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Storia dei popoli del Nord-America – 3

A cura di Claudio Ursella
Tutte le puntate: 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13 (ultima).


LA BABELE DELLE LINGUE

Da sempre la lingua è uno degli elementi principali attraverso cui si caratterizza e si definisce un’identità etnica, e nel permanere nel tempo e nello spazio di uno specifico retaggio linguistico, possiamo trovare elementi che ci danno indicazioni sulla storia più antica di un popolo. Ancora all’inizio dell’era cristiana, la diffusione degli antichi Celti in gran parte d’Europa e fino all’Asia, avvenuta oltre due millenni prima, era testimoniata da una comune radice utilizzata dalle sponde dell’Atlantico fino all’Asia Minore.
Dalla Galizia a nord del Portogallo, ai Gaeli d’Irlanda, ai Gallesi della Britannia, ai Galli di Francia e Italia settentrionale, fino ai Galati dell’Asia Minore, popoli diversi e lontani, continuavano a mantenere nei secoli e nei millenni un comune retaggio linguistico.
Così come in Eurasia possiamo cercare nelle lingue odierne, i segni delle antiche migrazioni indoeuropee dall’Asia centrale, insieme al permanere di retaggi di popolamenti indigeni ancor più antichi, un’analoga operazione può essere tentata nel continente americano, anche se la mancanza di testimonianze storiche rende ogni ipotesi incerta e fumosa. Se i miti omerici, supportati dalle testimonianze archeologiche, ci permettono di far coincidere l’avvento delle civiltà micenee successiva a quelle minoiche, con l’arrivo di nuovi invasori indoeuropei dal nord e dall’est, offrendoci anche l’opportunità di una datazione relativamente certa, molto più difficile è individuare una relazione certa tra l’emergere della cultura di Adena nelle zone boscose orientali, ed una eventuale migrazione di popoli di lingua Iroquaian dalle regioni dell’ovest; e questo per parlare di pochi secoli prima dell’era cristiana, senza spingersi oltre nei millenni.
A ciò si deve aggiungere che dal punto di vista linguistico l’America, e il Nord America in particolare, rappresenta una vera e propria babele, in cui non sempre è facile cogliere affinità nel linguaggio tra popoli limitrofi e con una medesima cultura; specialmente in alcune regioni dell’ovest, piccole popolazioni parlano lingue isolate in cui è quasi impossibile cogliere alcun riferimento ad una comune origine con altri gruppi. Tenendo quindi conto di queste difficoltà, la classificazione delle lingue parlate dai nativi del Nord America, può quindi essere uno dei pochi strumenti per iniziare a definire e differenziare, quell’indistinto aggregato di orde di cacciatori che fa la sua comparsa nel Nuovo Continente alla fine del pleistocene, e quindi per ricostruire le vicende dei popoli storici fino alle loro lontane origini.
Il tentativo di fare luce nella storia più antica del continente americano a partire dallo studio delle lingue, è stato fatto da alcuni glottologi, che hanno ipotizzato una costante di variazione linguistica, tale da permettere, una volta individuati gli elementi strutturali comuni a più lingue e dialetti, di fare ipotesi sui tempi in cui tali lingue e dialetti si siano separati e differenziati da un ceppo comune. Tale ipotesi di ricerca, nota come “glottocronologia”, non convince comunque la maggior parte degli studiosi, affidandosi a modelli troppo rigidi e astratti e poco verificabili.
Comunque a prescindere dalle arditezze della glottocronologia, è certo lecito ritenere che popoli con lingue comuni o simili, abbiano avuto un comune passato in tempi più o meno remoti, e che tale passato comune sia più o meno remoto in rapporto alle variazioni che si sono prodotte nei diversi linguaggi; da questo a definire con certezza delle datazioni, il cammino è comunque lungo.
Un’altro elemento da considerare è l’estensione più o meno omogenea o frammentata sul territorio dei diversi gruppi linguistici; è possibile ipotizzare che popoli con lingue evidentemente affini, che occupano in modo omogeneo una regione, vi si siano stanziate in tempi più recenti di popoli con lingue la cui affinità è meno evidente e la cui unità territoriale è stata frammentata. D’altra parte in astratto, è impossibile negare la possibilità che singoli gruppi isolati si siano insediati posteriormente fra popolazioni con una strutturata coesione linguistica e territoriale, cosa che in qualche caso è effettivamente accaduto.

