I Timbisha, gli indiani della Valle della Morte

A cura di Angelo D’Ambra

Timbisha in una foto di Andrew J. Russell
La Death Valley è uno dei luoghi più caldi ed aridi della terra, con temperature estive in media oltre i 100 gradi. Pensare che qui possa essere possibile vivere è inimmaginabile eppure è così. In queste condizioni così estreme, ancora oggi, vivono i timbisha.
Questo popolo vive qui da sempre, ha sempre saputo dove trovare fonti d’acqua e piante commestibili, ha sempre saputo come cacciare conigli e persino allevare pecore. Ed è grazie a questo suo ingegno che è giunto sino a noi preservandosi in terre così desolate, capaci di respingere chiunque.
In piccoli gruppi si sono accampati alle sorgenti d’acqua nel deserto e dalle materie prime del deserto hanno costruito i loro utensili in una vita di totale semplicità. Così sono rimasti ignoti ai bianchi sino alla metà dell’Ottocento.
Nel dicembre del 1849 cercatori d’oro coi loro carri si staccarono dalla Mojave San Joaquin Company intraprendendo una scorciatoia alla ricerca di nuovi giacimenti auriferi in California. La loro mappa era incompleta e vaga, con pochi riferimenti e tratti grossolani. Ciò non fermò la loro frenesia, i loro sogni, la loro avidità e si persero in sconosciuti canyon rocciosi ed aride sabbie. Erano entrati nella Death Valley.
In queste circostanze, due membri della carovana, Julia Brier e William Manly, fecero un incontro speciale. Furono i primi bianchi a conoscere il popolo dei timbisha.
I due pubblicarono poi sul The San Francisco Call un articolo intitolato “Il nostro Natale in mezzo ai Terrori della Valle della Morte” da cui leggiamo: «La mattina dopo, la compagnia si spostò sulla sabbia – nessuno sapeva verso dove stava andando. Uno degli uomini gridò all’improvviso: “Lupo! Lupo! “E alzò il fucile per sparare. “Mio Dio, è un uomo!” Gridò il suo compagno. Quando la compagnia si avvicinò, scoprimmo che quella cosa era un vecchio indiano sdraiato sulla schiena e sepolto nella sabbia – salvo la testa. Era cieco, raggrinzito e calvo e sembrava una mummia. Poteva avere pure centocinquanta anni! Gli uomini lo hanno tirato fuori e gli hanno dato acqua e cibo.


Timbisha Shoshone village

Il povero tizio continuava a dire: “Dio benedica i pickaninni!”. Chissà dove lo aveva imparato. La sua tribù doveva essere fuggita avvistandoci e l’anziano, che non poteva viaggiare, era stato lasciato lì a morire».
William Manly ricordò questo incontro anche in “Death Valley nel ’49”, scrivendo d’essersi imbattuto in una pista di impronte di mani e piedi sino alla cima di una collina dove trovò l’anziano ficcato in un buco e lasciato a morire. «Non era morto perché potevo vederlo muovere mentre respirava, ma la sua pelle assomigliava molto alla superficie di un prosciutto di cervo ben asciutto. Dal suo aspetto poteva avere 200 o 300 anni…», scrisse.
Questi cercatori d’oro furono decimati dalle morti per sete e da lì nacque il nome di Death Valley. Per i nativi quel posto era semplicemente timbisha, la loro terra rosso-ocra.
Quando la lunga serie di cercatori d’oro, minatori di borace ed altri esploratori del deserto cominciarono ad attraversare la Valle della Morte dopo il 1849, i loro viaggi verso ovest alterarono per sempre il modo di vivere tradizionale di timbisha. La storia che segue è storia di malattie, sofferenze e lotte per la terra.
Quando le compagnie minerarie iniziarono a scavare nella valle, ottennero i diritti legali su molte importanti fonti d’acqua che i timbisha avevano usato per secoli. Ben presto la Pacific Borax Company iniziò a estrarre minerali dalla zona di Furnace Creek, costringendo la tribù a spostarsi dalla propria area di campeggio tradizionale e a trasferirsi più volte in siti meno desiderabili.


