Sergio Leone, la rinascita del western
In ricordo dei 30 anni dalla morte del grande regista (30-4-1989 / 30-4-2019)
A cura di Domenico Rizzi
A trent’anni dalla scomparsa di Sergio Leone, scomparso appena sessantenne il 30 aprile 1989, è doveroso ricordare l’importanza che egli ebbe nel rilancio della cinematografia western, che ormai sembrava agonizzare impantanata in una palude dalla quale nessuno pensava potesse più uscire.
Nel 1963 erano stati prodotti una quindicina di film del genere, ma pochi potevano ambire a soddisfare un pubblico esigente. Fra questi, il contemporary western “Hud il selvaggio”, diretto da Martin Ritt, con la magistrale interpretazione di Paul Newman e l’aggiudicazione di 3 premi Oscar.
Realizzato con una spesa non superiore ai 6 milioni di dollari, ne avrebbe incassati 10, classificandosi, secondo il National Board of Review Award, fra i migliori film dell’anno. Il resto, a parte la commedia di Robert Aldrich “I 4 del Texas”, era risultato abbastanza incolore o comunque tale da far rimpiangere “L’uomo che uccise Liberty Valance”, distribuito soltanto un anno prima.
Il fatto è che, come pensavano molti critici, John Ford pareva avere messo la parola “fine” alla lunga serie di pellicole dedicate a cowboy, Indiani, pionieri e banditi, assegnando ingiustamente al suo Ransom Stoddard (James Stewart) il merito di avere eliminato l’ultimo pericoloso fuorilegge impersonato sullo schermo da Lee Marvin e lasciando che il vero artefice dell’operazione Tom Doniphon (John Wayne) si crogiolasse per il resto dei suoi anni nel dolore, autodistruggendosi con il whisky.
Sergio Leone, a quell’epoca trentaquattrenne, non sapeva molto di come si dovesse impostare un western, essendo la sua esperienza registica limitata soprattutto ad un paio di film cosiddetti peplum: “Gli ultimi giorni di Pompei” (1959) ufficialmente diretto da Mario Bonnard e “Il colosso di Rodi” (1960) dove figurava il suo vero nome. All’attivo vantava inoltre ben 58 esperienze di aiuto-regista. C’era anche il problema che di western non volevano più sentir parlare neppure a Hollywood, nonostante vi fossero dei registi emergenti piuttosto interessanti: Sam Peckinpah, per esempio, avrebbe rivitalizzato il glorioso genere, dopo un esordio (“Sfida nell’Alta Sierra”, 1962) in cui aveva dovuto attingere ad un magro budget di 813.000 dollari, investimento a stento recuperato per intero.
Il regista romano era un fordiano convinto, nonostante il suo dichiarato pessimismo cozzasse contro l’ottimismo del suo modello americano. A differenza di Ford, l’ispirazione per il suo primo film non gli derivò da un’opera classica del western – com’era il caso de “Il massacro di Fort Apache” e “l cavalieri del Nord- Ovest”, tratti da racconti di James Warner Bellah, o di “Sentieri selvaggi”, liberamente ispirato al romanzo di Alan LeMay – bensì dal giapponese “La sfida del samurai”, di Akira Kurosawa, che avrebbe poi creato problemi alla produzione, costretta ad un risarcimento per plagio. Inizialmente il film recava il titolo provvisorio “Il magnifico straniero”, ma delineava subito il personaggio-chiave che si sarebbe dovuto muovere nel polveroso paese di San Miguel fra le due fazioni opposte dei Baxter e dei Rojo. “L’anti-eroe” osserva un critico “appariva come un’astrazione esasperata, priva di reali qualità positive” che “si muove legnosamente, come un’automa: sembra giunto da un altro pianeta” (Massimo Moscati, “Western all’italiana”, Milano, 1978, p. 32). Guardando il protagonista con una certa flessibilità, avrebbe un illustre predecessore nello Shane de “Il cavaliere della valle solitaria” del celebre romanzo “Shane” di Jack Schaefer e dell’omonimo film diretto da George Stevens nel 1953; in realtà non gli somiglia più di tanto. Il pistolero proposto da Leone è molto più cinico e opportunista, non si innamora di nessuna donna, né si affeziona ad un bambino come Shane e pare interessato soltanto al denaro.
