosa – cavalcata alla ricerca della metà lunare, il lato oscuro della femminilità.

L’oscuro fascino della Donna Cervo

Quella della Donna Cervo (Deer Woman) è una leggenda comune a diverse tribù native, dalle Grandi Pianure (Lakota-Sioux), fino alle foreste del sud est (Cherokee, Choctaw Muskogee), ma anche nella parte nord del continente, tra gli Irochesi e gli Ojibwai.
In questi contesti si narrava la storia di un essere mutaforma, a metà tra donna e cervo, nascosto nel cuore della foresta, oppure ai margini delle danze, là dove il suono del tamburo e il chiarore del fuoco giocano con la notte.
La Donna Cervo (Signora Cervo, Lady Deer, in altre versioni) appare come una donna bellissima, capace di esercitare un fascino irresistibile su chi la vede, soprattutto se è in età pubescente. Per chi se ne innamora e cede al desiderio di unirsi con lei, però, è in agguato un destino decisamente poco felice. Alcune versioni della leggenda raccontano che la donna, trasformatasi all’improvviso in animale, uccida il malcapitato calpestandolo con i suoi zoccoli. In altri casi, si dice che l’essere agisca assorbendo l’energia vitale del suo amante, trasformandolo in un guscio vuoto e inerte, destinato a una vita infelice.
L’unico modo per sventare la minaccia è osservarle i piedi, che non sono piedi umani ma veri e propri zoccoli: smascherata in questo modo, la Donna Cervo fuggirà nel folto del bosco. Gli Ojibwai, poi, raccontano che sia possibile allontanarla con il fumo della pianta sacra del tabacco o intonando particolari canti.


Un’immagine che ritrae la donna cervo

Insomma, si tratta di una figura ambigua, che concilia in sé polarità apparentemente distanti tra loro: da un lato il piacere sessuale, dall’altro la morte o, cosa forse ancora peggiore, un’esistenza diminuita e larvale.
In realtà, c’è un legame oscuro che tiene uniti questi due opposti: come affermava Leopardi, “Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte Ingenerò la sorte”.
L’ambiguità della Deer Woman, ad esempio, è la stessa di molte dee della mitologia greco-romana: si pensi ad Artemide, che trasformò Atteone in cervo e lo fece sbranare dai suoi cani dopo che questi la vide nuda, o ad Atena, che accecò Tiresia per ragioni simili, oppure ancora al culto di Cerere, dea delle messi e della fertilità, ma al contempo dea infera e ctonia ammantata di mistero (nel vero senso del termine, visto che a lei e a sua figlia Proserpina erano dedicate le cerimonie dei misteri eleusini).
Rimanendo in ambito classico, la carica erotico-letale della Donna Cervo ricorda da vicino quella delle sirene, sia per ragioni morfologiche, in quanto anch’esse erano per metà donne e per metà animale, nella fattispecie uccelli, che per affinità nell’azione: le sirene hanno una voce ammaliante, ma coloro che si lasciano sedurre dal loro fascino non hanno scampo.
Nel nostro immaginario collettivo, quando si parla di sirene viene in mente non tanto la donna uccello della mitologia greca, quanto, piuttosto, la melusina, la donna che dalla vita in giù ha il corpo di pesce. Questa figura mitologica ha un’origine completamente diversa, arriva dal nord, probabilmente dalla cultura celtica, ma è seducente e letale tanto quanto le sue colleghe “mediterranee”. Anche in questo caso, infatti, un pericolo mortale è associato a una forte carica erotico-riproduttiva, pensiamo alle rappresentazioni delle sirene bicaudate nelle cattedrali medievali, che alludono, probabilmente, all’antica venerazione della Dea Madre.
Se ci spostiamo verso Oriente, troviamo spiriti femminili maliardi e pericolosi: si pensi, ad esempio, alle “volpi” che popolano le fiabe cinesi, oppure alle molte figure femminili che affollano il pantheon scintoista in Giappone. Anche in mondi così distanti, curiosamente, il vedere i piedi del demone comporta lo smascherarne la natura e il salvarsi da un triste destino.
Abbandoniamo per ora questo complesso labirinto di rimandi simbolici, che sembra ripetere con infinite variazioni e sfumature il medesimo tema attraverso lo spazio e il tempo, e soffermiamoci ancora sul mito della Deer Woman dei nativi americani.
Sulle sue origini vengono riportate leggende discordanti. In alcune tradizioni si dice che la Donna Cervo fosse in origine una donna umana, inseguita e stuprata da un gruppo di giovani uomini. In alcune versioni, la ragazza riesce ad evitare il suo triste destino grazie a un branco di cervi, che la salva dai suoi molestatori, in altre l’intervento dei cervi avviene soltanto dopo che la donna è stata violata uccisa. Da quel momento in poi, lo spirito della donna cerca vendetta sui giovani adolescenti.
In questo senso, il racconto della Deer Woman è un racconto morale, un boogeyman volto a frenare le pulsioni dei focosi adolescenti e un monito a controllare la libido, per dirla in termini freudiani. A differenza che nella cultura Occidentale, rigidamente ingabbiata nella distinzione cristiana di bene e male, nel mondo dei nativi americani le categorie sono più fluide: anche esseri apparentemente “diabolici” come, appunto, la Donna Cervo o il trickster Coyote, possono avere dei risvolti positivi. In questo senso, la Donna Cervo rappresenta un promemoria sulla necessità di tenere a bada i propri istinti.
Alcune delle caratteristiche della Deer Woman, in particolare la sua capacità di “rubare l’anima” e la sua irrisolvibile ambiguità, permettono di tracciare un parallelo con altri esseri praticamente onnipresenti nelle culture native del Nord America: il cosiddetto “Piccolo Popolo”, che, con nomi differenti, è presente in molte tribù native. I Cherokee li chiamano Yunvì Djunstì, “i piccoli invisibili esseri umani”, sono djonhgeh-onh tra i Seneca, memegwesiwak per gli Ojibwai e i Cree, fsti lvpucki per i Seminole e così via, si possono trovare referenze a questo popolo fatato anche tra gli algonchini e tra le tribù delle Grandi Pianure.
Le descrizioni native del Little People sono straordinariamente assonanti con il folklore europeo relativo ai fairies, un termine che racchiude una vasta varietà di manifestazioni: folletti, gnomi, fate, leprecauni…
Oggi fate e gnomi ci rimandano istintivamente alle fiabe e alla letteratura dell’infanzia, ma questa non è che l’ultima manifestazione di un mito che ha radici ben più profonde. La riduzione a intrattenimento per l’infanzia, infatti, risale all’interpretazione shakespeariana del Sogno di una notte di mezza estate, e successivamente alle balie del Settecento, che intrattenevano i rampolli della borghesia inglese raccontando loro storie prese dall’ambito pagano in cui erano cresciute.
In origine, i fairies non erano “cose da bambini”, ma piuttosto un mito non privo di lati oscuri, che raccontava di una razza antica che abitava nei boschi e si manifestava soprattutto di notte, intessendo relazioni ambigue e non sempre amichevoli con gli esseri umani. Gli irlandesi li chiamavano “Buon popolo” (Sluaghmaith) proprio con finalità apotropaiche, con l’intento di rabbonirli e di non inimicarseli. Si tratta in genere di esseri di dimensioni ridotte, come i folletti, ma anche apparizioni muliebri come le fate.
Tanto il piccolo popolo europeo che quello dei nativi americani hanno in comune alcune caratteristiche:

