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Gli oscar del cinema western – 37

A cura di Domenico Rizzi
Tutte le puntate: 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22, 23, 24, 25, 26, 27, 28, 29, 30, 31, 32, 33, 34, 35, 36, 37.


PER AMORE DI UN CAVALLO

Più che cowboy, i protagonisti di “The Misfits” (“Gli spostati”) di John Huston, su soggetto del celebre drammaturgo Arthur Miller, sono dei cacciatori di cavalli, da vendere ad un’industria che produce carne in scatola per i cani. Sceneggiato dallo stesso Huston, con la fotografia in bianco e nero di Russell Metty e musiche dello specialista Alex North, ne sono interpreti 4 attori famosi: Clark Gable (Gay Langland) Marylin Monroe (Roslyn Taber) all’epoca moglie di Miller, Montgomery Clift (Perce Howland) e Eli Wallach (Guido).
La compagnia è assortita in modo assai eterogeneo: Gay è un ex mandriano divorziato, Roslyn una donna disorientata anch’essa divorziata, Perce un cowboy da rodeo e Guido un ex aviatore. Quando quest’ultimo, insieme a Gay, cattura un superbo esemplare di cavallo selvaggio in una valle desertica, Roslyn e Perce restituiscono la libertà all’animale, che viene di nuovo ripreso da Gay, ma l’ex cowboy lo lascia poi andare definitivamente, conquistando così il cuore della donna. Forse un gesto dettato dall’amore, oppure da una scelta di vita di un uomo che non vuole distruggere un sogno. A guadagnarci è senz’altro il cavallo che ha riottenuto la libertà, ma Roslyn ha probabilmente incontrato l’uomo che cercava e Gay la donna che gli sarà accanto negli anni futuri. Purtroppo per Clark Gable, il ritorno alla vita reale non gli è favorevole quanto la finzione cinematografica: due giorni dopo avere ultimato le riprese, viene colto da un grave attacco cardiaco e muore entro una settimana, all’età di 59 anni. Il film di Huston ottiene gli elogi del New York Daily News, ma pareri contrastanti e a volte negativi da altri critici. Per quanto riguarda gli introiti, pareggia appena la spesa di 4 milioni di dollari sostenuta.


The misfits

“Stringi i denti e vai”, “Il cavaliere elettrico” e “L’uomo che sussurrava ai cavalli” costituiscono altri tre aspetti dello sconfinato amore dell’uomo per il suo amico a quattro zampe.
Il primo, “Bite the Bullet” nell’originale americano diretto nel 1975 da Richard Brooks, è una testimonianza di amicizia virile e rispetto della vita del proprio mustang: uomini impegnati in una estenuante gara di 700 miglia attraverso pianure e deserti organizzata nel 1908 dal giornale “The Western Press”. Fra gli altri, vi partecipano Sam Clayton (Gene Hackman) e Luke Matthews (James Coburn) ex camerati nella Guerra di Cuba del 1898 nella quale sono stati protagonisti agli ordini del futuro presidente Theodore Roosevelt. L’impresa è ardita e massacrante e molti concorrenti si ritirano lungo il percorso, costretti talvolta ad abbattere le loro cavalcature. Clayton e Matthews arrivano quasi appaiati alla mèta, ma il cavallo del primo crolla a pochi metri dal traguardo, costringendo il cavaliere a condurlo a mano nell’ultimo tratto e facendosi così raggiungere da Matthews. Quest’ultimo, anziché aggiudicarsi una vittoria ormai sicura, smonta a sua volta e termina la gara insieme al suo amico.
Sceneggiato dallo stesso Brooks, con la bella fotografia di Harry Stradling jr. e la colonna sonora di Alex North, vede come protagonista femminile principale la bellissima Candice Bergen, nella parte dell’ex prostituta Miss Jones. Girato in località diverse del West (Colorado, New Mexico, Nevada) viene designato all’Oscar per il miglior sonoro e la miglior colonna sonora, ma vince solo la bronzea statuetta Wrangler della Western Heritage Awards, realizzando un discreto incasso di 11 milioni. Secondo qualche critico, è “il più bel western dedicato al cavallo, Un vero inno alla forza di questo animale protagonista della conquista del West” (“La conquista del West in 101 film”, a cura di Giancarlo Beltrame, Demetra, Colognola ai Colli, 1997, p. 113).
“Il cavaliere elettrico” (“The Electric Horseman”, 1979) è un altro dei film estremi di Sydney Pollack, regista influenzato da Arthur Penn e George Stevens, ma più in generale, per sua stessa ammissione dal movie americano classico, “soprattutto dal cinema degli Anni Trenta e Quaranta”. (Franco La Polla, “Sydney Pollack”, La Nuova Italia, Firenze, 1978, p. 4).