In poche parole, è una figura unica nel suo genere, che non ha un passato né un futuro, ma soltanto un presente fatto della spregiudicata alleanza con una parte per prevalere sull’altra e distruggere infine anche la fazione alleata. Volendo azzardare dei paralleli storici della conquista delle Americhe, somiglia sia ad Hernàn Cortès che a Francisco Pizarro, conquistadores che sfruttarono le inimicizie degli Indios per accaparrarsi le loro inestimabili ricchezze.
Quando Leone propose la sua trama ai produttori, non suscitò molto entusiasmo e la ragione non era difficile da intuire. Il western aveva ormai imboccato la sua parabola discendente: a chi poteva interessare una pellicola basata su una faida fra due famiglie in cui si inseriva un uomo sbucato dal nulla che alla fine sterminava tutti? Alla fine però, considerando che in Germania e in Spagna il genere trovava ancora spazio attingendo ai classici della letteratura – soprattutto “Winnetou”, dello scrittore tedesco Karl May, a cui sarebbero stati ispirati diversi film – il regista ottenne dalla Jolly Film di Giorgio Papi ed Enrico Colombo, non senza qualche difficoltà, un finanziamento di 120 milioni di lire. Secondo Tonino Valerii, futuro regista accreditato de “Il mio nome è Nessuno”, “I produttori non volevano che fosse Leone a dirigere il film, perché non credevano molto alle sue capacità né lo stimavano in modo particolare.” (Cristopher Frayling, Sergio Leone: Danzando con la morte, Il Castoro, Milano, 2002, p. 131) anche perché vi era un altro movie-director, Mario Caiano, che aveva proposto un western (“Le pistole non discutono”, che sarebbe uscito nel 1964, coprodotto con Spagna e Germania e interpretato da Rod Cameron) al quale accordavano maggiore fiducia.
Una volta approvato il progetto e ingaggiati gli sceneggiatori Duccio Tessari e Fernando Di Leo, rimanevano da trovare gli attori. “Clint Eastwood” dichiarò Leone in un’intervista “era un personaggio che io scelsi dopo che mi era stato rifiutato James Coburn… (Coburn) era molto caro, chiese 25.000 dollari (che oggi è niente) mentre Eastwood ne pretese solo 15.000…
Allora mi accontentai di Eastwood, che avevo visto in una piccola serie televisiva, ‘Rawhide’, dove lui non parlava per niente, camminava e basta. Questa apatia mi piaceva, e poi la riscontrai anche sul set.” (Moscati, op. cit., p. 61).
L’attore californiano accettò anche su consiglio della moglie, riflettendo che il film di Leone non sarebbe andato oltre i confini dell’Europa, per cui, anche in caso di un insuccesso dato per probabile, la sua popolarità negli Stati Uniti non ne avrebbe risentito. Per gli altri interpreti, Leone ingaggio Gian Maria Volontè, la tedesca Marianne Koch ed altri attori italiani, spagnoli e germanici, molti dei quali presentati con uno pseudonimo: Volontè diventò John Wells, Bruno Carotenuto si inventò Carol Brown e lo stesso regista assunse il nome di Bob Robertson, anglicizzando il nome d’arte di suo padre che era Roberto Roberti. Il tentativo di spacciare l’eterogeneo cast come fosse in buona parte americano avrebbe senz’altro contribuito ad alzare le quotazioni del film.
La scelta del luogo per gli esterni era stata suggerita da Sergio Corbucci, che nel 1959 si era trovato insieme a Leone e Duccio Tessari in Almeria, Spagna, per girare “Gli ultimi giorni di Pompei”. Secondo lui, il paesaggio brullo e arido della regione si sarebbe prestato ad accogliere un film ambientato in certe zone del Messico o del Texas. “Ma guarda un po’, qui si potrebbe fare un western straordinario” avrebbe esclamato il futuro regista di “Django” (Maurizio Colombo, “Spaghetti western”, in Almanacco del West 1994, Sergio Bonelli Editore, Milano, p. 137).
Teatro dello scontro doveva essere l’immaginario San Miguel, un misero villaggio di confine (non si capisce se nel Messico o negli Stati Uniti, dal momento che John Baxter esibisce una stella da sceriffo, ma le truppe messicane vi fanno sosta come se fosse territorio loro) ubicato a poca distanza da un fiume che richiamasse l’idea del Rio Grande.