  1. Hanno dimensioni ridotte e sono di natura “sottile”, ovvero possono scomparire con facilità
  2. Hanno una natura ambigua: possono aiutare gli uomini nella caccia o indicare loro tesori, ma possono offendersi con altrettanta facilità, dando inaspettatamente luogo ad azioni violente e letali
  3. Intessono con gli umani relazioni afferenti all’ambito della sessualità e della riproduzione: talvolta rubano i bambini dalle culle e li sostituiscono con simulacri (il cosiddetto changeling), talaltra rapiscono madri umane e le portano nel loro regno ipogeo per allattare i loro bambini.
  4. Possono “rubare l’anima” agli umani e trasformarli in gusci vuoti. A questo proposito, è interessante ricordare che “infarto” in inglese si dice fairy stroke (colpo di fata), perché anticamente la deficienza cardiaca veniva attribuita all’intervento di questi esseri fatati
  5. Possono allearsi con stregoni/sciamani e diventarne famigli, aiutanti magici.
  6. Sono in genere associati alle aree boschive o a montagne, rocce e colline.

Questa ricapitolazione è sicuramente sommaria, ma al contempo racchiude in nuce le caratteristiche tanto del Piccolo Popolo europeo che di quello dei Nativi. Il fatto che archetipi così simili affiorino in culture estremamente lontane e diverse fa sicuramente riflettere. La spiegazione più semplice è che gli Europei abbiamo portato in America la credenza nel Piccolo Popolo trasmettendola ai Nativi, ma gli antropologi sono piuttosto unanimi nello scartarla, perché è diffusa in modo capillare anche in contesti nei quali sarebbe difficile ipotizzare una trasmissione culturale diretta.
Rimane quindi intatto il mistero che circonda questi esseri incantati che, tra l’altro, per molti versi, ricordano da vicino anche il fenomeno UFO e rapimenti alieni, come fa notare Jacques Vallée nel suo capolavoro Passport to Magonia.
Come abbiamo potuto constatare, quello della Deer Woman è un mito fertile di suggestioni, seguendole si può arrivare lontano e scoprire radici oscure e poco note del folklore nativo americano.