A rendere comunque estremamente difficile la ricostruzione di precise relazioni tra affinità linguistica e origine comune di diversi gruppi etnici, è soprattutto la scarsità di riscontri certi: spesso si tratta di studiare un numero limitato di parole, quel poco che rimane di lingue ormai estinte, e non è raro il caso in cui una teoria si basi sulla presunta assonanza di un numero limitato di termini. C’è poi da aggiungere che anche quando un’assonanza di termini è effettiva e reale, essa può non essere conseguenza di una comune origine linguistica, ma piuttosto della diffusione di una parola o di una radice etimologica, tra due o più gruppi di diversa origine, in conseguenza di scambi e contatti. Sulla scorta di queste e altra considerazioni è possibile usare con prudenza il vasto e complesso tema della classifficazione e distribuzione dei gruppi linguistici in Nord America, come il terreno in cui cercare le tracce più remote del popolamento del continente, senza la pretesa di trasformare tali tracce in una pista certa e sicura.
Un ultimo elemento di cui tenere conto è di carattere geografico, almeno se è possibile ritenere che in un generale movimento migratorio da nord verso sud, le popolazioni di stanziamento più recente occupino territori posti più a nord di quelle con stanziamento più remoto; ciò è effettivamente vero per gli Inuit e gli Atapaskan, ma più difficilmente verificabile per altri gruppi e popolazioni.
Il primo tentativo di porre ordine nella babele di lingue e dialetti parlati in Nord America, fu compiuto nel 1836 e poi ancora nel 1848 da Albert Gallatin, un importante uomo politico americano, con l’interesse per l’etnologia e le lingue dei popoli nativi. Le classificazioni di Gallatin scontavano comunque una non completa conoscenza del continente e delle genti che lo abitavano e per una panoramica completa dei tanti idiomi parlati dai nativi si dovette attendere il 1891, con gli studi dell’antropologo John Wesley Powell, il quale classificò ben 58 gruppi linguistici diversi: alcuni di questi gruppi, comprendevano lingue parlate da decine di tribù in vaste aree del continente, altri comprendevano un singolo idioma, parlato da un piccolo gruppo di poche centinaia di individui; in alcuni casi era possibile individuare relazioni fra più gruppi, in altri le differenze erano maggiori che fra l’italiano e il finlandese. La classificazione di Powell, sostanzialmente corretta, offriva comunque pochi elementi per costruire relazioni fra i diversi gruppi attuali, e quindi per individuare quei riferimenti comuni, sulla base dei quali tentare di illuminare il passato oscuro dei primi abitanti del continente. Da allora molti glottologi e linguisti hanno approfondito gli studi, orientandosi a fatica fra le scarse tracce di lingue estinte o parlate ormai da pochi anziani, alla ricerca di connessioni e relazioni, in grado di condurre i 58 gruppi di Powell, ad un più limitato numero di grandi famiglie linguistiche; tali studi hanno prodotto negli anni alcune certezze, molti dubbi e un numero ancor maggiore di polemiche.
Di fatto dopo che per molti decenni la tendenza è stata quella a costruire classificazioni basata sul presupposto di pochi ceppi comuni originari, a cui riferire la grande varietà di lingue e dialetti, operando a volte forzature e costruendo ipotesi su scarsi elementi, da alcuni anni a questa parte, una corrente di studiosi, che punta ad un maggiore rigore nella ricerca delle comunanze linguistica, sta mettendo in discussione le ipotesi del passato. Di fatto ad oggi esistono due correnti di pensiero, una che porta all’estreme conseguenze la ricerca di origini comuni e giunge a postulare una grande famiglia di lingue Amerinde, l’altra che nel contrastare ogni facile generalizzazione, presenta un quadro estremamente frammentario del panorama linguistico del continente americano. In particolare questa seconda corrente di pensiero, ha messo in campo il concetto di “area linguistica”, diverso da quello di “famiglia linguistica”, per indicare quelle aree geografiche in cui elementi linguistici comuni sono il prodotto non di una comune origine, ma di scambi e relazioni tra diversi gruppi umani.


