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L’ultima guerra indiana

A cura di Giampaolo Galli

Nel momento stesso in cui la frontiera americana veniva consegnata al mito grazie alla narrativa e alle prime pellicole western in bianco e nero, una serie di sanguinosi incidenti tra allevatori e alcune bande di indiani paiute, sembrarono riportare indietro le lancette della storia. Le vicende abbracciano un arco di tempo che va dal 1915 al 1923 e costituiscono l’ultimo scontro armato tra nativi americani ed esercito degli Stati Uniti, anche se, ad onor del vero, il ruolo dei militari fu piuttosto marginale ed interessò maggiormente i rapporti con i civili.
L’ultima grande sollevazione indigena si era avuta ben 25 anni prima, culminata con l’eccidio di Wounded Knee nel dicembre del 1890, che mise la parola fine al turbolento periodo delle “guerre indiane”.


Il campo devastato dopo l’eccidio di Wounded Knee

I disordini provocati dai Paiute ai primi del ‘900 rappresentano quindi un fatto anacronistico, giocato ai tempi supplementari della grande epopea del west, e furono anche l’unica occasione nella quale degli indiani a cavallo si scontrarono con dei civili alla guida di automobili. Altro particolare degno di nota è che all’epoca dei fatti queste bande di Paiute avevano rifiutato la vita nelle riserve e all’inizio degli anni ’20 erano ancora l’unica tribù indigena realmente libera sul suolo degli Stati Uniti
Teatro degli avvenimenti fu la San Juan County nello Utah sudorientale. Racchiuso tra il corso superiore del Colorado e l’ultimo tratto del Rio San Juan, questo immenso territorio selvaggio fu la dimora delle ultime sparute bande di Paiute meridionali, che agli inizi del ‘900 conducevano ancora il vecchio stile di vita di cacciatori e raccoglitori del deserto. Erano piccoli gruppi nomadi, costituiti da uno o più nuclei famigliari che, messi insieme raggiungevano a stento le 200 anime. I contatti con i pochi bianchi e messicani residenti nella zona erano di natura commerciale e si limitavano alla fornitura di beni di sussistenza, che spesso venivano acquistati o scambiati anche con altri indiani delle vicine riserve.
A quel tempo i principali leader di queste comunità erano Billy Hatch, detto Polk e William Posey, entrambi nati negli anni ’60 del secolo precedente ed imparentati tra loro. La sorella di Polk, che apparteneva alla banda Wiminuche degli Ute meridionali, sposò infatti Posey, uomo di spicco tra i Paiute del San Juan. E’ bene ricordare che le due tribù erano strettamente legate tra loro: parlavano la medesima lingua, condividevano le stesse usanze e i matrimoni misti erano la regola, tanto che all’interno dello stesso gruppo era quasi impossibile distinguere le diverse appartenenze.
Molti episodi vengono attribuiti alla profonda amicizia che legava Polk e Posey, ben al di là della parentela acquisita. Quasi coetanei ed inseparabili fin dalla nascita, i due si erano fatti presto un nome tra i guerrieri di Mancos Jim, il Paiute che all’inizio degli anni 80 guidava il loro popolo. All’epoca i bianchi nello Utah meridionale erano ancora pochi, si trattava perlopiù di contadini mormoni di recente immigrazione, che avevano scelto come terra promessa uno degli angoli più tormentati e sperduti della frontiera americana.