Il pianto della Llorona

Il Sud Ovest degli Stati Uniti, al confine con il Messico, è una terra di mistero e leggende. I suoi paesaggi di polvere e rocce sono stati lo scenario dell’incontro – e dello scontro – di diverse culture e hanno dato vita a un folklore ricco di figure vivide e tenebrose.
In principio c’erano gli Aztechi, che adoravano con sacrifici umani il terribile Tezcalipoca, dio della notte e patrono degli stregoni. A partire dal XVI secolo, i nativi furono sterminati e soppiantati dagli Spagnoli, che importarono dal Vecchio Continente, insieme al cristianesimo, anche la paura delle streghe e la violenza della Santa Inquisizione: alla stregoneria indiana, così, si sovrappose la superstizione europea.
Nel 1848, dopo la Guerra Messicana, il territorio divenne americano: anche i coloni anglosassoni portarono con sé il loro oscuro patrimonio di timori e superstizioni, ricco anch’esso di streghe e diavoli, ma soprattutto di un male metafisico e opprimente che era estraneo alle altre culture.
È così che, quando il sole scende all’orizzonte e il vento sibila tra i cespugli di mesquite, le terre bagnate dal Rio Grande si popolano di creature misteriose e inquietanti: gli ululati dei coyote fanno pensare agli Skinwalker, i malvagi mutaforma del folklore navajo, o all’agghiacciante richiamo del chupacabra, animale misterioso che ancora oggi viene avvistato in quell’area.
Talvolta, lungo le sponde di quel fiume si sente il lamento straziante di una donna. Chi l’ha vista dice che è magra, con le vesti intrise d’acqua. I capelli neri le scendono come serpenti sul viso pallido e sulle spalle scheletriche. I suoi occhi sono dei buchi neri, che brillano di una luce sinistra. “Dove sono i miei figli? Avete visto i miei figli?” chiede incessantemente a chi ha la sfortuna di incontrarla. Risponderle o avvicinarsi, però, è un errore che può essere fatale: chi l’ha fatto ha perso la ragione per sempre, oppure è morto nel fiume, perché la donna lo ha affogato nel nero gorgo.
Il fantasma del fiume viene chiamato “Llorona”, la donna che piange. Alcuni pensano che si tratti di una vecchia strega, altri che sia un’anima del purgatorio che vaga senza riuscire a trovare pace.
Esistono varie versioni di questa leggenda, diffusa in tutto il Sudamerica con nomi e varianti differenti: la più celebre parla di una donna che, troppo presa dalla vanità e dai numerosi amanti, abbandona i suoi due figli a casa per andare a ballare al villaggio, dove trascorre una notte di ebbrezza e follia. Al suo ritorno a casa, scopre che i due figli sono affogati nel fiume nel tentativo di guadarlo per venirla a cercare. Il rimorso per l’accaduto le ottenebra la ragione. La donna smette di nutrirsi e si aggira senza sosta lungo la riva del fiume, invocando i nomi dei figli che non le risponderanno più. Dopo la morte, si trasforma in un fantasma che infesta la riva del fiume e appare nelle spettrali notti rischiarate dalla luna. I genitori di Las Vegas insegnano ai loro bambini a fuggire, perché la Llorona potrebbe volerli prendere con sé per sostituire i suoi figli morti.