La trama, come si è anticipato, era piuttosto semplice; il movente dell’azione l’arricchimento di uno sconosciuto capitato per caso nel paese a discapito delle due famiglie rivali dei Rojo, contrabbandieri di liquori, e dei Baxter, trafficanti d’armi. Ben presto si delineano i due protagonisti principali: Ramon Rojo (Volontè) sadico e crudele maniaco del fucile e “Joe” (Eastwood) ineffabile e spietato, quanto abilissimo nell’uso della pistola. L’unica azione di quest’ultimo che riveli un briciolo di umanità – accostandolo per un attimo allo Shane di Schaefer – consiste nella liberazione di Marisol (Marianne Koch) sottratta al marito da Ramon che ne ha fatto la propria amante. La donna recita peraltro una parte marginale, mentre la spagnola Margherita Lozano (Consuelo Baxter) occupa uno spazio maggiore, ma neppure lei di primo piano: il West è un proscenio soprattutto di uomini e in questo Leone si allinea, almeno in principio, alla tradizione.
Il contrasto fra i due contendenti si risolve in un duello finale in cui lo straniero uccide l’avversario con un colpo di pistola ben preciso, dopo avere eliminato, con qualche aiuto, gli uomini che lo sostengono. Lo scontro ha dei risvolti addirittura farseschi, perché Ramon Rojo insiste nello sparare a Joe, protetto sotto il poncho da una corazza di ferro, nonostante lo veda rialzarsi dopo ogni colpo.
La domanda dello spettatore è inevitabilmente: perché il Messicano non mira alla testa o alle gambe, visto che colpendo ripetutamente l’avversario al cuore non ottiene alcun risultato? Ma questa è un’altra novità dei film di Leone, amante del paradosso. Per qualcuno, perché Ramon si dimostra così tonto da rimanere ostinatamente fedele alla propria convinzione che un uomo armato di fucile debba sempre prevalere su quello armato di pistola!
La conclusione del film sembra addirittura ovvia: Joe lascia il villaggio ormai liberato dagli oppressori (e rimasto praticamente deserto) per una destinazione ignota. Il personaggio, che non ha rivelato nulla di sé, ha fatto centro, catturando l’attenzione di un pubblico abituato generalmente ad assistere al trionfo degli eroi della leggenda. Eastwood non è un eroe, non è neppure un uomo destinato a compiere una missione umanitaria e neanche una persona che intenda vendicare dei torti. Al contrario, è un soggetto che bada agli affari suoi, senza però cedere a soprusi e prepotenze, che si muove in groppa ad un mulo invece che in sella ad un cavallo di razza e che puntualmente, poco prima di seminare la morte con la pistola, si accende un mozzicone di sigaro (Eastwood detesta il vizio del fumo, ma accetta l’imposizione perché rientra nel copione). Il suo abbigliamento sarebbe del tutto ordinario, se non fosse per il poncho messicano che indossa, una sorta di divisa a cui nessun altro regista aveva pensato prima. Ma le grandi innovazioni di Leone sono soprattutto i primi piani dilatati e insistiti fino all’esagerazione per evidenziare l’espressione di pietra del protagonista e le emozioni e i difetti dei suoi antagonisti, dal volto butterato di don Benito Rojo (Antonio Prieto) fratello maggiore di Ramon, a quello scettico dell’oste Silvanito (Josè Calvo) che parteggia per Joe.
Mai in precedenza il western si era spinto tanto oltre, pur avendo superato spesso il film di Leone nell’introspezione psicologica dei personaggi. Il fatto è che le immagini esprimono molto più delle parole e la musica che le sostiene, elaborata da Ennio Morricone, ancora celato dietro lo pseudonimo di Dan Savio, sostituisce assai efficacemente i dialoghi. In proposito Leone avrebbe detto: “Per me la musica è fondamentale, specialmente per un western il dialogo ha un senso aforistico; i film potrebbero benissimo essere muti: si capirebbero ugualmente. La musica serve a sottolineare stati d’animo, fatti e situazioni, molto più del dialogo stesso.” (Moscati, op. cit., pp. 49-50).