Un gruppo di Paiute

Quando il leader mormone Brigham Young fece intervenire l’esercito per dirimere alcune controversie sorte con i nativi, i Paiute non opposero alcuna resistenza all’ingresso delle truppe americane nel loro territorio. Tuttavia, quando il giovane Posey notò che in testa alla colonna di soldati marciavano anche alcuni scout navajo, pensò bene di tendere un’imboscata agli odiati nemici; assieme a Polk e ad altri compagni attese che un paio di esploratori si staccassero dal resto del gruppo e li uccise in modo barbaro. Dapprima li ferì con il fucile dalla lunga distanza, quindi rilasciò una muta di cani feroci che li sbranarono dopo un breve inseguimento.
Tra le gesta di Posey e Polk non mancarono gli atti di coraggio e si racconta che nel 1887 riuscirono a sgominare una banda di otto guerrieri navajo per difendere la moglie del gestore del Rincon Indian Trading Post, un certo Barton. Dall’altro lato, durante uno scontro con i bianchi, Posey uccise un marshall a tradimento mentre sventolava una bandiera di tregua.
Da sempre strenui oppositori all’avanzata dei pionieri, già a partire dagli anni ’80, sia Posey che Polk, si macchiarono di diversi crimini ai danni dei coloni.
Nel 1881 venne loro attribuita l’uccisione di due bianchi nei pressi di Castle Valley, nello Utah orientale, e la spedizione di civili che ne seguì si tramutò in un disastro. Nel vano tentativo di inseguire e giustiziare i colpevoli, una decina di bianchi persero la vita in un’imboscata tesa a Pinhook Valley. Dopo la feroce battaglia gli indiani riuscirono a dileguarsi fra le montagne come fantasmi.
Tre anni dopo, la banda di rinnegati fece ancora parlare di sé: il 3 luglio del 1884 Polk e Mancos Jim affrontarono un nutrito gruppo di cowboy nei pressi di Montezuma Canyon, riportando tre morti e diversi feriti. Scoperti e tallonati dall’esercito, vennero attaccati due settimane più tardi dal reggimento del sesto cavalleria guidato dal capitano Henry Pratt Perrine, che nonostante la forza numerica costituita da 80 cavalleggeri e 40 civili, fu costretto a ritirarsi dopo aver accusato le prime due vittime: Jimmy Rowdy Higgins e lo scout Joe Wormington. Ancora una volta la banda di indiani broncos era riuscita a far perdere le sue tracce e visse libera e indisturbata per oltre un decennio tra le montagne e il deserto dei Four Coners. Fu solo verso la fine del secolo, che un po’ alla volta, anche gli ultimi gruppi ribelli guidati da Polk e Posey si decisero di andare a vivere nella parte occidentale della Southern Ute Reservation, successivamente denominata Ute Mountain Reservation.