Il pianto della Llorona

Altri racconti, invece, parlano di una donna messicana di origini native, sedotta e abbandonata da un militare spagnolo, che gli ha dato due figli. Quando scopre che il suo amore l’ha lasciata per sposarsi con una nobildonna ispanica, si reca al fiume e, con un atto crudele e disperato, annega i figli innocenti tra i flutti, per vendicarsi del loro padre, che l’ha abbandonata. Per certi versi, questa seconda versione sembra quasi una sorta di rivisitazione folklorica della tragedia di Medea, narrata dal greco Euripide nel IV secolo a.C.
Ad Albuquerque, invece, si racconta che la terribile megera fosse un tempo una ragazza innamorata, che si tuffò nel fiume per un amore infelice.
La vicenda si riflette e si deforma in mille riflessi – gli antropologi hanno contato più di quaranta interpretazioni di questa leggenda – ma la costante è quella di una donna che piange sulla riva del fiume: un lugubre fantasma che spaventa fino al punto di uccidere.
Il lamento della Llorona, che in spagnolo significa “la piagnona”, ha radici profonde, che ci trasportano lontano nello spazio e nel tempo. Pare infatti che il racconto ispanico derivi da un mito azteco molto più antico, con una struttura del tutto simile. Tonantzin era una dea azteca, che si confondeva tra le donne per rapire i loro figli dalle culle, lasciando al loro posto una punta di freccia. Di notte, si aggirava per le strade delle città, lamentandosi in modo straziante, ma all’alba scompariva tra i flutti del fiume.
Gli echi di questo mito si diffondono ben oltre le terre di Frontiera. Anche nella verde Irlanda e in Scozia, infatti, troveremo un’altra figura che ha caratteristiche sorprendentemente simili: si tratta della Caoineag, uno spirito femminile il cui nome gaelico significa “colei che piange”, che è solita manifestarsi in prossimità di cascate, laghi e fiumi. Si tratta di una banshee, uno degli esseri fatati che popolano il folklore celtico. Il suo lugubre lamento fa rabbrividire chi lo ode, perché è un triste presagio di morte per chi lo ascolta o per qualcuno dei suoi cari. La fata ha gli occhi pieni di lacrime perché prevede il triste epilogo delle vite umane.
Ancora una volta, come nel caso della Deer Woman analizzato in precedenza, la leggenda della Llorona ci rimanda ai misteriosi esseri femminili del Piccolo Popolo.
Esseri incantati di questo tipo sono diffusi anche in Italia: basti pensare alle Janare, streghe del folklore campano che erano solite riunirsi intorno a un grande noce lungo le rive del fiume Sabato, nei pressi di Benevento, per danzare nei sabba in compagnia di demoni e caproni. Le janare si aggiravano nella notte saltando sul petto dei dormienti, causando così il fenomeno noto come paralisi notturna, oppure rubavano le giumente dalle stalle.
Anche in questo caso, l’associazione all’elemento acquatico è di fondamentale importanza: la presenza di un corso d’acqua ci rimanda a tradizioni ancora più antiche, e a figure come quelle delle ninfe dei boschi della tradizione classica, dee greche e romane che proteggevano fiumi e sorgenti, accompagnandosi alla dea Artemide e danzando al suono del flauto del dio Pan, che il cristianesimo demonizzerà trasformandolo nel tanto temuto Diavolo.
Proprio come le sirene, la Llorona si esprime attraverso un lamento, indissolubilmente connesso con la morte e la paura.
Spostandoci agli antipodi del mondo, anche il folklore giapponese è riccamente popolato di spiriti e fantasmi, gli yokai e gli yurei, alcuni dei quali legati al mondo acquatico. Tra le mille creature dell’universo scintoista, quella che ricorda più da vicino la Llorona è forse Okiku, il fantasma di una donna gettata nel pozzo, che, tra l’altro, ha ispirato l’agghiacciante film horror The Ring. Una figura altrettanto inquietante è poi quella della Yuki Onna, la donna delle nevi, che appare nelle tormente di neve. Essa si manifesta come una donna pallida e bellissima con lunghi capelli, ma i suoi piedi non lasciano tracce nella neve: incontrarla nel corso di una bufera significa morire.
Insomma, la Llorona, che ad una prima considerazione sembrava soltanto una vecchia superstizione, dettata dall’ignoranza e dall’isolamento, è in realtà un mito davvero ricco e ramificato, che trova echi e assonanze in ogni parte del mondo. Le inquietanti figure femminili che abbiamo elencato, in fondo, non sono altro che le molteplici sfaccettature di un unico archetipo, ancora più profondo e stratificato. Parliamo della Grande Madre, divinità femminile ancestrale che accompagna l’uomo sin dalla notte dei tempi. La troviamo graffiata sulle pareti delle caverne che ospitavano i nostri primi antenati, oppure plasmata in rozze e opulente statuette paleolitiche: con l’evolversi del tempo, prenderà nomi e forme differenti e verrà declinata in diversi sistemi religiosi, ma il suo fascino, seducente e terribile al tempo stesso, rimane invariato attraverso i millenni. Nella Grande Madre, infatti, gli opposti – apparentemente inconciliabili – della morte e della rinascita si conciliano, proprio come accade nel ciclo delle stagioni, ed in essa alberga l’insolubile mistero della coincidenza di fine e inizio, della vita e della morte.
Anche il ricorrere dell’elemento acqueo assume senso se considerato in questa prospettiva: l’acqua, infatti, è da sempre associata alla Grande Madre per la sua natura ambivalente. Essa è portatrice di fertilità e di vita, ma al contempo può distruggerla con la sua violenza. Il fiume è quindi il luogo più naturale per l’apparizione di un fantasma come quello della Llorona: il suo scorrere, infatti, rappresenta una zona di confine tra il mondo dei vivi e quello dei morti.

Il volo della Lechuza

Il confine tra Stati Uniti e Messico è anche la patria della Lechuza, o Mujer Lechuza, una strega mutaforma del folklore messicano, capace di trasformarsi in un uccello nero di proporzioni gigantesche, in genere un gufo (lechuza, in spagnolo, significa appunto “gufo”), grande abbastanza da afferrare un uomo tra i propri artigli e portarlo via.
La versione più diffusa racconta che la Lechuza sia una bruja, una strega che ha deciso di vendere la propria anima al diavolo in cambio di immensi poteri magici, ma secondo altre leggende era inizialmente una curandera, una guaritrice, ingiustamente accusata di stregoneria e messa a morte. Altri ancora, sostengono che la creatura sia lo spirito inquieto di una donna defunta, tradita dal marito quando era ancora in vita o immediatamente dopo il suo trapasso.
In ogni caso, quando si manifesta – in genere di notte o al crepuscolo – la Lechuza non ha buone intenzioni: volteggia emettendo grida stridule o pianti simili a quelli di un neonato. Se il malcapitato si avventura fuori dal proprio riparo, cercando di localizzare il lamento, rischia di finire nella morsa dei suoi artigli e scomparire per sempre. Le viene attribuito il potere di scatenare le tempeste, ma anche il sentire il suo macabro verso non porta fortuna: in genere, è l’annuncio di morte imminente, proprio come il grido della banshee celtica che abbiamo nominato più sopra.
La leggenda ha origini antiche, risale al tempo dei coloni spagnoli nella regione. È stata trasmessa soprattutto per via orale, ma, curiosamente, è ancora ben viva ai giorni nostri, tanto che, ancora oggi, esistono testimonianze di avvistamenti di questo tipo di creatura. Il più recente avvistamento di una “strega alata (flying witch)” risale al 25 febbraio 2018 presso Turtle Creek, in Wisconsin. La testimone (la cui identità è anonima, ma con origini latinoamericane) ha descritto una inquietante creatura in planata verso la sua vettura, al punto di sfiorarne il cofano. Il corpo di questo essere alato, secondo la testimonianza, era “marroncino”, del colore dei “sacchetti di carta”. Le sue ali, simili a quelle di un pipistrello, superavano la lunghezza dell’automobile, e il corpo era snello e dall’apparenza femminile, a differenza del viso che, invece, sembrava “vuoto”. Dopo la planata, operata senza battere le ali e quasi entrando in collisione con il guardrail, la misteriosa “strega volante” è scomparsa per sempre, ma l’impaurita testimone teme che possa tornare a prenderla.