Quando viene presentato nelle sale italiane, nel 1964, “Il magnifico straniero” ha assunto il titolo definitivo di “Per un pugno di dollari”, all’insaputa dello stesso Eastwood che, terminate le riprese,è tornato negli States, convinto che pochi sarebbero andati a vedere il suo film. Invece, in pochi mesi il lavoro realizza incassi favolosi – 3 miliardi e più di 180 milioni di lire solo in Italia – spazzando via sia i dubbi dei produttori che la diffidenza dei critici. Adesso, Bob Robertson può tornare a firmarsi con il suo vero nome, Sergio Leone.
Le controversie sorte con i Giapponesi per avere trasformato il samurai Sanjuro interpretato dal bravissimo Toshiro Mifune nel vagabondo Joe, non impediscono al regista romano, galvanizzato dall’inaspettato successo, di preparare il seguito, che si intitolerà “Per qualche dollaro in più”. Prendendo alla lettera il titolo, il film, prodotto nel 1965, frutterà parecchie lire in più, attestandosi su un incasso di 3 miliardi e 492 milioni.
Questa volta Sergio decide di duplicare la figura del solitario, affiancando a Eastwood (che alza il proprio compenso a 50.000 dollari) un onesto caratterista di molti film celebri, di nome Lee Van Cleef. Il pubblico lo ha già visto in “Mezzogiorno di fuoco”, “I senza legge”, “Sfida all’O.K. Corral” e “Bravados”, sempre nelle parti di cattivo. Da un po’ di tempo è scomparso dalle scene per una serie di problemi personali, che lo hanno spinto a fare abuso di alcool, tanto che a 40 anni molti lo ritengono ormai finito. L’ingaggio offertogli dalla produzione è modesto, solo 10.000 dollari, ma Van Cleef si accontenta, contando sul proprio rilancio. Il suo ruolo è quello dell’ex colonnello sudista Douglas Mortimer, che qualcuno racconta sia stato anche “il miglior tiratore della Carolina” (quale? La North o la South Carolina, che rappresentavano già due Stati separati? E’ un’altra delle sviste più o meno volute di Leone). Se i cacciatori di uomini sono due, con finalità ben diverse – l’uno, Eastwood, per intascare le taglie poste sul capo dei banditi; l’altro, Van Cleef, per vendicare una sorella oltraggiata dall’Indio e finita suicida – l’avversario si riduce – diversamente da “Per un pugno di dollari”, dove vi erano Rojo e Baxter – ad uno solo: un pericoloso evaso che insieme ai suoi desperados mira a svaligiare la banca di El Paso, dove sono custoditi 500.000 dollari. La parte del capobanda tocca appropriatamente a Volontè (El Indio) che ora non ha più bisogno di nascondersi dietro lo pseudonimo di John Wells.
In “Per qualche dollaro in più” osserva un critico “grande assente è la donna”, poiché l’elemento femminile compare ancora meno di quanto non abbia fatto nel primo film.
Per qualche dollaro in più
A parte la figura secondaria della moglie di un albergatore, rimane il flashback sulla sorella del colonnello, interpretata da Rosemarie Dexter, attrice italiana di origine inglese. Sempre secondo la medesima fonte, “mentre Ramon era soltanto un pistolero” la personalità dell’Indio è più complessa ed ambigua, trattandosi di “un criminale paranoico drogato…e probabilmente omosessuale… Il rapporto fra Niño – uno dei suoi uomini prediletti – e l’Indio è latente, ma è un elemento da non trascurare per la definizione del personaggio.” (Mininni, op. cit., p. 70) Altre due figure di contorno tracciate con efficacia sono quella del vendicativo gobbo Wild, impersonato da Klaus Kinski e di Groggy (soprannome incomprensibile, perché l’uomo, che fra l’altro sarà l’ultimo a cadere sotto i colpi di Eastwood, non compare mai ubriaco ed è un provetto tiratore) la cui parte è affidata a Luigi Pistilli. Poco azzeccato anche l’appellativo di Monco (mancino) dato al protagonista, che invece spara con la mano destra, apparendo anche nell’abbigliamento la fotocopia del Joe di “Per un pugno di dollari”.
Il film contiene alcuni riferimenti in contrasto con la storia, perché il centro di Tucumcari, New Mexico, dove il colonnello fa arrestare il treno per scendere con il suo cavallo, non sorse prima del 1901, mentre l’epoca in cui si svolge la vicenda è intorno al 1875-80. Tutto ciò non basta ad inficiare minimamente il meritato successo della pellicola, perché la stragrande maggioranza degli spettatori non è in grado di rilevare certi particolari, oppure non ne tiene affatto conto. Del resto, moltissimi film hollywoodiani contengono imprecisioni o addirittura errori madornali relativi a epoche, eventi o personaggi storici.