Raccontare storie con il linguaggio dei segni

La definizione del problema dell’origine delle lingue, può offrire indicazioni circa le modalità con cui il continente americano fu popolato, alla luce di diverse ipotesi, così come formulate dal linguista Lyle Campbell, uno dei principali oppositori delle facili aggregazioni di lingue diverse in “grandi famiglie”.
Lyle Campbell elenca le seguenti possibilità: a) una singola migrazione di genti parlanti un’unica lingua, che poi si sarebbero differenziate dopo il trasferimento in America; b) un numero limitato di migrazioni di gruppi parlanti lingue diverse; c) molte migrazioni successive di gruppi con lingue diverse; d) un’unica migrazione di popoli parlanti lingue diverse. L’ipotesi “a” è certamente non corretta, dato che è già dimostrato che almeno gli Atapaskan sono giunti separatamente da altri gruppi; l’ipotesi “b” è quella prediletta dai teorici delle “grandi famiglie linguistiche”; le ipotesi “c” e “d”, assumendo che la grande differenziazione linguistica sia precedente all’arrivo in America, pone il problema di cercare le relazioni linguistiche più antiche, addirittura in Asia e in tempi ancor più remoti, cosa ovviamente impossibile. In realtà relazioni tra lingue euroasiatiche e americane, sono certe solo per ciò che riguarda Inuit e Aleutini, e ipotizzabili per gli Atapaskan, entrambi giunti in America in tempi più recenti; d’altra parte la mancanza di relazioni certe tra le lingue parlate in America e in Asia, non implica necessariamente una totale mancanza di rapporti, e potrebbe essere spiegata semplicemente con l’estinzione in Asia, di linguaggi che invece in America sono vissuti fino ai giorni nostri.
Non è questo l’ambito in cui approfondire una polemica tra specialisti, preferendo in questa sede limitarci a considerare più probabile l’ipotesi di un primo popolamento avvenuto in tempi remoti, e di cui in Nord America sono rimaste poche o nessuna traccia, ed una più massiccia e più tarda migrazione ad opera di pochi gruppi di lingua diversa, che a più riprese, alla fine del pleistocene, riuscirono a trasferirsi in America. In tal senso la scelta di ipotizzare un certo numero di ceppi originari comuni, intorno a cui costruire l’ipotesi di “grandi famiglie linguistiche”, è certamente più ricca di implicazioni e opportunità, rispetto a quella, forse più rigorosa, che però fotografando un quadro di grande frammentarietà, ne rimanda l’origine all’epoca precedente l’arrivo in America, di fatto rinunciando a tentare di offrire delle ipotesi sul passato remoto dei nativi americani.
Accettando quindi l’ipotesi delle “grandi famiglie”, il primo riferimento è la classificazione concepita da Edward Sapir, alla fine degli anni ‘20 del XX sec.; tale classificazione che ha di fatto concepito un modello per una intera scuola di pensiero, era basata sulla individuazione di sei grandi famiglie linguistiche (Na Dene, Algonchino Wakash, Hoka Siouan, Uto Azteco Tano, Macropenutian, Eskimo Aleuta), ognuna estesa in vaste porzioni del Nord America; tale approccio rendeva possibile produrre relazioni tra gruppi tribali lontani migliaia di chilometri, e rendeva implicitamente possibili origini comuni tra genti di culture diversissime. Alla fine degli anni ‘50 nuove scoperte nello studio delle lingue degli indiani dell’est degli Stati Uniti, hanno obbligato a riconsiderare le possibilità estreme della classificazione di Sapir, così che anche gli studiosi che si sono mossi nel suo solco hanno dovuto eliminare alcune eccessive generalizzazioni, e rinunciare a fare attrubuzioni certe per alcune lingue isolate. Alla metà degli anni ‘60, una conferenza dei maggiori studiosi delle lingue dei nativi, ha rivisto il modello di Sapir, rinunciando alla definizione in un unico gruppo delle lingue Hoka e Siouan e Algonchino e Wakash, individuando quindi due gruppi il Macrosiouan e il Macroalgonchino, quest’ultimo comprendente anche le lingue parlate a est del basso Mississipi, da Sapir inserite nella famiglia Hoka Siouan. Usando tale classificazione come bussola per orientarsi in una materia intricata, è possibile individuare alcuni importanti aggregati, i quattro gia proposti da Sapir (Eskimo Aleuto, Na Dene, Macropenutian, Uto Azteco Tano), tre risultanti dalle modifiche assunte alla metà degli anni ‘60 (Macrosiouan, Macroalgonchino, Hoka), più un’area linguistica Mosan, composta da alcuni gruppi linguistici (Wakash, Salish, Chimakuan e forse Kootenay) di cui non è stata individuata una comune origine, ma di cui sono comunque certe le relazioni; a queste grandi aggregazioni vanno aggiunte alcune lingue marginali, che Sapir inseriva in grandi famiglie, ma sui quali oggi la maggior parte degli studiosi sospende il giudizio; una novità più recente è rappresentata dall’attribuzione quasi certa al gruppo delle lingue caraibiche, delle lingue parlate da alcune tribù della Florida meridionale oggi estinte.