Lechuza

Avvistamenti del genere riportano alla memoria un’altra creatura del folklore americano contemporaneo: l’Uomo Falena (Mothman). Non entreremo nei dettagli circa questa figura, in primis perché non gli viene attribuita una natura femminile e quindi esula dal leitmotiv di questo articolo, e in secondo luogo perché il suo primo avvistamento risale al 1966, e quindi esula dal nostro periodo di riferimento. Basti sapere, tuttavia, che, proprio come la Lechuza, l’Uomo Falena porta una terribile sfortuna, tant’è vero che le sue apparizioni sono in genere collegate con catastrofi, come quella accaduta il 15 dicembre 1967 con il crollo del Silver Bridge in Ohio, nel quale morirono quasi cinquanta persone. Oltre a ciò, si è cercato di spiegare gli “occhi rossi” che caratterizzano l’uomo falena con un fenomeno di rifrazione della luce dei fari caratteristico degli occhi del gufo… anche questo mostro alato, quindi, non sarebbe altro che un grosso gufo.
Tornando alla bruja alata del folklore di frontiera, se doveste trovarvi protagonisti di questo terrificante incontro avete quattro possibilità. La prima è pregare (non dimentichiamo che il folklore messicano è profondamente imbevuto di cristianesimo), sperando che se ne vada. La seconda protezione è quella di portare in tasca una corda o un fazzoletto annodati sette volte. Se questi rimedi non bastano, i messicani consigliano di rivolgersi a una curandera, una professionista del settore che saprà neutralizzarla con incantesimi ad hoc. Se nessuno dei metodi menzionati dovesse funzionare, invece, non vi resta che ricorrere al metodo prediletto da Tex e dai suoi pards per affrontare il soprannaturale: mettete mano alle sei colpi e innaffiatela di piombo! Meglio ancora se avrete precedentemente inciso una croce sulla punta delle pallottole. Se i colpi saranno andati a segno, il tenebroso volatile si trasformerà nuovamente nei miseri resti di un’anziana signora.

