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Nella riserva Sioux con i nuovi guerrieri

A cura di Vittorio Zucconi

L’accesso a Pine Ridge
Se ci si spinge abbastanza a fondo dentro il cuore dell’ America, si può vedere l’ orizzonte storico americano ripiegarsi su se stesso. Le grandi autostrade diritte si trasformano in piste sbrecciate, i camion cromati divengono carcasse arrugginite, la prateria lascia il posto alla roccia e i volti diventano scuri e ruvidi.
In un paesaggio lunare al centro geografico e storico del paese, accanto ai silos dei missili nucleari, a pochi chilometri da dove volano i bombardieri, finisce l’America dell’ uomo bianco e comincia l’America delle ombre rosse. Niente più di un cartello di legno e di un saloon dilapidato che dal 1906 proibisce l’ingresso agli indiani annunciano che stiamo abbandonando la dimensione della tecnologia, del Duemila, e dei cow-boys per entrare nel mistero tragico e bellissimo di una riserva.
Non una riserva qualsiasi, addomesticata come quelle d’Arizona dove i gloriosi guerrieri Navajo portano in furgone le loro donne ai crocicchi per vendere ai turisti collanine fabbricate a Taiwan. Come un Gulag senza sbarre Questo territorio gigantesco e rabbrividente che si stende per 7 milioni di ettari nel South Dakota attorno a colline e altipiani che i francesi chiamavano Terres Mauvaises e gli americani, con traduzione letterale, Badlands, è il gulag senza sbarre del popolo più coraggioso, più testone, più ribelle e più povero della nazione rossa: gli Oglala Lakota, meglio noti al cortese pubblico delle sale cinematografiche come i temibili Sioux.


E’ facile vedere in giro carcasse d’auto

Fisicamente non è difficile entrare nella terra dei Sioux. Bastano per riuscirci una carta stradale, quattro ammortizzatori robusti e lo stomaco per sopportare ore e ore di paesaggio brutale, geografico, ma soprattutto umano. Qui non c’è bisogno di consultare gli annuari del censo per capire che la miseria dei ventimila discendenti di Cavallo Pazzo, di Nuvola Rossa, di Toro Seduto e di Alce Macchiata è abietta, con un reddito medio annuo a testa di 2.000 dollari, tre milioni e mezzo, il più basso degli interi Stati Uniti. Il grido della povertà è altissimo e neppure il vuoto lo diluisce. La civiltà americana degli oggetti e del nuovo, lascia posto a cimiterini di vecchie carcasse d’auto in vari stadi di cannibalizzazione che circondano ogni casa. I temibili Sioux comprano rottami esausti, di venti, trenta anni, per pochi dollari (ma sempre troppi) dai commercianti bianchi. Li adoperano finché reggono e poi li spogliano di parti da trapiantare su altri rottami. La terra sacra del vento, dell’aquila e dello spirito è diventata il cimitero degli elefanti dove vengono a morire i pachidermi prodotti a Detroit. La pavimentazione è inesistente. Si cammina strappando i piedi da un fango appiccicoso e continuo che fa rimpiangere il gelo. Non si vede quasi nessuno in giro, non bambini, pochissimi uomini, mai una donna.


La povertà si può toccare con mano ovunque

Ho intravisto solo una ragazza correre lontana dietro un branco di cavalli bradi, non so se per gioco o per bisogno. Entrare nella Pine Ridge Reservation, la riserva degli Oglala-Lakota-Sioux è facile. Il difficile è atterrare fra la gente, uscire dalla propria auto-astronave e parlare con gli abitanti del pianeta rosso. Arrivare in una riserva indiana è come arrivare a Corleone: non si parla con i pezzi da 90 locali cercandone il nome sull’ elenco del telefono. Soltanto la catena delle raccomandazioni, la garanzia dell’amico dell’amico, consente di spezzare l’omertà rossa. E quando finalmente, dopo ore di telefonate e di ricerche, siedo davanti a un capo dal nome straordinario, Byrgil Kills Straight, Ammazza Dritto, capisco che neppure sedersi allo stesso tavolo, e fumare insieme una sigaretta di pace, garantisce ancora il colloquio. Kills Straight, un uomo di 47 anni dagli occhi diffidenti e dalle lunghe trecce alla maniera antica, è un attivista, un militante, ma soprattutto un educatore, che mi fa visitare la scuola che egli dirige, un bell’edificio nuovo dall’atrio costruito a forma di testa di bufalo stilizzata. Mi porta, gentilissimo, al piccolo collegio universitario della tribù, di cui è giustamente orgoglioso. E che, scopro con qualche meraviglia, ha fra i suoi direttori un newyorkese di origine toscana, da Bagni di Lucca. E fra i suoi studenti un gruppo di svizzeri. Ma ancora il capo non parla. Io domando, lui evade. Mi mostra una lettera del Centro studi sulla cultura indiana di Perugia, che lo invita per un convegno internazionale a maggio.