Il capo Posey, secondo a sinistra in piedi

La mancanza di controlli esercitati dalle autorità rese però la loro permanenza del tutto temporanea e per oltre quindici anni le bande Paiute continuarono ad entrare e ad uscire indisturbate dai confini della riserva.
Agli inizi del 1914, un nuovo fatto di sangue innescò una spirale di violenza tra gli indiani e i bianchi della regione. Un pastore di origini messicane, Juan Chacòn, fu ritrovato ucciso all’interno della Ute Mountain Reservation ed alcuni testimoni ne attribuirono la responsabilità a Tse-ne-gat, il figlio di Polk. Nel tentativo di farsi consegnare il colpevole, le autorità presero la decisione più maldestra ed inviarono alla riserva dei poliziotti navajo, da sempre ostili alla gente di Polk e Posey. Decisi a difendere Tse-ne-gat fino alla morte, i Paiute accolsero i poliziotti a fucilate e fuggirono verso ovest. Qualche mese più tardi, Polk e la sua banda di circa ottantacinque anime si erano trincerati negli angusti recessi della Navajo Mountain, un’aspra regione dello Utah meridionale compresa tra la Monument Valley e il fiume Colorado, e ad essi si aggiunsero subito dopo anche i guerrieri di Posey.
Quasi trent’anni dopo la resa di Geronimo, i giornali dell’Arizona e dello Utah tornarono a versare fiumi d’inchiostro sul rischio di una nuova guerra indiana alle porte, accusando apertamente Tse-ne-gat di terrorizzare e razziare le fattorie dello Utah meridionale con una forza di ben cinquanta guerrieri pronti a tutto.
Agli inizi del 1915, dopo un anno dalla morte di Juan Chacòn, venne finalmente presa una decisione per indurre alla resa quest’ultima banda di ribelli. Dalla Montezuma County e dalla cittadina di Bluff, il marshal Aquila Nebeker guidò una posse ( spedizione armata di civili ) formata da 26 cowboy e tre sceriffi alla volta della Navajo Mountain, deciso una volta per tutte a farsi consegnare il colpevole e a riportare gli indiani nella riserva.
La mattina del 25 febbraio, Nebeker ed i suoi uomini scovarono il campo di Polk nella valle di Cottonwood Gulch. L’operazione fu del tutto simile a molte altre campagne militari, condotte nel corso dell’800 contro gli indiani ostili. Il campo venne attaccato alle prime luci dell’alba, mentre i Paiute erano ancora avvolti nelle coperte all’interno dei loro wikyup. Nonostante la sorpresa, gli indiani reagirono prontamente all’attacco, grazie anche ad alcune sentinelle che erano riuscite a dare l’allarme. L’aria gelida e ferma della valle ammantata di neve, si riempì di grida, gemiti e colpi d’arma da fuoco che giunsero alle orecchie di un altro gruppo di ribelli, quelli di Posey, accampati sul San Juan, a breve distanza dalla banda di Polk. Senza perdere nemmeno un istante, un folto gruppo di quaranta guerrieri galoppò alla volta di Cottonwood Gulch e riuscì a sorprendere alle spalle la milizia di Nebeker, che fu costretta ad asserragliarsi in posizione difensiva. Le forze congiunte di Posey e Polk, unite alla pronta reazione di tutta la loro gente, avevano fatto fallire l’attacco dei bianchi. Considerata la gravità della situazione, Nebeker spedì un paio di miliziani a Bluff per sollecitare l’invio di altri volontari. La battaglia durò quasi due giorni, con gli uomini di entrambi gli schieramenti trincerati dietro le rocce ed impossibilitati a muoversi. L’arrivo tardivo dei rinforzi, una cinquantina di civili provenienti da Cortez e Monticello, pur alleviando le sofferenze di Nebeker e dei suoi, non fu risolutivo e si dovette giungere ad una tregua. Al termine della battaglia, bianchi ed indiani avevano riportato due morti per parte e numerosi feriti. Mentre Nebeker faceva ritorno a Bluff con in tasca un nulla di fatto, i Paiute abbandonarono Navajo Mountain e si dispersero per il deserto.
Alla notizia della battaglia, i giornali si riempirono di titoli allarmistici che gettarono nello scompiglio l’intera regione. Vennero ventilate possibilità d’insurrezione nelle riserve, razzie alle fattorie isolate e addirittura l’assedio della cittadina di Bluff, cosa che naturalmente non avvenne, ma tanto bastò per passare la mano e far intervenire l’esercito.
Toccò al vecchio generale Hugh L. Scott, eroe della guerra ispano-americana, togliere le castagne dal fuoco, e nel marzo del 1915 lasciò il suo quartier generale di Virginia City per dirigersi a Bluff.
Deciso a non forzare troppo la mano, si ripropose di usare la diplomazia prima ancora delle armi.


Una vista sulla San Juan County (Utah)

