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Schierati contro il loro stesso sangue

A cura di Marcello Floris

Custer e i suoi scout indiani
Le guerre indiane per la conquista dell’Ovest hanno certamente avuto delle specificità proprie, diverse da quelle a loro contemporanee tradizionalmente studiate sui libri di scuola. Diverse soprattutto dai conflitti del vecchio continente.
Un solo dato è davvero significativo: durante tutte le guerre indiane dal 1775 al 1890 morirono circa cinquantamila indiani, meno uomini di quanti ne morivano spesso in una sola battaglia durante la prima guerra mondiale. Combattimenti mordi e fuggi in uno sterminato campo di battaglia grande decine di volte l’Italia. Conflitti senza dichiarazioni di guerra e senza armistizi: privi, insomma, di molti dei connotati salienti delle guerre occidentali.
Giubbe blu da una parte, mandate alla frontiera dal “Grande Padre Bianco” di Washington, come talvolta veniva chiamato dai capi indiani il presidente americano, guerrieri audaci e senza divisa dall’altra. Non erano sempre truppe scelte, quelle americane: la guerra nell’Ovest veniva spesso quasi snobbata, soprattutto quando in concomitanza c’erano fronti che davano a generali e ufficiali ben altra visibilità, come la Guerra di Secessione.


La cavalleria americana

Si trattava comunque di divisioni dell’esercito statunitense, ben equipaggiate, preparate nelle Accademie militari come West Point e che potevano contare, a differenza dei guerrieri indiani, su ricambi freschi di materia umana ogni qual volta i palazzi del potere a stelle e strisce lo ritenevano opportuno.
Ma l’esercito yankee poté contare su un aiuto in più, che è peculiarità tipica dei conflitti del far west: quello degli scout indigeni.
Il tentativo di arruolare tra le proprie fila individui dello schieramento opposto non era certo una novità per la storia militare, ma è opinione diffusa che gli esploratori indiani furono decisivi per le sorti di tantissime battaglie e sicuramente fecero si che la “questione indiana” venisse risolta più velocemente di quanto non si potesse fare senza la loro collaborazione.
Uno scout di Fort Reno
Non erano semplici spie o informatori, ma piuttosto indiani “trasformati” in militari inquadrati alla maniera degli eserciti occidentali, numericamente consistenti, seppur ritenuti da questi di serie B.
Già ai tempi della prima spedizione di esploratori bianchi nel west, quella celebre di Lewis e Clark nel 1804, l’assistenza delle popolazioni indigene apparve fondamentale per le incursioni nelle lande più sconfinate dell’entroterra nordamericano.
Esperti del territorio, abili nell’individuare una pista, nel riconoscere una traccia o saper indicare l’ubicazione delle sorgenti d’acqua, erano profondi conoscitori, in sostanza, delle terre su cui hanno vissuto i loro antenati per generazioni, sia che si trattasse di Sioux, Navajo o Apache.
Non era difficile reclutarli: l’esercito, spesso conscio dei suoi limiti in quei territori sterminati e poco esplorati, conosceva però quanto fossero forti le rivalità fra tribù e nazioni indiane, così da poterle sfruttare a proprio favore.
Facendo leva su questo, perciò, si poterono assoldare guide indiane da impiegare al servizio delle truppe nelle campagne contro tribù nemiche e a volte anche contro bande della propria nazione. Per molti indiani combattere contro gruppi rivali al fianco dei soldati bianchi o degli indiani amici non faceva tanta differenza: non pensavano, insomma, di “tradire” la loro appartenenza al mondo pellerossa, ma di dimostrare la propria abilità e di sfidare i loro nemici storici, cambiando semplicemente casacca.


Uno scout Apache corre verso i soldati

In tempi in cui però le mandrie di bisonti si incontravano sempre più di rado e si iniziava a patire la fame, un pasto quotidiano sicuro era un ulteriore incentivo per i guerrieri indiani.
Inconsapevoli di favorire un destino che poi li avrebbe comunque parificati ai loro stessi nemici contro i quali combattevano, in un comune calderone di povertà e coercizione, centinaia di indigeni furono pertanto arruolati nell’esercito americano per poi venire essi stessi inghiottiti nel mondo delle riserve, privi della libertà della quale avevano goduto da generazioni e senza quasi mai ricevere neanche un riconoscimento o un trattamento di favore per il servizio reso.
Anzi, ci furono situazioni anche piuttosto dolorose come quella che coinvolse un gruppo di guide Apache, che, terminate le campagne per la cattura della banda di Geronimo, furono deportate in Florida e trattate da “ostili”, alla stregua degli stessi Apache che avevano combattuto i bianchi fino all’ultimo. Ma è solo l’esempio più eclatante di una lunga serie.