La gente si arrangia come può

Trova modo, con garbo, di mettere in fuga ogni sospetto di rusticità, raccontandomi di aver viaggiato in Svizzera, in Austria, in Israele, alle Nazioni Unite, per studiare, e per discutere della causa indiana. E non parla. A ogni domanda sfodera un interlocutore diverso: prima il direttore italo americano dell’università Oglala. Poi un giudice della corte tribale, un bravissimo, eloquente avvocato che di cognome fa Cavallo Veloce. Lui mi guarda, e tace. Non so che cosa faccia finalmente scattare in lui il meccanismo, quale frase, quale mio gesto involontario. Ma d’un tratto, dalla bocca di Ammazza Dritto sgorga un torrente di confidenze, di parole e di racconti che mi lascia prima sommerso, poi scettico e infine commosso. E’ vero dice rivelando un sorriso dolce, quasi mite, sotto la maschera sospettosa io sono uno dei leaders del gruppo tradizionalista Sioux, di quelli che respingono l’integrazione nel mondo degli uomini bianchi, che sognano un’ultima, grande battaglia per ridare dignità economica e morale ai Lakota. Molti, fra i bianchi ma anche all’interno della stessa riserva, fra i leaders della famiglia pellerossa d’America oggi in continua crescita e arrivata a quasi un milione di persone fra tutte le tribù, lo criticano, lo accusano di allucinazioni, di vittimismo, di testardaggine.


Pine Ridge d’inverno

Ma lui risponde guardandosi intorno: un secolo di trattati con l’uomo bianco, di burocrazie federali, di parole date e rimangiate ha lasciato la gente Sioux con l’85 per cento di disoccupati e una cultura di assoluta dipendenza dall’elemosina governativa. Questa è integrazione? Neppure la terra sulla quale stiamo da migliaia di anni è nostra, perche l’ultima parola sulla destinazione delle riserve spetta sempre ai nostri tutori dell’Ufficio per gli affari indiani di Washington. Ci trattano come bambini. O come uomini vecchissimi, che è la stessa cosa. Tra silenzio e indifferenza. Da qualche anno, in silenzio e nell’ indifferenza dei bianchi, i ranghi degli irredentisti indiani hanno cominciato a gonfiarsi. Una generazione fa erano una frangia. Oggi, qui nella riserva di Pine Ridge, sono più del 40 per cento. Giovani guerrieri dice con orgoglio Ammazza Dritto abbandonano le città dei bianchi e tornano, volontariamente, a vivere nelle riserve con le loro famiglie. Ragazzi che sognavano di diventare come i bianchi chiedono di imparare il Lakota, il Nakota e il Dakota, le tre lingue della nazione Sioux che quasi nessuno parlava più. Oggi le insegnano all’università. E dopo il reaganismo, la riduzione dei finanziamenti pubblici, la deregulation molti hanno scoperto che, una volta di più, non ci si può fidare delle promesse dell’uomo bianco. Ho capito male, o ha detto proprio giovani guerrieri?. Sì, proprio guerrieri. Scopro che anche l’avvocato Cavallo Veloce è un guerriero, dietro la sua cultura giuridica e il rotondo inglese universitario, che partecipa con altri giovani guerrieri a cavalcate simboliche, a marce rituali e a cerimonie non proprio segrete, ma riservate.


L’ingresso di una scuola

Ma guerriero perché di guerra? Sorride: No, non la rivincita militare, non la vendetta. La nostra guerra sarà il sacrificio collettivo di qualche centinaio, forse di qualche migliaio di noi. Andremo a morire in un’ azione dimostrativa, un suicidio collettivo che dica al resto dell’ America e del mondo che la nazione indiana non accetterà mai di vivere in questo stato di abiezione, dobbiamo impedire che l’America si dimentichi di noi, attirare i mass media. Dunque dovrò tornare qui come cronista, un giorno, a raccontare il nuovo massacro dei Sioux? Lo spero interviene Cavallo Veloce. Sarà il ritorno di sangue a Wounded Knee, la collinetta a pochi chilometri da qui dove si consumò l’ ultima strage di Sioux, nel 1890 e dove, vent’anni fa, ancora i Sioux tentarono una rivolta simbolica contro gli Usa. Da anni, i giovani guerrieri sotto la guida di Ammazza Dritto organizzano cavalcate simboliche, e danze rituali, a Wounded Knee, laddove i cavalleggeri del Settimo spararono sopra un accampamento disarmato per stroncare le ultime velleità di ribellione. I vecchi raccontavano che le donne si coprivano la testa con le coperte, per non vedere arrivare i colpi, dice Ammazza Dritto seduto nella sua casetta, fra televisori a colori, piumaggi, lavastoviglie e bastoni sacri. Dunque, i tradizionalisti aspettano il momento per tornare a battersi. E chi li guiderà, nella grande rivolta Sioux? Non ha importanza. Voi bianchi siete sempre stati abbagliati dall’idea del grande capo, di Cavallo Pazzo o di Toro Seduto. Ma il grande capo è un’invenzione vostra, come è un’invenzione la storia degli scalpi. In che senso? Quando arrivavano i soldati, volevano parlare con un leader e le tribù sceglievano in fretta qualcuno per rappresentarli. Ecco, questo diventava subito il capo, agli occhi dei bianchi. E la tribù li accontentava, glielo lasciava credere.