Timbisha Shoshone village, Furnace Creek, 1940

Col tempo nella vita dei timbisha entrarono il lavoro salariato ed il denaro e la loro attività naturale si è orientata esclusivamente alla produzione di cestini per turisti.
Meno di un secolo dopo dal loro primo incontro con i bianchi, i timbisha si videro togliere la propria terra, non da privati ma dal governo e in un modo clamoroso. L’11 febbraio del 1933 il presidente Herbert Hoover istituì la Death Valley National Monument su due milioni di acri della loro valle, con l’intera regione circostante. Questo atto avvenne con l’ipocrita finzione che questa regione fosse “disabitata” quando si sapeva bene che non era affatto così; si sapeva bene che c’erano uomini che cacciavano lepri e pecore usando frecce con punte di pietra e donne capaci di tessere cesti così complicati da poter contenere l’acqua; si sapeva bene che c’erano i timbisha.
Per loro la valle non era una valle di morte, era una valle di vita. Ne erano così convinti che utilizzavano quel terriccio rosso-ocra come materiale medicinale, spargendoselo sui volti. Vivevano qui da millenni come attestano i buchi della Grinding Rock creati dalla continua macinazione di chicchi di grano.
Ma i timbisha chi erano? Non guerrieri, né commercianti, ma gente povera mai ufficialmente riconosciuta e senza alcun diritto sancito da trattati, dunque senza una terra che potessero chiamare casa. E allora, piuttosto che ammettere che i timbisha avessero una lunga storia insediativa in quel luogo, i funzionari federali semplicemente scelsero di “fingere” che gli indiani non esistessero nella “Valle della Morte”.
In verità esisteva una rivendicazione di quella terra a livello federale. Era stata presentata nel 1907 dai parenti di Hungry Bill, un timbisha, che si premurò di seguire tutto l’iter burocratico per farsi riconoscere un terreno a Johnson Canyon, ma che non ricevette alcun titolo di proprietà, morendo nel 1919.


In un villaggio Timbisha

I suoi eredi persistettero su quella strada e riuscirono a farsi riconoscere 160 acri entro la fine degli anni Venti. Complicazioni sorsero nel 1936, quando un altro timbisha, Robert Thompson, presentò un reclamo sostenendo che, sin dal 1880, la sua famiglia fosse in possesso di un territorio di circa 40 acri che era stato inserito nell’atto presidenziale. Alla fine Thompson ottenne il riconoscimento di quello spicchio di terra ma negli anni Cinquanta i 200 acri combinati delle assegnazioni di Bill e Thompson erano stati venduti al governo federale con il sostegno della Bureau of Indian Affairs.
Nel frattempo, un accordo siglato il 23 maggio del 1936, aveva stabilito una “colonia di indiani” nella valle: Furnace Creek. Paradossalmente i timbisha furono visti come “occupanti abusivi” di quella che da secoli era la propria casa ed ogni volta che un imprenditore avviava scavi minerari nei loro territori, essi erano cacciati altrove. Furnace Creek era una desolazione e i timbisha, per viverci, dovevano pagare una tassa annuale. In questa distesa sabbiosa di 40 acri il Bureau of Indian Affairs investì 5mila dollari costruendo 11 case, senza acqua, ne elettricità. In larga parte i giovani timbisha abbandonarono subito quel posto, poche famiglie accettarono di permanervi sfruttando le opportunità economiche legate al turismo, commercializzando le loro attività artigianali.
Verso la metà degli anni Cinquanta, il villaggio indiano di Furnace Creek era in uno stato deplorevole. Lo stato di abbandono in cui il Bureau of Indian Affairs lasciava questo villaggio era frutto di un disegno pianificato per eliminare i timbisha da quel posto. Così, approfittando della migrazione stagionale, che questo popolo continuava ad effettuare ogni estate, spostandosi sulle alture della valle, il governo fece abbattere alcune case temporaneamente abbandonate.