Importante è constatare che tra tutte le famiglie linguistiche del Nord America, poche sono collegate con lingue e dialetti dell’America Centrale e nessuna ha relazioni con lingue e dialetti del Sud America, a dimostrazione che le genti che colonizzarono il Nord America, lo fecero in tempi e con modalità diverse da quella che occuparono il sud del continente; interessante potrebbe essere invece cercare una relazione tra quelle lingue isolate e non assimilabili alle grandi famiglie linguistiche del Nord America, e le lingue del Sud America, relazione che se trovata, potrebbe individuare i gruppi indiani del Nord America che discendono dai primi colonizzatori che compirono la migrazione prima della fine del pleistocene.
Comunque la suddivisione linguistica dei nativi americani in poche grandi famiglie linguistiche, può far immaginare uno scenario della migrazione alla fine del pleistocene, di cui furono protagonisti non più di 5 o 6 gruppi umani, ognuno costituito da diverse bande famigliari tra loro collegate dall’idioma comune, che compirono separatamente il cammino e raggiunsero separatamente le regioni oltre la la calotta glaciale nell’arco di 1.000 2.000 anni
Da una semplice fotografia della diffusione geografica di queste grandi famiglie ed aree linguistiche, appare immediatamente evidente una divisione del Nord America in tre grandi aree, la prima settentrionale, coincidente con le regioni artiche, l’Alaska e il Canada, fino ai fiumi Saskatchewan e Fraser, sostanzialmente omogenea, dominata dalla presenza di popoli parlanti lingue Eskimo Aleutine e Na Dene, giunte in tempi relativamente recenti, la seconda occidentale, comprendente tutta la regione a ovest delle Rocky Mountains e a sud del fiume Fraser, dove sono presenti ben quattro dei grandi aggregati linguistici (Macropenutian, Hoka, Uto Azteco Tano, Mosan), tra cui quelli con una maggior grado di differenziazione (Hoka, Macropenutian, Mosan), oltre ad un buon numero di gruppi isolati, ed infine una zona orientale, compresa tra l’Atlantico e le Grandi Pianure, dove sono presenti due sole grandi famiglie linguistiche, sostanzialmente omogenee (Macrosiouan e Macroalgonchino), oltre ad alcuni gruppi isolati; la regione delle Grandi Pianure occidentali, ai piedi delle Rocky Mountains, fa da spartiacque tra area orientale e occidentale, e di essa sappiamo che solo in tempi recenti è stata occupata da genti provenienti da altre aree (Atapaskan da nord, Uto Azteco Tano da ovest, Macroalgonchini e Macrosiouan da est), ma che forse fu, in tempi remoti, la via di una corrente migratoria di genti parlanti lingue Macrosiouan.