Una delle case di Pine Ridge

Quindi Crazy Horse e Sitting Bull non erano veri capi? Erano un po’ portavoce e un po’ Kamikaze, guerrieri che decidevano di avere vissuto abbastanza e di essere pronti a morire in battaglia. Gli indiani non hanno mai preso ordini. Anzi E sorride malizioso lo sa come noi chiamavamo l’uomo bianco in lingua Lakota? Lo chiamavamo Wachicu, che vuol dire colui che prende ordini. La prima cosa che colpì i nostri antenati nelle praterie fa vedere che l’uomo dalla pelle chiara passava la giornata a dare e prendere ordini. E gli scalpi? Davvero i suoi nonni non scotennavano i miei nonni? Lo facevano, ma avevano imparato dai bianchi. I primi coloni inglesi e francesi si facevano pagare un tanto per ogni indiano ucciso e per certificare il numero riportavano gli scalpi dei pellerossa nei villaggi. Gli indiani copiarono l’idea. Nella tribù nessuno comanda e nessuno ubbidisce. Noi siamo un popolo di gente libera. Millenni di vita ce lo hanno insegnato, quando i bufali passavano a milioni là sotto le colline nere, il guerriero ne uccideva lo stretto numero indispensabile per vivere con la sua famiglia. Ne occorrevano 15 soltanto per fare un tipi, una tenda, con le pelli. E nessuno doveva dare ordini. Ogni indiano sapeva benissimo quanti né doveva uccidere, e non uno di più, perché l’anno dopo i bufali sarebbero tornati, nello stesso posto, nella stessa stagione, immutabilmente. La tragedia storica degli indiani è nello scontro fra la nostra cultura, che è una cultura della solidarietà, opposta alla cultura bianca dell’acquisizione. Quella collera così serena Certamente, il capo Ammazza Dritto (il nome fu dato al suo bisnonno quando uccise un nemico della tribù dei Corvi infilandogli una freccia dritta nell’occhio) idealizza, colora di rosa, fa dell’apologetica indiana.


Discendenti di guerrieri morti a Wounded Knee

Ma è duro non lasciarsi commuovere o suggestionare dalla sua collera serena, dalla sua patetica volontà di risorgimento indiano, in mezzo alla desolazione miserabile eppure bellissima della riserva. Quando l’ho lasciato, molto a malincuore, Byrgil Kills Straight stava tentando di spiegarmi segreti delle spiritualità indiana, il durissimo percorso mistico che ogni Sioux deve seguire, attraverso digiuni, dolore fisico, solitudine, mesi di preparazione, e infine abbondono per raggiungere la propria visione personale della divinità, che è il ricongiungimento finale nell’unità di terra, cielo, spiriti e animali. Non ho il tempo, non ho lo spazio, e forse non ho neppure la voglia di seguirlo perché anch’ io sono un Wachicu e prendo ordini come i soldati blu del Settimo cavalleria. Devo dunque finire qui, nel suo cuore più antico e struggente, il mio viaggio al centro dell’ America. Ma non posso chiudere, prima di pagare un debito. Ho promesso ai Sioux, in cambio dell’ ospitalità di un loro capo, di riprodurre sul giornale la preghiera che Alce Nera, recitava sulla collina della Schiena d’Orso, la montagna più sacra della riserva. Non so perché abbiano insistito, ma una promessa a un Sioux non si tradisce. Ascoltatemi, quattro angoli della Terra: Io sono vostro figlio. Datemi la forza per camminare sulla Terra soffice, perché sono figlio di tutto quello che esiste. Datemi occhi per vedere e forza per capire, affinché io sia come i quattro angoli della Terra. Solo voi saprete darmi il potere di resistere al vento.