The Electric Horseman

Sceneggiato da Robert Garland, con la fotografia di Owen Roizman e le musiche di Dave Grusin, ha come interpreti Robert Redford, alla sua quarta esperienza con Pollak – “Ho meno da dire a lui che a chiunque altro, e lui ha abbastanza fiducia in me per non domandarmi perché rigiro una scena” (La Polla, op. cit., p. 7) – e Jane Fonda al top della sua carriera artistica. Lui, Norman “Sonny” Steele (Redford) è un cowboy che si esibisce per la TV in sella ad cavallo dopato senza scrupoli dagli organizzatori dello spettacolo; lei, Alice “Hallie” Martin (Fonda) una giornalista in cerca di uno scoop. Quando Sonny, stanco di apparire in scena coperto di lampadine luminescenti e soprattutto di assistere alla distruzione fisica del suo destriero, decide di fuggire portandosi via il purosangue Rising Star – un animale del valore stimato di 12 milioni di dollari – Hallie si pone sulle sue tracce e non demorde finchè non lo ha rintracciato. La coppia, inseguita dalla polizia, supererà una serie di ostacoli, incontrando la solidarietà della gente del West e intrecciando la prevedibile storia d’amore, ma alla fine il cowboy riuscirà a liberare il cavallo in una valle sconosciuta dove vivono altri mustang allo stato brado. Il film termina con Sonny che fa autostop e Hallie che racconta la sua storia in televisione, senza rivelare dove siano finiti cavallo e cavaliere. Spettacolare la scena dell’inseguimento del fuggitivo tallonato dalle auto della polizia, vera manifestazione di forza di un cowboy dei tempi passati che semina auto e moto imboccando sentieri ad esse impraticabili. La risposta del pubblico è eccellente (62 milioni di incasso, contro una spesa di circa un quinto) ma la critica si mostra piuttosto avara, con un’unica nomination per il miglior sonoro. Come consolazione, il film otterrà il Cinema Writers Circle Awards in Spagna.
“L’uomo che sussurrava ai cavalli” (“The Horse Whisperer”, 1998) vede ancora Redford in azione, questa volta anche nei panni di regista. Tratto dal best-seller omonimo dell’inglese Nicholas Evans, narra la storia di Annie MacLean (Kristin Scott Thomas) che, dopo un tremendo incidente subito dalla figlia Grace (Scarlett Johannson) investita da un camion insieme al proprio cavallo Pilgrim, tenta ogni strada per risollevare la ragazza dalla profonda depressione causatale dall’amputazione di una gamba. Dopo inutili cure, Annie decide di portare sia lei che l’animale – divenuto intrattabile in seguito allo shock dell’investimento – nel Montana, per chiedere l’aiuto di Tom Booker (Redford) che ha fama di saper trattare i cavalli con eccezionale abilità. L’esperimento alla fine riesce e Grace può tornare in sella a Pilgrim ormai recuperato, mentre sua madre, temporaneamente separata dal marito, si lascerà alle spalle, tornando all’Est, un amore breve ma indimenticabile con Booker anche dopo il riavvicinamento con il proprio consorte.
Come spesso accade, il film sfonda nelle sale (187 milioni di dollari di incasso, circa tre volte i suoi costi di produzione) ma non ottiene i riconoscimenti dovuti dalla critica. Candidato all’Oscar soltanto per la miglior canzone di Allison Moorer e Gwil Owen “A Soft Place to Fall”, ottiene altre 2 nomination al Golden Globe come miglior film drammatico e per la regia di Redford, ma rimane a digiuno, nonostante la sfilza di designazioni ottenute al Chicago Film Critics e ad altre premiazioni.

CUORI RIBELLI

Jack Burns non è l’unico anticonformista presentato dal contemporary western, che nel decennio successivo propone almeno altre tre figure analoghe, ribelli alle convenzioni e legate a solide ragioni di principio che impediscono loro di condividere l’avanzata di un progresso invasivo.
Steve Mc Queen è il protagonista di “Junior Bonner” (titolo italiano: “L’ultimo buscadero”, 1972) uno dei migliori lavori del “violento” Sam Peckinpah, questa volta attratto dal mondo dei rodei. Il cowboy Bonner torna a Prescott, Arizona, per prendere parte alla tradizionale competizione del 4 luglio, nonostante l’età non più verde e una menomazione ad una gamba riportata in una precedente gara. Trova i genitori separati, con il padre Ace (Robert Preston) che aspira ormai soltanto a trasferirsi in Australia, sperando di trovarvi una nuova Frontiera.