Di seguito riporto le sue parole nella descrizione del viaggio da Bluff a Mexican Hat, il luogo stabilito dell’incontro con i leader Paiute.
“Raggiungemmo Bluff il 10 marzo ed apprendemmo che gli indiani se n’erano andati verso Navajo Mountain, 125 miglia a sudovest di qui. Ci fermammo a Bluff un giorno solo e poi proseguimmo per Mexican Hat. Lungo il percorso incontrai dei navajo amici che decisero di precedermi e di avvisare i Paiute del nostro arrivo a Mexican Hat. Tra di loro c’era anche Bzoshe, il vecchio capo navajo che un anno fa aveva causato così tanti problemi al nostro Governo e che ora era diventato un amico fidato. Nel viaggio verso Mexican Hat ero accompagnato da Mr. Jenkins, l’agente indiano di Navajo Springs, Mr. Creel, Colonel Michie, ed il mio attendente da campo. Nessuno di noi era armato. Diedi ordine ad un amico Paiute, Jim Boy, di dire alla sua gente che li avrei incontrati qui. Alcuni di loro si avvicinarono al luogo dell’accampamento, ma fu solo sul finire del terzo giorno che tutti presero il coraggio di venire. Alla fine arrivò anche Posey, accompagnato da quattro dei suoi. Parlammo un po’ attraverso l’interprete. Era di sera e mi limitai a chiedere come stavano. Dissi loro che non mi sentivo affatto bene e che avrei preferito parlare il giorno dopo. Ci aiutarono a macellare un manzo ed offrimmo loro un buon pasto, il primo che ricevevano da molte settimane. Demmo loro anche delle coperte. Posey e i suoi uomini erano disarmati , ma ho ragione di credere che avessero nascosto le armi da qualche parte lì attorno… Il giorno seguente Polk, Tse-ne -gat ed altri 25 guerrieri vennero a trovarmi…. Io volevo aiutarli ma senza costringerli a fare cose che non volevano. Dopo aver parlato tra loro, dissero che erano disposti ad ascoltarci e a decidere per loro”
Polk e Posey si arresero al generale Scott e si consegnarono assieme ai rispettivi figli, Tse-ne -gat e Joss. I quattro furono caricati sul treno ed incarcerati a Salt Lake City in attesa del processo. Dopo qualche giorno però furono tutti scarcerati ad eccezione di Tse-ne-gat, che venne trasferito a Denver per rispondere del’omicidio dell’allevatore messicano Juan Chacòn. Durante l’udienza non emersero prove evidenti a suo carico e i giudici, spinti anche dai rappresentanti dell’Indian Rights Association e da alcuni mormoni che lo consideravano innocente, venne rilasciato. Tse-ne-gat si rallegrò a tal punto dell’esito del verdetto, che passò le giornate e le notti seguenti a far baldoria per le strade di Denver, dov’era già diventato un personaggio pubblico. Tra i molti aneddoti si racconta che diverse ragazze, invaghite dal mito dell’indiano selvaggio, facessero a gara nel concedersi a lui. Di certo fu visto da tutti frequentare i migliori hotel e ristoranti della città sempre in buona compagnia.
Per la gente di Polk e Posey invece, la resa comportò il ritorno alla Ute Mountain Reservation e l’abbandono dello stile di vita nomade attraverso i deserti e le montagne della San Juan County.
I Paiute rimasero confinati nell’ angusta riserva per quasi cinque anni, ma poi, a piccoli gruppi, ripresero a spostarsi verso ovest e in breve rioccuparono i vecchi territori nel quadrante nordoccidentale dei Four Corners.


Polk e Posey (primo e secondo a sinistra nella foto)