I Timbisha nel fumetto di Tex della casa editrice Bonelli

Queste abitazioni erano talmente “economiche” che furono abbattute letteralmente con un gettito d’acqua che ne sciolse le pareti.
Anni più tardi, i funzionari governativi, sperando che i timbisha avrebbero spontaneamente abbandonato quella terra una volta che i più anziani fossero morti, misero da parte i piani di sfratto. I giovani però si mostrarono più tenaci dei loro genitori e non abbandonarono mai questa terra. Alla loro guida si era posta una giovanissima nativa, Pauline Esteves, e dopo anni di mobilitazioni e attivismo, finalmente i timbisha ricevettero il riconoscimento tribale federale come entità sovrana. Era il 1983.
Tuttavia, i problemi continuarono.
Lo status ottenuto non garantiva loro alcuna terra e la questione restò aperta sino agli anni Novanta. Sotto la presidenza Clinton, in un crescendo di manifestazioni capaci di scuotere l’opinione pubblica, fu firmato il Timbisha Shoshone Homeland Act. L’atto trasferì 7.753.99 acri alla tribù, compresi 313.99 acri a Furnace Creek. Ha inoltre riconosciuto ulteriori “aree per uso speciale in cui i membri tribali sono autorizzati a perseguire pratiche tradizionali a basso impatto ambientale ecologicamente sostenibile…”. L’atto consente un centro visitatori, un negozio di souvenir e un punto di ristorazione. Questo mutamento politico, costato sacrifici e lotte, ha portato i timbisha ad avere i loro diritti e la loro terra, ma ormai solo in 40 su 400 vivono tutto l’anno nella valle. La speranza è nel futuro.
Un aspetto interessante della vita dei timbisha è il loro rapporto con gli alberi di mesquite. Essi si prendevano cura degli alberi durante la primavera, monitoravano la nuova crescita delle foglie, ne raccoglievano i baccelli maturi nella tarda primavera, e si occupavano della potatura. Dai baccelli di mesquite, i timbisha ottenevano una farina dolce da cui ricavavano pietanze che portavano sulle alture della valle nei loro spostamenti estivi, ma che rappresentavano una parte importante dei loro pasti anche in autunno e inverno, completando una dieta a base di selvaggina e pinoli arrostiti. In questo modo, i mesquiti non erano solo una fonte di cibo, ma parte della reciproca relazione della tribù con la terra: i timbisha si prendevano cura degli alberi proprio come gli alberi si prendevano cura dei timbisha. Quando i minatori deviarono gran parte dei corsi d’acqua assorbendola per le loro attività, i mesquiti s’ammalarono e l’albero di tamerici, comunemente chiamato cedro di sale, tolse loro parecchio terreno. Così in buona sostanza possiamo dire che gli alberi di mesquite e la tribù timbisha condividono la medesima storia, entrambi hanno vissuto nella valle per secoli e il loro stile di vita è stato sconvolto dall’arrivo dei bianchi che hanno occupato la loro terra e preso l’acqua che era sempre stata loro. Oggi i timbisha sono impegnati nella difesa dei mesquiti e numerosi progetti solidali sono volti a tal fine.