“Per qualche dollaro in più” sfrutta nuovamente le grandissime capacità creative di Ennio Morricone, che escogita, dal motivo di un carillon, una memorabile colonna sonora a supporto delle scene di maggiore intensità, come quella del duello finale fra il colonnello e l’Indio. La proposizione del binomio Monco-Mortimer, in luogo del singolo cavaliere solitario rappresentato da Joe, introduce anche una tematica nuova: il contrasto generazionale fra l’anziano colonnello, figlio del Sud aristocratico legato a regole d’onore, che agisce per un ideale di giustizia, e il giovane bounty-killer animato solo dal desiderio di arricchimento. Ad un’analisi attenta, il personaggio interpretato da Eastwood si distanzia enormemente dallo Shane di Schaefer, quanto dallo stesso Joe di “Per un pugno di dollari”, che pure si faceva qualche scrupolo morale vedendo Marisol schiavizzata da Ramon. Per lui, sterminare la banda dell’Indio significa soltanto racimolare un buon gruzzolo con cui acquistare – sono parole sue in un dialogo con il colonnello – un ranch per chiudere con l’esistenza rischiosa del pistolero. Non bisogna dimenticare che l’alleanza fra lui e Mortimer poggiava sulla considerazione, fatta da quest’ultimo, che “quando due reggimenti attaccano la medesima posizione finiscono per spararsi addosso l’un l’altro”. Dunque, la scelta è stata di convenienza.
Con “Il buono, il brutto, il cattivo”, ultimato nel 1966, il binomio cambia, pur rimanendo sempre sul piano del reciproco tornaconto. Eastwood, che ora si fa chiamare Biondo, è ancora nei panni del bounty-killer dagli occhi di ghiaccio, mentre Van Cleef viene sostituito dal chiassoso, petulante e a tratti insopportabile Eli Wallach. Al signorile contegno del colonnello subentra la volgarità del rozzo Messicano, che già aveva interpretato il bandito Calvera ne “I magnifici sette”. “La violenza esasperata viene stemperata da continui richiami ironici e beffardi” (Moscati, op. cit., p. 37) e il film alterna fasi di estrema drammaticità, come i reiterati scontri fra Nordisti e Sudisti per la conquista di un ponte, a momenti che rasentano la comicità, quasi sempre dovuti alla presenza di Tuco.
La guerra di secessione è il nuovo sfondo della vicenda dei due pard alla caccia di un tesoro sepolto e in questo contesto appare assurdo e stonato lo sfoggio di bravura di Eastwood con un fucile a ripetizione, quando deve spezzare, da una certa distanza, il cappio stretto intorno al collo dell’amico da lui stesso consegnato alla legge per riscuotere la taglia da dividersi fra i due. Anche la sequenza della ricerca del tesoro fra le tombe di un cimitero sconfinato, per quanto bella e spettacolare, ha scarsa credibilità.
In realtà, nel terzo film della “Trilogia del Dollaro” il West non è così presente come nei due precedenti e la storia degli avventurieri in cerca di soldi comincia a diventare ripetitiva. Non mancano neppure qui le situazioni inspiegabili, come quella di Sentenza (Lee Van Cleef) che da pistolero prezzolato si ritrova ad un certo punto con indosso l’uniforme nordista, per giunta già con i galloni di sergente cuciti sulle maniche. A quanto sembra, a giudicare dalla sua familiarità con l’ufficiale in comando, si trova da tempo in quel reparto e non poteva certo essere in giro ad eseguire delitti su commissione.