Junior Bonner

Quando scopre che il fratello Curly (Joe Don Baker) è diventato uno speculatore immobiliare lottizzando le sue terre dove sorgeranno condomini e ville, si scontra duramente con lui e si impegna al massimo per vincere il rodeo in sella ad un toro, utilizzando poi la vincita per realizzare il desiderio del padre. Infatti gli acquista il biglietto d’aereo per permettergli di andare in Oceania. Infine se ne va anche lui, riprendendo la sua vita da nomade dopo una relazione occasionale con una bella ragazza conosciuta per caso durante i festeggiamenti.
“L’ultimo buscadero”, ideato e sceneggiato da Jeb Rosebrook, con la scenografia di Edward S. Haworth, la fotografia di Lucien Ballard e le musiche di Jerry Fielding (notevoli le canzoni “Arizona Morning” e “Rodeo Man”, eseguite dall’autore Rod Hart) non ottiene riconoscimenti di rilievo (soltanto 2 nomination per Ida Lupino, nella parte di Elvira Bonner, madre di Junior, dalla National Society of Film Critics Awards e dalla New York Film Critics Circle Awards) e neppure un incasso sufficiente a coprire le spese, ma è da considerarsi uno dei più degni punti di riferimento del western contemporaneo. Secondo un critico, “il gusto del regista sa rendere il senso d’inutilità della vita e delle azioni preclare, avversando tutti i vantaggi morali delle maggioranze, nel segno della beffarda consapevolezza che tutto sarà stritolato dalla nostra stupidità. Quella di Peckinpah è una “scelta coerente di voler parteggiare per gli eroi della frustrazione…” (Valerio Caprara, “Sam Peckinpah”, La Nuova Italia, Firenze, 1978, p. 111).
“Arriva un cavaliere libero e selvaggio” (“Comes a Horseman”) diretto da Alan J. Pakula, è stato giustamente definito “l’epitaffio di un mondo, quello mitico della storia americana: quello dei pionieri e degli imperi rurali” (Giovanni Robbiano, “Alan Pakula”, La Nuova Italia, Firenze, 1984, p. 65) e vanta alcuni interpreti di indiscusso valore, quali Jane Fonda (Ella Connors) James Caan (Frank “Buck” Athearn) e Jason Robards (Jacob Ewing). Sceneggiato da Dennis Lynton Clark (fotografia di Gordon Willis e colonna sonora di Michael Small) si svolge nel Montana nel 1945, dove una donna erede di una fattoria, aiutata dall’anziano Dodger (Richard Farnsworth), deve vedersela con il prepotente Ewing, che le usò violenza quando aveva 16 anni.


Comes a Horseman

Ella cede l’uso di una parte dei pascoli a due cowboy reduci di guerra, Frank e Billy (Mark Harmon) il secondo dei quali verrà ucciso da sicari mandati da Ewing. Frank rimasto ferito nello scontro, viene curato da Ella, con la quale si metterà in società dopo la morte di Dodger. L’irriducibile Ewing, che sta trattando la cessione del proprio suolo per lo sfruttamento petrolifero, dopo avere eliminato il direttore della banca che intende espropriargli la terra, attacca la coppia con una banda di delinquenti, bruciando la fattoria della donna, ma nella battaglia finale soccombe, lasciando Ella e Frank liberi di crearsi una nuova vita insieme. Un film propositivo, che mira alla conservazione del vecchio West minacciato dalla modernità e da affaristi senza altri scopi che la ricchezza e il potere, trama che avrebbe esaltato i migliori scrittori della tradizione western. L’incasso, oltre 44 milioni di dollari, è di tutto rispetto e Richard Farnsworth ottiene una nomination all’Oscar quale miglior attore non protagonista, che gli viene però attribuito per 3 volte da altre associazioni. La Western Writers of America premia invece Dennis Lynnton Clark per il miglior soggetto e la sceneggiatura.