La maledizione della regina irochese

Con la prossima apparizione spettrale abbandoniamo l’affascinante mondo archetipico, denso di rimandi e assonanze tenebrose, per tuffarci nel vortice violento della storia americana.
La leggenda che stiamo per raccontare, infatti, risale ai tempi della Rivoluzione Americana e ha per protagonista un’eminente donna irochese, Esther Montour, meglio nota come Regina Esther, discendente della prestigiosa famiglia matriarcale franco irochese dei Montour.
Nata intorno al 1720, questa donna era la capoclan di una città di nome Seshequin, situata alla confluenza dei fiumi Tioga e Susquehannah, là dove oggi sorge la città di Athens, in Pennsylvania. Il suo era un villaggio composto di 30 lunghe case – le abitazioni tradizionali degli Irochesi – per un totale di circa cinquecento abitanti. Rimasta vedova dopo il matrimonio con un capo tribale Munsee Delaware di nome Eghobund, la Regina Esther era una cristiana di buoni principi, fedele alla corona inglese contro i “ribelli” americani del tempo.
Com’è noto, infatti, sebbene la guerra di indipendenza americana riguardasse in primo luogo gli inglesi, intenzionati a mantenere il controllo sulle tredici colonie americane, e gli americani, decisi invece a cambiare la situazione, entrambi gli schieramenti si avvalevano di alleati nativi sul territorio. Per gli Inglesi, la scelta ricadeva ovviamente sugli Irochesi delle Cinque Nazioni, che già erano stati al loro fianco durante la guerra contro la Francia, a sua volta alleata con gli Algonchini. Gli Oneida, invece, pur essendo anch’essi parte, in origine, della confederazione irochese, combattevano con George Washington e i ribelli.
Esther Montour
Si pensa che a far scattare l’ira omicida di Esther fu la morte del figlio Andrew, rimasto ucciso durante una rissa tra ubriachi. Dopo quel tragico evento, la Regina Esther scelse la vendetta, rivalendosi contro gli Americani, nemici della corona. Il tragico giorno del 3 luglio 1778, una guarnigione composta da circa quattrocento Tories (il nome che veniva dato agli inglesi) e settecento irochesi diede l’assalto a un forte sul fiume Susquehanna, in quello che sarà ricordato come il Massacro della Valle del Wyoming. L’esercito anglo-irochese sbaragliò i nemici americani e si narra che la stessa Regina Esther avesse preso parte alla battaglia, urlando come un’ossessa nel fragore dello scontro.
Al termine della battaglia, Esther fece disporre sedici prigionieri intorno a un grosso masso sulla riva del fiume, che da allora viene chiamato Bloody Rock, la roccia sanguinolenta, e si occupò personalmente della loro esecuzione. Sollevata la mazza di guerra, si mise a danzare tra di loro, fracassando metodicamente il cranio di ciascuno dei malcapitati e prelevandone successivamente lo scalpo. Secondo alcune fonti, la donna, ancora lorda di sangue come un’eroina shakespeariana, avrebbe dichiarato di non stancarsi mai di uccidere i dannati Yankee.
Altre fonti narrano che “fu vista galoppare al contrario su un cavallo razziato, su una sella laterale rubata, con sette cappelli, accatastati uno sull’altro sulla sua testa, con tutti i vestiti che riusciva a indossare, e coperta da una mantella scarlatta, con in mano una sfilza di scalpi degli amici massacrati di coloro che erano testimoni della sua selvaggia brutalità”.
Descrizioni così barocche, e non prive di una certa tragica epicità, sono probabilmente il frutto della propaganda americana, che tendeva a demonizzare la controparte nativa riducendola alla stregua di “selvaggi assetati di sangue”, un espediente che avevano già messo alla prova nel descrivere le gesta del capo irochese Joseph Brant Thayendanegea.
In realtà, è difficile stabilire la realtà storica.
Di sicuro le donne avevano una posizione privilegiata nella società irochese, e la loro presenza in guerra doveva avere un impatto sicuramente dirompente sulla sensibilità europea dell’epoca.
Anche la Battaglia di Wyoming ebbe sicuramente luogo, e il suo bottino furono 227 scalpi americani, retribuiti dagli inglesi con una taglia di 10 dollari a scalpo.
Quello che non è certo, invece, è se la guerriera furente che frantumò i crani a Bloody Rock fu davvero la Regina Esther, perché secondo alcune ricostruzioni non avrebbe potuto fare in tempo a partecipare al massacro della Valle del Wyoming. Solo il giorno prima, infatti, si trovava nel suo villaggio e, per raggiungere il luogo della battaglia sarebbero occorsi almeno tre giorni di cavallo. C’è poi discordanza sul numero delle vittime giustiziate sulla roccia, che variano da sei a sedici, e sullo stesso aspetto della Regina, da alcuni descritta come corpulenta e feroce, da altri come snella e raffinata.
In ogni caso, la vendetta dei “rebels” americani non si fece attendere molto: il 27 settembre 1778, una milizia di duecento uomini, guidati dal Colonnello Thomas Hartley (1748-1800) ingaggiò battaglia contro gli irochesi, e, dopo un combattimento protrattosi per ore, riuscì a piegarne la resistenza. I prigionieri vennero ammassati sulle sponde di uno stagno e giustiziati in massa. I corpi venivano gettati in massa nell’acqua salmastra, per negare loro anche l’estremo conforto di una sepoltura tradizionale. Testimonianze dell’epoca riportano che le urla dei giustiziati si potevano sentire a miglia di distanza.
La Regina Esther, ormai ridotta all’impotenza, venne dapprima costretta ad assistere al massacro del suo popolo, poi impiccata a una quercia. Infine, anche il suo corpo smembrato venne affidato alle acque dello stagno ormai rosse di sangue.


Una targa commemorativa

Da allora, quella terra viene considerata maledetta: si dice che Esther, durante il tremendo linciaggio, proferì una terribile maledizione contro i coloni bianchi che sarebbero venuti in futuro. Fin dal primo Ottocento, chi si trova ad attraversare la foresta sente urla provenire dal fogliame, senza riuscire a identificarne la fonte: si pensa che siano gli spiriti degli irochesi massacrati e gettati nel lago senza sepoltura. Alcuni, poi, raccontarono di aver visto una donna piangere, appesa ai rami di una quercia, ma che, quando si avvicinarono per vedere meglio, la donna era scomparsa senza lasciare alcuna traccia. I cacciatori dicevano che, dopo questi fenomeni, le loro armi smettevano di funzionare e la polvere da sparo non si innescava. Alcuni sostengono che ciò avvenga perché la Regina Esther non vuole che altro sangue bagni la sua terra…

Il fantasma di Greenbrier

Quella che stiamo per raccontare è una storia un po’ diversa dalle precedenti: infatti, non solo è ben documentata dal punto di vista storico ma è anche l’unico caso conosciuto in cui un fantasma giocò un ruolo fondamentale in un processo, aiutando a identificare e arrestare un assassino!
Ma andiamo con ordine: tutto inizia nel mese di ottobre del 1896, nella Contea di Greenbier, in West Virginia. Elva Zona Heaster è una giovane donna di ventitré anni: un dagherrotipo sbiadito di quell’epoca ce la presenta con un’espressione corrucciata sotto una frangia castana. Non sappiamo molto di lei prima di allora, soltanto che ha avuto un figlio al di fuori del matrimonio e questo ha ridotto di molto le sue speranze di trovare un “buon marito”.
Edward Shue è un vagabondo, si sposta di città in città e vive di espedienti. A Greenbrier trova lavoro nella bottega di un maniscalco del posto.
I due si incontrano quasi subito dopo l’arrivo di Shue in città, si innamorano e ben presto convolano a nozze. Non ci è dato sapere cosa provassero l’uno per l’altra né quali fossero i loro discorsi: è però noto che la madre di Elva, Mary Jane Heaster, si oppose fin da subito al matrimonio, perché lo sposo gli suscitava una repulsione istintiva.
Passano i mesi, l’autunno lascia il posto ai rigori dell’inverno e la coppia vive una vita pacifica, senza attirare l’attenzione della comunità.
Il mattino del 23 gennaio 1897, un ragazzo, mandato da Shue a fare commissioni, entra in casa e trova il corpo di Elva Heaster ai piedi delle scale, inerme. Spaventato, il ragazzo corre a chiamare la madre, che a sua volta chiama il medico del paese, il Dottor George Knapp.