Dissentendo dai critici che hanno tessuto tanti elogi sulla terza fatica di Leone, chi scrive non lo considera certo il miglior prodotto del regista. Innanzitutto perché non si tratta di un western in senso stretto; poi, perché mostra “una generale propensione per la comicità vera e propria” (Mininni, op. cit., p. 82) A tratti, “sembra di cogliere un anticipo dell’evoluzione burlesca del western che sarà condotta da Enzo Barboni (alias E.B. Clucher) nella serie di Trinità con Terence Hill e Bud Spencer…” (Mininni, op. cit., p. 83). Si può aggiungere che Leone riesce a far svanire tutta la simpatia che aveva creato nel precedente film intorno a Lee Van Cleef, affibbiandogli ora una parte detestabile; lo stesso Eastwood passa nel ruolo secondario di spalla del Tuco e nonostante abbia preteso l’ingaggio “astronomico” di 250.000 dollari, il declassamento non gli va proprio giù. La sua collaborazione con Leone finisce qui, anche se il regista gli vorrebbe far recitare la parte di uno dei tre fuorilegge uccisi da Armonica alla stazione ferroviaria, all’inizio di “C’era una volta il West”. Eastwood gli risponde con un “no” perentorio e quasi risentito, perché “una star non può morire nei primi dieci minuti di pellicola”.
Gli sguardi dei protagonisti del film
Gli incassi – 3 miliardi e 210.000 dollari – sono tuttavia ancora largamente appaganti, seppure in leggera flessione rispetto al secondo film. Quando poi la trilogia approda finalmente alla patria del western, nel 1967, è inaspettatamente proprio il suo terzo film ad ottenere i maggiori consensi, forse perché Robert Kennedy ne prende a prestito il titolo per un paragone politico con amici e avversari. Sam Peckinpah precisa invece: “Conosco solo due western di Sergio Leone, il primo e ‘Il buono, il brutto e il cattivo’… film molto ben fatti, diretti ottimamente… però non ci trovo la reale memoria del West… non trovo assolutamente nei suoi personaggi qualcosa che appartenga sul serio al West.” (Valerio Caprara, “Sam Peckinpah”, Il Castoro Cinema, Firenze, 1978, p. 8). Al riguardo, vale forse la considerazione di un critico italiano che “il West di leone è più realistico e al tempo stesso meno astratto di quello dei film americani. Leone si fa scrupoli di veridicità storica e rende esplicita la violenza; ma quest’ultima, scandita dalla musica di Ennio Morricone, diventa surreale come un balletto.” (Alberto Pezzotta, “Clint Eastwood”, Il Castoro Cinema, Milano, 1994, p. 16).
A questo punto, esaurita la trilogia, Leone si rende conto che manchi qualcosa per concludere degnamente la pagina dedicata al West.
ll suo quarto western ha il sapore crepuscolare della fine di un’epopea, quella dei pistoleri, dei vendicatori e della gente che uccide per il piacere di farlo. Per l’occasione, vengono lasciati da parte gli sfondi ispanici dell’Almeria, perché il West deve vivere il proprio tramonto nel luogo che l’ha reso più popolare a livello mondiale: la Monument Valley dell’Arizona. Forse un omaggio al grande John Ford, ma probabilmente anche una sfida al “classicismo americano da cui discendeva proprio sul suo territorio di elezione.” (Roberto Donati, “Sergio Leone, America e nostalgia”, Falsopiano Light, Alessandria, 2004, p. 18).
“C’era una volta il West”, distribuito nel 1968, presenta una vicenda nuova con volti nuovi, accantonando Eastwood e Van Cleef per introdurre l’espressione di pietra di Armonica (Charles Bronson) la crudele smorfia di Frank (Henry Fonda, che Leone aveva tentato inutilmente di reclutare in passato) lo sguardo febbricitante del moribondo affarista Morton (Gabriele Ferzetti) la prorompente bellezza di Jill Mc Bain (Claudia Cardinale) e la bonaria cattiveria di Cheyenne (Jason Robards) un rapinatore che prova ancora dei sentimenti. Ennio Morricone supera se stesso con gli altissimi livelli della colonna sonora, considerata ancora oggi uno dei suoi capolavori. Per il West selvaggio e senza legge destinato a cedere il passo al progresso che incalza con i suoi treni sbuffanti, nulla è più aderente della musica che ne accompagna il declino.