Agli inizi degli anni 20 , queste genti, che continuavano a seguire i modelli di vita tradizionali, si scontrarono più volte con gli allevatori a causa dei ripetuti furti di bestiame. La regione, arida ed inospitale, aveva risorse molto limitate per il sostentamento dei nativi e l’unica alternativa per la sopravvivenza di queste famiglie era integrare la caccia e la raccolta con la richiesta di elemosina e le razzie. Nel 1921, l’ennesimo di questi episodi portò ad uno scontro armato tra una posse di cittadini di Bluff e un gruppo di razziatori, che si concluse con un paio di feriti e la cattura di due donne indiane. Temendo una vendetta da parte degli Ute e dei Paiute, la cittadina di Bluff rimase in stato d’allarme per diverse settimane, ma non accadde nulla e tutto rientrò nella norma con il solito ripetersi di furti ed episodi di accattonaggio.
Due anni più tardi, nel febbraio del 1923, un paio di giovani appartenenti alla banda di Posey, assalirono un ranch dalle parti di Cahone Mesa; malmenarono il proprietario per rapinarlo, gli uccisero un vitello e bruciarono un ponte. Per non incorrere negli stessi problemi avuti nel 1915, i due giovani vennero convinti a presentarsi alle autorità. Lo sceriffo di Blanding, William Oliver, li prese in consegna e li incarcerò entrambi in attesa del processo ma fu costretto a rilasciarli dopo qualche giorno per i forti dolori addominali causati dal cibo avariato. I due fecero ritorno alle proprie famiglie con la promessa che sarebbero ritornati per il giorno del processo, e così avvenne. Nel frattempo, la cittadinanza esasperata aveva deciso di farsi giustizia da sé e alcune milizie armate vennero inviate nelle zone circostanti per ripulirle dagli indiani. Il loro compito era quello di catturarli e rinchiuderli in un campo circondato dal filo spinato. Non appena la notizia si diffuse, la maggior parte dei nativi sfuggì alla cattura cercando rifugio nelle zone più impervie delle montagne o nei recessi dei canyon. In quella regione non era certo un problema trovare dei nascondigli sicuri e furono ben pochi quelli che vennero catturati e finirono nel campo di prigionia.
Quando il 20 marzo iniziò il processo, i due ragazzi si presentarono in città mantenendo fede alla parola data e vennero accompagnati in tribunale dallo stesso Posey e da altri quattro indiani, interessati ad assistere al giudizio. Bishop, uno dei due che si era sentito male in carcere, non si era ancora ristabilito del tutto e zoppicava vistosamente appoggiandosi ad un bastone.
La prima parte dell’udienza si svolse in modo tranquillo, ma quando la corte si ritirò per l’aggiornamento pomeridiano, scoppiò l’incidente.
Lo sceriffo George Hurst, presente ai fatti, scrisse in seguito:
“Bishop camminava appoggiandosi ad un bastone, come se fosse ferito od invalido… Dopo aver ascoltato i capi d’accusa e la difesa, Bishop venne giudicato colpevole e affidato allo sceriffo Oliver per tutta la pausa pranzo. La corte si sarebbe riunita alle 3 del pomeriggio per la delibera della sentenza. Alla sospensione dei lavori, tutti si dileguarono per andare a mangiare e rimanemmo con gli accusati solo io, lo sceriffo Oliver, alcuni studenti e una banda di indiani ute visibilmente arrabbiati. Dopo aver persuaso il ragazzo a seguirlo senza fare tante storie, lo sceriffo Oliver montò in sella e si avvicinò a lui. All’improvviso il giovane gettò via il bastone ed afferrò le redini del cavallo dello sceriffo, strattonandolo con tutte le sue forze. A quel punto lo sceriffo estrasse la pistola cercando di fare fuoco, ma il grilletto s’inceppò. Bishop si aggrappò al pomo della sella con una mano e con l’altra cercò d’impossessarsi della pistola ; alla fine gliela strappò e con un balzo salì in groppa al cavallo montato da Jess Posey ( il figlio di Posey ) ed insieme fuggirono verso nord. Ad appena 200 yard di distanza, Bishop – che stava ancora armeggiando con la pistola – si voltò all’indietro e da sopra la spalla di Jess colpì nel collo il cavallo dello sceriffo, che stramazzò a terra”.


Una bella fotografia in cui ci sono Posey, Polk e Poke

Dopo questo rapido succedersi di eventi, Posey e gli altri galopparono via dalla città di Blanding per mettersi in salvo, ma una posse di cittadini si lanciò al loro inseguimento a bordo di una Ford Model T, sparando all’impazzata sui fuggiaschi. Posey fermò il cavallo, si voltò ed estrasse il suo fucile, uno Springfield 30-06. Mirò sull’autoveicolo e lo centrò in pieno arrestandone la marcia. Probabilmente fu la prima ed ultima volta di uno scontro a fuoco tra bianchi in automobile ed indiani a cavallo; la scena, degna di un film western crepuscolare, sigilla a suo modo la fine di un’epoca romantica ed irripetibile.
Posey radunò la sua gente e decise di abbandonare le terre della San Juan County per dirigersi nuovamente verso gli angusti canyon della Navajo Mountain. A seguito della rocambolesca fuga dei Paiute, i giornali del sudovest uscirono con testate a titoli cubitali e lo stesso Posey diventò il capro espiatorio di tutti i crimini commessi nella regione, dallo stupro all’omicidio.
Il 22 marzo, il Times Independent riportava la dicitura “Una banda di Paiute dichiara guerra ai bianchi nella città di Blanding” e proseguiva nel testo dell’articolo”… il Consiglio della Contea ha ufficialmente inoltrato al Governatore dello Utah, Sir Charles Mabey, la richiesta di autorizzare l’utilizzo di un aereo ricognitore per mitragliare e bombardare gli indiani ”
La richiesta non venne approvata, ma venne invece messa una taglia di 100 dollari sulla cattura di Posey, vivo o morto. Il reporter C.F. Sloane del Salt Lake Tribune si trovava a Blanding all’epoca dei fatti e scrisse una serie di articoli del tutto falsi e tendenziosi, del tipo “Blanding ha vissuto 36 ore di puro terrore, con guerrieri ute dipinti con i colori di guerra che galoppavano lungo le strade della città” Insinuò anche che Posey stava formando una gang per rapinare la San Juan State Bank grazie all’aiuto di sessanta guerrieri esperti nella guerriglia di montagna, in pronta attesa di un suo ordine di mobilitazione. Quando un cittadino di Blanding chiese spiegazione di queste fandonie ad un cronista, si sentì rispondere “Non siamo ancora pronti per andare via da qui e se non teniamo viva l’attenzione, ci arriva un telegramma per tornarcene a casa”.
Le voci di una nuova guerra indiana si erano diffuse a macchia d’olio e i cittadini di Blanding e Bluff organizzarono un’ imponente posse per dare la caccia ai ribelli.