Veduta della Death Valley con mesquite

I timbisha shoshone sono antenati degli uto-aztechi che si trasferirono in questa regione più di 1.000 anni fa. Secondo un’antica leggenda timbisha la Death Valley non fu sempre un luogo arido e desertico, anzi era una valle bella e fertile, con un grande lago e abbondanti sorgenti, una vegetazione lussureggiante e numerose specie animali. I timbisha erano governati da una bellissima regina, vanitosa ed esigente, che ordinò loro di costruirle una enorme casa. I timbisha si impegnarono in lunghi e massacranti lavori, divenendo schiavi da frustare. La regina avida di ricchezze rese schiava persino sua figlia lasciandola morire di scudisciate. Fu solo allora che la Regina si rese conto di quanto la sua avidità e ossessione l’avessero portata via. Aveva sostituito una cultura ricca di valori familiari e l’amore per la natura e la terra stessa con schiavitù. Ormai però era troppo tardi, la terra s’era inaridita, il sole era diventato più forte, l’acqua e gli animali fuggivano da quel posto senza amore. La regina si ritrovò a morire sola ne suo palazzo. Con questa leggenda, i timbisha spiegano le origini della Death Valley. Le implicazioni morali di questo racconto ci dicono però molto di più su questo popolo.
Questo è un luogo che ha avuto 154 giorni consecutivi di temperature pari o superiori a 100 gradi F (estate del 2001) e 40 giorni consecutivi sopra i 120 (1996). Il 15 luglio 1972, la temperatura a Furnace Creek raggiunse i 201 gradi F. La mancanza di umidità può essere attribuita alle quattro principali catene montuose che si trovano tra la valle e l’Oceano Pacifico. Queste barriere naturali succhiano l’acqua delle nuvole che, quando arrivano nella valle, sono ormai secche. Il calore intenso è dovuto alla profondità e alla forma della valle. A 282 piedi sotto il livello del mare, circondato da alte e ripide montagne, il calore scorre nell’aria limpida e secca, con poca copertura vegetale per offrire ombre di raffreddamento. Il calore cuoce la superficie del deserto e si irradia dal suolo e dalle rocce e rimane intrappolato nella valle. Le notti d’estate sono fredde di 90 gradi, il caldo sale e viene intrappolato dalle pareti della montagna, viene raffreddato e rispedito verso il fondovalle in sacche di aria discendente che spazzano la valle. Solo con amore, rispetto, ingegno e solidarietà si può vivere qui.
Sia le tradizioni orali dei timbisha che le scoperte archeologiche forniscono prove sulle migrazioni stagionali di questo popolo nella Valle della Morte. In inverno i timbisha vivevano in modeste case coniche fatte di erba, sterpi, corteccia, vimini attraverso cui era facile la circolazione d’aria dall’esterno. Mentre il fondovalle diventava insopportabilmente caldo durante i mesi estivi, gruppi familiari timbisha viaggiavano verso le più fresche alture montuose. I villaggi invernali si trovavano in quattro aree diverse all’interno della Valle della Morte, ma anche all’interno delle Valli di Panamint e delle Saline e in altri luoghi. Nelle attuali vicinanze di Furnace Creek, le famiglie vivevano in case coniche di diametro variabile tra i tre e i dieci gruppi familiari vicini ai mesquiti che sono ancora presenti nella valle. Questa posizione era ideale poiché boschetti gestiti meticolosamente offrivano un’ampia selvaggina oltre ai baccelli del mesquite. Cacciavano cervo, mulo, marmotta dal ventre giallo, pecore bighorn, lepri a coda nera e lucertole. Nei loro piccoli villaggi, i timbisha usavano insomma tutte le risorse vegetali ed animali a loro disposizione per sopravvivere. I villaggi estivi permettevano inoltre alle famiglie di rincontrarsi e di poter organizzare matrimoni, assolvendo dunque anche a funzioni sociali. Tuttavia queste attività, caccia, raccolta e pure migrazioni, sono state vietate con la nascita del parco nel 1933. Tutto continuò a verificarsi nel silenzio ed in segreto.


Vita nella riserva

Numerose compagnie di minatori invasero la Death Valley nella seconda metà dell’Ottocento. La lavorazione dell’oro e dell’argento così come quella del borace richiedevano enormi quantità di legna e acqua e la valle fu stravolta. Neppure la fama di luogo di morte poteva fermare la loro avidità. È il caso della Twenty Mule Teams e di William Tell Coleman e Francis Marion Smith che crearono la Harmony Borax Works. Con essi arrivò pure la ferrovia. Né mancarono personaggi singolari come il miliardario Albert Mussey Johnson che costruì lo Scotty’s Castle col suo amico truffatore Walter Edward Perry Scott, parliamo di un vero e proprio castello in pieno deserto, nella Death Valley, a circa tre ore di macchina da Las Vegas.
Per questi intrusi i timbisha non avevano ancora un nome, per alcuni erano Panamint, per altri Panamint Shoshone, per altri ancora Koso Shoshone. Solo i trattati del Novecento daranno loro il nome di timbisha perchè loro così si definivano, “numu tumpisattsi” ovvero “la gente della terra dipinta di rosso-cora”.
Le tradizioni asseriscono che furono condotti nella Valle dal Coyote e mentre questi dormiva loro scapparono, ma le loro vere origini sono ancora ignote e solo recentemente la loro organizzazione sociale è stata studiata.
Il ruolo dei nonni nell’educazione dei bambini era fondamentale per l’apprendimento dell’importanza della terra e delle sue risorse. I bambini da essi imparavano anche l’importanza della catena parentale, una parentela fondata su proibizioni matrimoniali che si estendevano a qualsiasi legame con il parente in relazione a quanto si potesse ricordare. La residenza delle famiglie era presso il luogo di vita della madre. Era comune che delle famiglie facessero parte anche amici rimasti soli. I divorzi erano ammessi ed in tal caso i bambini restavano con la madre.