Il fantasma di Greenbrier

Prima dell’arrivo del dottore, il marito porta la moglie defunta al piano superiore e la adagia sul letto, dopo averla ricomposta e vestita con un abito dal collo alto e rigido e aver calato un velo nero sul suo volto. Tradizionalmente, la preparazione al funerale è un compito che viene affidato alle donne della comunità, ma quando arriva sul posto il dottore non può che constatare l’accaduto. Shue rimane nella stanza mentre il dottor Knapp ispeziona il cadavere, singhiozzando disperatamente e dando segno di grande agitazione. Al medico non rimane che abbandonare la stanza con una diagnosi sommaria: dapprima dichiara che Elva Zona Heaster è morta di “perenne debolezza” (everlasting faint), in seguito cambierà parere affermando che è morta a causa di una gravidanza, anche se, di fatto, non si sa se la donna fosse effettivamente incinta in quel periodo.
Durante la veglia funebre, Shue continua a non darsi pace. Alterna momenti di profonda tristezza a fasi di grande energia, non lascia avvicinare nessuno al feretro, ma colloca due cuscini ai lati della testa della moglie per “farla riposare meglio” e aggiunge una grossa sciarpa intorno al collo, spiegando che era la preferita di sua moglie.
Il giorno seguente, il corpo della giovane sposa viene sepolto nel cimitero metodista locale, dove giace tutt’ora. La vita, a questo punto, dovrebbe continuare a scorrere naturalmente e il tempo dovrebbe sbiadire e diluire il dolore della perdita.
Salvo che, nel caso di Zona, le cose vanno in modo diverso. Un mese dopo il funerale, sua madre, che era già tormentata dal dubbio che la morte della figlia fosse in realtà un omicidio, scorge dei bagliori nella stanza, che prendono forma fino a comporre la sembianza della figlia scomparsa. Il fantasma inizia ben presto a parlare, mentre nella stanza si diffonde un gelo sepolcrale, e racconta che Shue, suo marito, era in realtà un uomo crudele e feroce, che l’aveva uccisa spezzandogli il collo in uno scatto di rabbia, accusandola di non aver preparato la carne per cena. A riprova delle sue parole, lo spettro girò la testa all’indietro in una posizione innaturale.
Mary Jane Heaster, la madre di Elva Zona, dichiarò che il fantasma gli fece visita per quattro notti, anche se, come abbiamo visto, è probabile che fin da prima fosse convinta della colpevolezza del genero. Spinta dal desiderio di giustizia, andò a raccontare le parole dell’apparizione al procuratore locale, l’avvocato John Alfred Preston. Non si sa se il legale credette alle parole della madre, o se piuttosto si lasciò convincere dai rumori cittadini che giravano sulla morte poco chiara della giovane sposa: fatto sta che consultò il dottor Knapp e, quando questi dichiarò di non aver potuto esaminare il corpo nel dettaglio, indisse la riesumazione del cadavere e l’autopsia.


Elva Zona Heaster

Il 22 febbraio 1897, si eseguì l’esame autoptico del cadavere di Elva Zona Heaster, ospitato temporaneamente all’interno della scuola del villaggio, e si scoprì che in effetti il collo della donna era stato spezzato tra la prima e la seconda vertebra e la trachea schiacciata, Sulla gola erano ancora visibili dei lividi, segni inconfutabili di strangolamento.
Con l’emergere di prove così schiaccianti, Erasmus Shue venne messo agli arresti. Col procedere dell’istruttoria, emersero dei lati oscuri del suo passato: in precedenza, era già stato sposato due volte, ma la prima moglie aveva ottenuto il divorzio, mentre la seconda era morta in circostanze misteriose all’incirca un anno dopo il matrimonio.
Nel corso del processo, svoltosi il 22 giugno 1897, il procuratore Preston non si focalizzò sull’aspetto spiritico: fu piuttosto la difesa a farlo, nella speranza, forse, di gettare una cattiva luce sulla deposizione di Mary Jane Heaster. In ogni caso, l’11 luglio Shue fu condannato all’ergastolo per omicidio. Mentre veniva ricondotto in cella, scampò per un pelo al linciaggio.
Morì in carcere il 13 marzo del 1900.