Guardando a questa situazione è possibile ipotizzare che delle due vie aperte alla fine del pleistocene attraverso cui mosse la colonizzazione del continente americano, quella che passava attraverso le valli montane a ovest delle Rocky Mountain, ha probabilmente visto il passaggio di più orde nomadi, che separatamente si sono spinte verso sud, diffondendosi in tutto l’ovest, fino al limite naturale delle alte vette delle Rocky Mountains; il carattere del territorio, costituito in buona misura da grandi vallate fluviali separate da catene montuose, ha certamentee favorito l’isolamento e la differenziazione linguistica tra i vari gruppi. Più a est, il corridoio Yukon Mackenzie, è stato probabilmente la porta d’accesso per gli antenati dei popoli parlanti lingue Macroalgonchine e Macrosiouan, diffusisi in tutta la regione orientale, una regione sostanzialmente pianeggiante, a parte la catena dei monti Allegheni, che ha invece favorito il mantenimento di rapporti e relazioni tra i diversi gruppi e quindi, un comune patrimonio linguistico. Va notato che anche nella regione settentrionale, la divisione geografica delle lingue Na Dena, riprende le antiche vie d’accesso, con due popoli (Tlingit, Eyak) stanziati lungo la zona costiera, e gli Atapaskan, la cui diffusione segue le valli dello Yukon e del Mackenzie.
Un’ultima considerazione di ordine generale rispetto al tema del popolamento del continente americano, riguarda la direzione dei movimenti migratori, anche alla luce di alcune”leggi generali”. In base a quanto ci è noto della storia euroasiatica è possibile affermare che talune direttrici migratorie, rimangono costanti per lunghi periodi: il movimento di popoli dalle steppe dell’Asia cntrale si è protratto per divesi millenni prima dell’era cristiana, a partire dai popoli di stirpe Indoeuropea, continuando fin nel medio evo, con le orde degli Avari e di genti di stirpe Turca. Analogamente possiamo immaginare che pur nell’ambito di una certa casualità negli spostamenti dei primi gruppi umani giunti in America, la tendenza ad uno spostamento da nord a sud fu certamente prevalente, almeno fino al definitivo ritrarsi dei ghiacci; in effetti tale movimrnto migratorio da nord a sud, ancora coinvolgeva gruppi Atapaskan nel IX secolo dell’era cristiana.
Successivamente al ritrarsi dei ghiacci, i fenomeni divengono più complessi, altri fattori intervengono a condizionare i movimenti migratori: così il modificarsi delle condizioni climatiche determina da un lato la possibilitè di colonizzare nuove aree, ma dall’altro altera l’ambiente della megafauna del pleistocene, già sottoposta allo stress della pressione venatoria dei cacciatori umani. E’ l’inizio di un lento ma inevitabile cambiamento, il paradiso del nuovo mondo non è più una terra vergine, la disponibilità di risorse alimentari, garantito dalla caccia inizia a ridursi, obbligando i diversi gruppi umani a nuovi adattamenti; è il momento in cui l’omogeneo flusso migratorio da nord verso sud, prende altre vie e le bande di cacciatori nomadi, forse a quel tempo ancora abbastanza omogenee dal punto di vista linguistico, iniziano a compiere percorsi diversi, alcune si isolano, altre si spostano in nuovi ambienti, ma ancora una volta è possibile avanzare ipotesi sui flussi migratori, a partire dal dato indiscutibile del condizionamento che l’orografia e l’idrografia impone a gruppi nomadi che si spostano a piedi, senza l’ausilio ne di animali ne di tecnilogie.
Così le valli fluviali possono divenire le autostrade della preistoria, luoghi in grado di accompagnare le peregrinazioni di comunità umane, offrendo acqua, quindi pascolo, quindi selvaggina, e infine terre coltivabili; laddove queste “autostrade”esistono, i processi migratori tendono a prodursi con una sorta di ordinata successione, come probabilmente avvenne nelle regioni orientali, dove prima la linea della glaciazione, poi le valli fluviali del Missouri e dell’Ohio videro passare gli antenati degli Algonchini, dei Muskogee, dei Siouan, degli Iroquaian. Al contrario dove queste “autostrade” non esistono, come nelle vallate delle Rocky Mountains, o intorno ai laghi che un tempo occupavano il Great Basin, le dinamiche migratorie sono più complesse, frammentate e più difficilmente ricostruibili; ed è in queste zone che anche la debole traccia della lingua si perde in una “babele”, in cui è difficile anche avanzare vaghe ipotesi.