Una foto che ritrae capo Posey

Cercarono anche di evitare interferenze con l’esercito e le alte autorità governative, che avrebbero potuto compromettere “la soluzione finale” della campagna.
Il gruppo di spedizione trovò ben presto le tracce della banda di Posey ed il giorno dopo entrò in contatto con loro a venti miglia da Blanding, nel cuore di un territorio desertico inciso da profondi canyon e corrugato da imponenti cuestas.
Gli indiani impegnarono gli inseguitori in una battaglia di retroguardia dalla cima di uno di questi rilievi, la Comb Ridge, per permettere alle donne e ai bambini di scappare e mettersi al sicuro.
Lo scontro, che durò diverse ore, rallentò gli inseguitori ma non cambiò l’esito della breve campagna e nel giro di qualche giorno, tutti gli indiani ribelli si arresero ai civili. La battaglia di Comb Ridge del 23 marzo 1923, fu l’ultimo scontro armato tra bianchi e nativi americani ( se si eccettuano gli incidenti di Wounded Knee del 1973 ) e fu anche l’ultimo combattimento durante il quale vennero usati archi e frecce. Nessun bianco rimase ucciso nello scontro, mentre l’unica vittima tra gli indiani fu Bishop, il ragazzo accusato dal tribunale di Blanding.
Posey – ferito gravemente al fianco da un proiettile sparato da un colono di nome Bill Young – riuscì a sottrarsi alla cattura e vagò tra le montagne fino a quando il suo corpo senza vita venne ritrovato sul greto asciutto del Comb Wash.
Erano 79 i Paiute prigionieri che furono portati a Blanding e messi in custodia cautelare. Vennero tutti rilasciati dopo qualche giorno, non appena fu accertata la morte di Posey, ritenuto il primo responsabile dell’insurrezione.
Il marshal Jesse Ward, che per primo scoprì il cadavere di Posey, decise di tumularlo in modo anonimo, per evitare morbose speculazioni da parte di curiosi e mitomani. Lo stratagemma fallì e il corpo venne dissotterrato per ben due volte da tristi personaggi che vollero scattare delle foto, nelle quali essi stessi posarono accanto alla salma ormai decomposta.
Dopo essere stati rilasciati, i Paiute di Posey ritornarono nell’area dell’Allen Canyon e furono loro assegnati 160 acri di terra da coltivare. Anche alla banda di Polk, protagonista degli scontri del 1915, vennero dati lo stesso numero di lotti nel Montezuma Canyon.


Da sinistra, Scotty e Posey con il Governatore Mabey e un altro non identificato

Il loro adattamento al nuovo stile di vita fu molto lento e graduale.
Accettarono di mandare i bambini a scuola e abbandonarono il loro vecchio stile di vita nomade, ma mentre tutti gli altri indiani abitavano già da qualche decennio all’interno di vere e proprie case, i Paiute continuarono a vivere in tende e wikyup per tutti gli anni ’20.
Nel 1930, il sovrintendente della Consolidated Ute Agency dichiarò che i nativi dell’Allen Canyon ” erano quarant’anni indietro rispetto a tutti gli altri ute sulla strada del progresso e della civilizzazione.”