Targa commemorativa del fantasma di Greenbrier

La madre della vittima continuò a sostenere, fino alla fine dei suoi giorni, la realtà del suo contatto ultraterreno con la figlia. Volendo fornire una spiegazione razionale dell’accaduto, si potrebbe ipotizzare che si trattò di un espediente insolito per aprire il processo oppure di un caso di autosuggestione, ma non lo sapremo mai con certezza, perché la verità si trova dietro il velo del tempo e della morte.
In ogni caso, il fantasma di Zona Heaster Shue riposa in pace da allora. Ancora oggi, una targa commemorativa ricorda ai visitatori del cimitero di Greenbrier questa vicenda, triste e curiosa al tempo stesso.

Kate Morgan, la donna misteriosa della stanza 302

L’Hotel Coronado è un lussuoso albergo vittoriano, una fantasmagoria di padiglioni, campi da tennis, piscine e giardini tropicali che si affaccia sulla baia di San Diego, in California.
La donna che entra nella reception dell’hotel nel novembre del 1892, tuttavia, sembra poco interessata a tutto quello sfarzo. Firma il registro degli ospiti come “Mrs. Lottie A. Bernard”, di Detroit, e dice di essere da sola, in attesa che arrivi suo marito. Il personale dell’albergo riferirà in seguito che era una donna affascinante, ben vestita e con un portamento signorile, ma che qualcosa sembrava tormentarla e dava un’impressione di grande tristezza.
Pochi giorni dopo, il 29 novembre 1892, il suo cadavere viene trovato ai piedi della scalinata che dall’hotel porta alla spiaggia. In mano ha una pistola che ha acquistato qualche giorno prima. In testa, una pallottola.
Il corpo viene identificato: quello usato per registrarsi era un nome falso, il vero nome della donna era Kate Morgan. Di lei non si sa molto, se non che è nata nel 1864 nella Contea di Fremont, in Iowa, e che si è sposata nel 1885 con un certo Thomas Edwin Morgan, da cui ha avuto un figlio che è rimasto in vita per pochi giorni soltanto. Alcune versioni raccontano che Thomas Morgan fosse un gambler, un giocatore professionista, e che Kate lo aiutasse a organizzare truffe e imbrogli ai danni di sprovveduti tentatori della sorte.
Intorno al 1890, la donna fugge con il fratellastro del marito, un uomo di nome Alber Allen, ma anche in questo caso la relazione non dura a lungo, tant’è vero che la donna si registrò da sola al Coronado Hotel.
A questo punto, il mistero si infittisce.


Kate Morgan

Perché Kate Morgan si suicidò? E si trattò veramente di suicidio? Nel 1980 un avvocato di San Diego di nome Alan May si interessò alla vicenda e riuscì a far riesumare il cadavere. L’inchiesta portò alla luce una verità inquietante: la pallottola trovata nel cranio di Kate era di calibro diverso da quelle contenute nella sua pistola, e quindi la donna sarebbe stata uccisa, forse dalla gelosia di suo marito, forse da quella del suo ultimo compagno o forse da qualche altro movente che il tempo ha ormai cancellato per sempre.
In ogni caso, la camera 302 (oggi 3312 con la nuova numerazione assegnata dall’Hotel), la camera di Kate Morgan, è da allora teatro di fenomeni inspiegabili: luci elettriche che sfarfallano, televisori che si accendono e spengono da soli, odori e suoni inspiegabili, oggetti che si spostano da soli, porte che sbattono apparentemente senza ragione e bruschi sbalzi di temperatura, insieme a rumori di passi e voci indistinte.
Qualcuno riporta addirittura di aver visto un volto femminile ed etereo apparire sullo schermo spento della televisione. Anche il negozio di souvenir dell’hotel è stato teatro di poltergeist: gli oggetti esposti sugli scaffali cadevano senza una motivazione apparente, così come il luogo in cui Kate morì è circondato da un’aura sinistra: pare che le luci dei lampioni, in quella zona, si brucino con grande facilità.
Ancora oggi, il fantasma triste di quella misteriosa signora fa parlare di sé, attirando intere squadre di indagatori del paranormale o aspiranti tali.

Conclusioni

Il nostro viaggio tra i fantasmi al femminile del folklore della Frontiera si chiude così: partendo dalle figure archetipiche della Donna Cervo e della Llorona ci siamo gradualmente spostati su personaggi spettrali che affondano le loro radici nella storia, tra gli orrori della guerra di indipendenza, per arrivare a processi improbabili e camere d’albergo infestate.
Volendo, si potrebbe ancora proseguire la ricerca analizzando una una pletora di “dame in bianco” e “signore in nero” che popolavano i racconti intorno al focolare: anche queste leggende in genere sono collegate a fatti drammatici, amori infelici e bambini morti prematuramente, cause capaci di “inchiodare” lo spirito e il suo dolore alla terra. I tratti salienti di queste leggende sono molto affini a quelli che abbiamo già esposto e si richiamano a vicenda, in un affascinante e labirintico gioco di specchi.
Lasciamo al lettore la valutazione delle storie che abbiamo raccontato: a questo punto, non ci rimane che ascoltare il vento che soffia tra gli arbusti di artemisia, cercando di distinguere gli oscuri lamenti che risuonano sotto il cielo sconfinato dell’Ovest.

Per approfondire:

Sul piccolo popolo tra i Nativi Americani

Sulla Llorona

Sulla Lechuza