L’ingresso nella riserva dei Timbisha

Politicamente tutto era concentrato nella gestione delle risorse. Era il capo a decidere gli spostamenti, le caccie, l’assistenza ai malati. Ciò avveniva attraverso l’autorevolezza del capo, una figura che nutriva della stima di tutti e che non per questo godeva di una posizione privilegiata rispetto agli altri. Chi non era d’accordo con le sue decisioni poteva liberamente rifiutarle e finanche trasferirsi altrove.
Harold Driver registrò due sottogruppi di timbisha nel 1937, gli “o’hya” e i “tu’mbica”. Julian Steward identificò ulteriori distinzioni tra i timbisha del nord della Death Valley e quelli del Sud, i Nuwa e i Kawaissu, ed in essi trovò quattro sottogruppi, i timbisha del Little Lake, della Saline Valley, della Panamint Valley e della Death Valley, a loro volta composti da diversi gruppi familiari ciascuno, tradizionalmente legati da relazioni economiche e parentele.
Questo popolo resta in gran parte poco noto sebbene grande successo hanno avuto i suoi cestini di vimini. I timbisha, infatti, creano bellissimi cesti con rametti, erba e germogli di alberi. Vivere nella Valle della Morte non era facile ed era indispensabile aguzzare l’ingegno per riuscire ad usare tutto ciò che li circondava. Presero dunque a tessere erbe e germogli di alberi fabbricando cestini per la conservazione del cibo e per la raccolta d’acqua. Questi cesti potevano pure permettere di cucinare su pietre calde.
Non è sicuro quando abbia avuto origine la tessitura di cesti. Le più antiche tracce sono andate perse e quel che è rimasto in effetti è l’abilità delle donne timbisha, tramandata di generazione in generazione. Un tempo i cesti erano una parte essenziale della vita indiana, ma gli strumenti in metallo e poi in plastica, introdotti dai bianchi, li resero obsoleti. L’ingegno dei timbisha, respinti in un posto sperduto della Valle della Morte, li portò a non trascurare questa antica tradizione, a non perdere la pratica della tessitura di cesti ed a sfruttare tutto per i turisti che si inoltravano in quei territori. La tessitura del cesto è per i timbisha una parte importante della loro identità. Perderla sarebbe stato come dimenticare la loro lingua.


L’attivista Pauline Esteves

I Timbisha iniziarono a tessere cestini per conservare il cibo, per trasportarlo, per riscaldarlo. Persino, con questi cesti, era possibile contenere acqua. Alcuni dei cesti, infatti, erano talmente stretti da essere impermeabili e potevano essere usati per trasportare acqua. Costruirli era per le donne un modo per stare insieme. Il cesto stesso era spesso usato per portare i bambini. Chiaramente l’idea di sfruttare la produzione di cestini a fini turistici e commerciali fu dei bianchi. Questi “imprenditori pionieri” incoraggiavano gli artigiani nativi a creare oggetti per il mercato di turisti e città dell’est.
Si ricorse dunque a coloranti chimici all’anilina che permettevano colori sgargianti tuttavia molti cesti continuarono ad essere realizzati utilizzando i colori naturali. Realizzati con piante del deserto, questi cestini raggiunsero nel Novecento qualità eccellenti fino ad essere considerate vere opere d’arte degne di arricchire le collezioni museali. Oggi, una ventina di donne timbisha continuano questa tradizione di tessitura.

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