“C’era una volta il West” si muove su due piani paralleli che finiscono per intersecarsi. Da un lato il progresso che avanza, con la moltitudine di operai che lavorano incessantemente alla posa dei binari; dall’altro le storie individuali di chi cerca di adattarsi ad esso, di riciclarsi secondo le sue logiche, oppure di chi è consapevole di non farvi più parte, come è il caso di Armonica, Frank e Cheyenne. Jill, l’ex prostituta di New Orlèans venuta nell’Ovest per iniziare una nuova esistenza, si è buttata il passato alle spalle; Armonica se lo trascina invece dietro come un fardello da completare con la vendetta, l’uccisione dell’uomo (Frank) che ha impiccato barbaramente suo fratello. Per qualcun altro – Morton – vi è soltanto il miraggio di vedere i treni raggiungere la costa del Pacifico prima che la tubercolosi ossea ponga fine ai suoi giorni.
Si è più volte insistito sulla definizione del film come di un “balletto di morte”, come lo definisce lo stesso Leone in un’intervista “soprattutto la smitizzazione di certi stereotipi americani…Mi sono servito di questi cinque personaggi per narrare la nascita di una grande nazione.” (Moscati, op. cit., p. 59). In realtà è una contrapposizione fra la vecchia Frontiera che si spegne e i nuovi elementi che ne provocheranno la rapida trasformazione. Uomini come Armonica, Frank e Cheyenne hanno una sorte segnata, anche se il primo si allontanerà dalla vallata dopo avere compiuto la sua missione. Invece Jill Mc Bain rinuncia a tornarsene nell’Est da dove proviene ed è proprio lei il fondamento della nuova era che sta per nascere. Per la prima volta, Leone guarda la figura femminile come l’unica che possa occupare un ruolo decisivo nel futuro. E’ dunque pienamente condivisibile la tesi che Jill “rappresenta il futuro dell’America, l’inizio del matriarcato e la fine di quell’universo specificamente maschile che era il Far West… Questo cambio della guardia alla guida del paese è un’autentica rivoluzione che esige le sue vittime: Mc Bain, Frank, Cheyenne e Morton muoiono, Armonica se ne va a morire altrove. Jill rimane, e da un momento all’altro diviene il punto di riferimento dell’intera comunità… In un colpo solo il progresso ha fatto un altro passo verso l’unificazione delle coste, e la donna è diventata il nucleo della società in sviluppo.” (Mininni, op. cit., p. 89).
Con la fine del West tradizionale, si esaurisce anche il discorso impostato da Leone, il quale sembra rendersi conto perfettamente che non è il caso di insistere ulteriormente sul tema. “C’era una volta il West” incassa 2 miliardi e 503 milioni, quasi un miliardo in meno rispetto a “Per qualche dollaro in più”. Sebbene il western non sia affatto finito – negli Stati Uniti è nato il “revisionismo”, che produrrà opere pregevoli per quasi un decennio, lasciandosi talvolta contagiare dall’esperienza italiana – diventa difficile escogitare una trama che non finisca per ricalcare quelle già utilizzate. Per questo il regista romano si concederà prima un’escursione nel Messico della rivoluzione permanente con “Giù la testa” (1971) per dedicarsi poi all’altro suo grandissimo capolavoro “C’era una volta in America” (1984) senza riuscire a concretizzare il sogno di un film basato sul lunghissimo assedio nazista di Leningrado nell’ultima guerra mondiale. Nel 1973, colto forse da nostalgia del passato, collabora con Tonino Valerii alla realizzazione di “Il mio nome è Nessuno”, sperando che esso rappresenti la fine di un genere che purtroppo qualcuno comincia a mettere in caricatura. Non sarà così. Mentre negli Stati Uniti il western ritorna a trionfare con titoli di grande richiamo – “Un uomo chiamato Cavallo”, “Il grinta”, “Soldato Blu”, “Piccolo Grande Uomo” – in Italia si insiste su duelli, vendette, torture e cruente carneficine, inventando tutta una serie di personaggi – Mannaja, Cjamango, Gringo, Sartana, Sabata, Requiescat, oltre a quelli comici come Trinità – che consentono lauti guadagni con poco impegno, ma si allontanano sempre più dal filone tradizionale. Il tutto dura fino a quando, afferma lo stesso Leone, il pubblico comincia a disertare le sale, ormai “saturo di vedere idiozie.” (Moscati, op. cit., p. 72).
In effetti l’opera del grande regista romano non ha continuatori che possano emularlo: neppure certi maldestri imitatori americani riescono nell’operazione, sfornando film banali o mediocri.
Ma anche conciliare i contenuti artistici con le esigenze di cassetta è un’arte…che Sergio Leone e pochissimi altri hanno dimostrato di conoscere bene.