Uno scout Nez Perce

E bianchi che combatterono dalla parte degli indiani? Beh, è difficile immaginare soldati americani abbandonare la divisa per imbracciare il fucile al loro fianco.
E’ accaduto talvolta nella cinematografia, come nel film “Balla coi Lupi”, nel quale il tenente John Dunbar entrò in contatto con una banda di indiani delle pianure subendone il fascino fino a diventare uno di loro, opponendosi di fatto all’invasione degli occidentali. E’ peraltro una vicenda ispirata alla vera storia di una famiglia di americani che decise di dare aiuto ai Comanche, poi divenuti fantasiosamente Sioux nel film.
Così, soldati blu che impugnarono le armi per la causa degli indiani li incontriamo per lo più nelle storie romanzate: dal punto di vista militare le tribù che non accettavano le riserve dovettero far leva sui propri guerrieri.
Tuttavia, sono parecchi i casi documentati di bianchi che in un modo o nell’altro si schierarono dalla parte dei pellerossa, per amore o per senso di giustizia. Naturalmente le proporzioni sono diverse: per quanto riguarda i bianchi schierati in difesa di indiani andiamo a caccia di singole biografie, sul versante opposto i numeri sono sull’ordine delle centinaia.
Tra i comandanti dell’esercito che lottarono contro gli indiani, qualcuno riuscì perlomeno ad avere la coscienza di impegnarsi a mantenere le proprie promesse e a provare a proteggere i diritti lesi degli indigeni, arrivando quasi a pregiudicare le possibili benevolenze delle alte sfere militari e politiche. E’ il caso per esempio del generale Crook, un militare che si segnalò tra l’altro anche per i cospicui arruolamenti tra le sue fila di guide indiane.
Certo Crook combatté contro e non naturalmente al fianco dei pellerossa, ma rappresentò comunque un’eccezione tra i generali americani per il suo atteggiamento di umanità e rispetto nei loro confronti.
Alcuni bianchi stavano con gli indiani
Ma c’è sicuramente chi fece qualcosa di più. Uno di questi fu per esempio Tom Jeffords. Americano originario dello stato di New York, non fu mai un militare e non sparò mai una pallottola contro gli indiani, ma fu un uomo del West, dove visse buona parte della sua vita. Cosa fece però, in sostanza, per la causa degli indiani? Fu intanto amico del capo Apache Cochise, col quale stipulò un patto quando fu direttore della stazione di posta di Tucson, affinché i suoi corrieri non venissero attaccati dalle bande, anche se alcune fonti sostengono che in realtà questo patto non ebbe mai luogo. Certo è che in ogni caso Jeffords convinse Cochise, su richiesta del generale Howard, ad abbandonare il sentiero di guerra con la prospettiva di finire in una riserva amministrata proprio da lui stesso come agente.
Ma la sua amicizia con Cochise e gli Apache non si limitò solo a una semplice cordialità nella riserva. Più fonti documentano che Jeffords fece in modo di gonfiare il numero degli indiani presenti sotto la sua egida per far aumentare la quantità delle razioni e pare che riuscì anche a fornire armi ai suoi Apache che venivano utilizzate per scorribande oltre confine, in Messico. Protestò con i suoi superiori ogni volta che vedeva i diritti dei nativi calpestati, e la cosa non era infrequente, tanto che questo fatto non lo fece circondare di troppe simpatie tra i bianchi. Cercò in tutti i modi anche di evitare la morte al suo amico Cochise, malato, chiedendo le cure del medico dell’esercito, purtroppo senza successo, così che il capo Apache morì nella sua riserva nel 1874.
William Bent
Altra particolare esperienza fu quella della famiglia Bent. William Bent fu un altro tipico uomo dell’Ovest americano: mercante di pellicce e quant’altro fosse possibile commerciare nelle pianure immense dell’Ovest americano, in società col fratello Charles, fu un sincero amico dei Cheyenne. Il suo omonimo forte fu un centro di scambi tra commercianti bianchi e indiani, una sorta di feudo di relazioni amichevoli tra le due razze. La sua familiarità col popolo pellerossa andava oltre un semplice rapporto d’affari, tanto che ebbe più di un legame con donne indiane. La più importante fu la cheyenne Owl Woman, dalla quale ebbe quattro figli, tra cui Robert, che in occasione del massacro di Sand Creek fu costretto a guidare i soldati fino al campo e che successivamente fu accusatore del colonnello Chivington, principale fautore della strage.
Due dei figli di William, George e Charles, sostennero i “Dog Soldiers”, un gruppo di Cheyenne che volevano a tutti i costi resistere alla prepotenza dei bianchi.
Uomini che non tradirono la loro appartenenza alla razza bianca, forse agirono anche in difesa di loro interessi, ma che si esposero in prima persona per difendere gli indiani, li ammirarono, apprezzarono il loro stile di vita e lo preferirono forse a quello degli americani.