MESSICO, L’ULTIMA FRONTIERA

Il Messico ha sempre rappresentato una componente essenziale della storia del West, ma anche della letteratura e filmografia western.
Storicamente le vicende delle terre situate a sud del Rio Grande si intrecciano con quelle dei confinanti Americanos (detti anche Anglos o, più spregiativamente, Gringos) dai tempi della spedizione di Lewis e Clark e di Zebulon Pike, quando le autorità spagnole cercarono di contrastare l’espansione degli Stati Uniti verso occidente e sud-ovest. Nel 1835 sorsero i primi contrasti fra gli immigrati di lingua inglese del Texas e Città del Messico, sfociate poi nella guerra – con le battaglie di Alamo, Goliad e San Jacinto del 1836 – nell’indipendenza dello Stato della Stella Solitaria, annesso all’Unione un decennio più tardi. Nel 1846-48 esplose un nuovo conflitto fra repubblica messicana e Stati Uniti, terminata con una travolgente vittoria delle armate dei generali Zachary Taylor e Winfield Scott: il Trattato di Guadalupe Hidalgo sancì il passaggio di California, Arizona, Nuovo Messico e parte di Utah, Nevada e Colorado sotto la sovranità di Washington. La presenza dei Messicani sul suolo americano – vaqueros, pistoleri, ma anche famiglie di onesti contadini, cercatori d’oro e argento – fu una costante per tutti gli anni a venire, così come il Messico rappresentò, per ricercati e gente di malaffare, un sicuro rifugio. Durante le interminabili campagne contro gli Apache di Geronimo, Victorio, Nana e Naiche, il Messico consentì all’esercito degli Stati Uniti di varcare i propri confini per dare la caccia agli Indiani fuggiti dalle riserve, così come permise talvolta agli sceriffi federali di attraversare il confine per catturare rapinatori e delinquenti di ogni genere. Vi furono anche, nel corso delle varie rivoluzioni, Americanos che si misero al servizio dell’imperatore Massimiliano d’Asburgo – come i protagonisti dei film “Vera Cruz” e “Sentieri selvaggi” – o parteggiarono per i rivoltosi di Benito Juarez. Anche pellicole come “I professionisti”, “Il mucchio selvaggio”, “Cordura” e “Giù la testa” hanno come scenario il Messico travagliato da guerre civili, mentre in altri film quale “A sud-ovest” di Sonora”, il territorio d’oltre confine è teatro di uno scontro cruento per un cavallo conteso.
Per molta gente, una volta pacificata la Frontiera, le terre messicane, particolarmente la Sonora e il Chihuahua, rappresentarono la sua prosecuzione virtuale almeno fino alla metà del secolo successivo.
Di ambientazione messicana sono anche due film realizzati a molta distanza di tempo e risoltisi entrambi in un grosso flop commerciale.


Old gringo

“Old Gringo” di Luis Puenzo (1985) ricavato dal best-seller “Gringo Viejo” dell’autore panamense Carlos Fuentes, un libro molto letto anche negli Stati Uniti, offre una versione possibile della fine del celebre scrittore americano Ambrose Bierce (Gregory Peck nel film) scomparso in Messico nel 1914 durante una rivoluzione. Gli altri attori sono un’attempata Jane Fonda, nella poco convincente parte della vedova Harriet Winslow (“premiata” con Il Razzie Award quale peggior attrice) e Jimmy Smits, in quella del generale Tomàs Arroyo, che si prende la donna come amante. Disastroso l’incasso (soltanto 3 milioni e mezzo, a fronte di una spesa di 27) sebbene, per alcune sequenze e per l’interpretazione di Peck, il film meritasse qualche apprezzamento.
“Passione ribelle” è una riduzione cinematografica molto libera del grande romanzo di Cormac Mc Carthy “All the Pretty Horses” (“Cavalli selvaggi” in Italia) diretto da Billy Bob Thornton, sceneggiato da Ted Tally e interpretato da Matt Damon (John Grady Cole) Henry Thomas (Lacey Rawlins) Pènelope Cruz (Alejandra) Lucas Black (Jimmy Blevins).


Passione ribelle

John e Lacey si avventurano nel Messico per fare i cowboy alla vecchia maniera e strada facendo incontrano un giovane connazionale, Blevins, che per recuperare il proprio cavallo commette un delitto, cacciandosi in un sacco di guai. Quando John, ospitato insieme all’amico in un rancho, avvia una relazione con la bellissima Alejandra, figlia del proprietario, questi denuncia i due ragazzi alla polizia, facendoli arrestare. Il film si conclude, dopo il rientro negli Stati Uniti, con il racconto del giovane ad un giudice di avere ucciso un ragazzo come lui mentre era detenuto. Il magistrato si mostra comprensivo, riconoscendogli la legittima difesa.
A parte qualche scena, qualsiasi lettore di Mc Carthy si accorge che in questo film rimane ben poco dell’opera dello scrittore. Costato 57 milioni di dollari, ne recupera 18 e la critica gli attribuisce scarso valore, designandolo solo al Golden Globe per la colonna sonora.
La National Board of Review lo premia invece per la sceneggiatura di Ted Tally.