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Gli oscar del cinema western – 32

A cura di Domenico Rizzi
Tutte le puntate: 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22, 23, 24, 25, 26, 27, 28, 29, 30, 31, 32, 33, 34, 35, 36.


MOLTI FILM, POCHI SUCCESSI

Negli Stati Uniti ha ormai preso il sopravvento la televisione e diversi western, anche biografici (“Crazy Horse”, 1996) o tratti da romanzi di celebri artisti (“Riders of the Purple Sage”, 1996, dall’opera di Zane Grey; remake di 4 film omonimi girati rispettivamente nel 1918, 1925, 1931 e 1941) sono destinati soprattutto al piccolo schermo. Fra le varie produzioni cinematografiche del periodo si inseriscono anche horror-western (“From Dusk Till Down”, 1996; “Blood Trail”, 1997; “Vampires”, 1998) e fanta-western (“The Postman”, 1997; “Wild Wild West”, 1999) come pure film molto cupi e deprimenti, quali il grottesco “Dead Man” del 1995.
Diretto da Jim Jarmusch e interpretato da Johnny Depp e da una schiera di attori, fra i quali l’ormai attempato Robert Mitchum, “Dead Man” mostra intenti apologetici verso i Pellirosse ed è la trovata che lo fa maggiormente apprezzare – oltre all’interpretazione di Depp e alle musiche di Neil Young – dalla critica, peraltro divisa sul giudizio da attribuire al film.
Se molti sono i pareri positivi, diversi risultano anche quelli negativi. Il pubblico invece, diserta deliberatamente le sale, almeno negli Stati Uniti, dove l’incasso si aggira sul milione di dollari, mentre il film ne è costati 9.
In definitiva, fra il 1996 e il 2000 sono pochi i film degni di riguardo e quasi tutti dei contemporary western.
Lo spunto più interessante è offerto da “L’ultimo cacciatore”, di Tab Murphy, che vede un moderno collaboratore della polizia (Tom Berenger) aiutato da un’antropologa (Barbara Hershey) alle prese con i discendenti dei Cheyenne sfuggiti alla repressione del Sand Creek nel 1864 e rifugiatisi sulle Montagne Rocciose, dove vivono secondo i costumi tradizionali da oltre un secolo. Anche “Grey Owl”, diretto da Richard Attenborough – la storia romanzata di un sedicente indiano Ojibway ( inglese di nascita con il nome di Archibald Belaney, che, dopo avere abbandonato la caccia in Canada, si battè vigorosamente per la preservazione dell’ambiente naturale) – e “All the Pretty Horses” appartengono allo stesso genere. Quest’ultimo approda in Italia con il titolo “Passione ribelle” e deriva dal celebre romanzo di Cormac Mc Carthy “Cavalli selvaggi”.
Il western è agonizzante e molti critici lo considerano già finito da parecchio tempo, a dispetto dei tentativi di gente come Kevin Costner di resuscitarlo. Comunque, sono in molti a pensare che “il più autenticamente americano fra i generi” (Maurizio De Benedictis, “Il cinema americano”, Newton & Compton Editori, Roma, 2005, p. 325) stia effettivamente tirando le cuoia dopo un’esperienza durata 90 anni. Al contrario, la storia del western continua, sebbene non sia più – se non a sprazzi – la bella favola di un tempo. Fra il 2001 e il 2009 vengono prodotti almeno 130 film qualificati come tali (inclusi commedie, film d’animazione, comici, horror e fanta-western) dei quali l’86% sono di produzione americana, seguiti da film canadesi, australiani, spagnoli o co-produzioni fra vari Paesi. Da questo panorama, il western italiano è scomparso definitivamente, a meno di voler considerare qualche lungo o medio metraggio amatoriale realizzato con poca spesa. Va precisato che della vasta produzione USA, della quale gran parte è destinata alla televisione, non giunge nelle sale italiane.
Ciò porta inevitabilmente ad un allontanamento dello spettatore nazionale dal western, sebbene tutti abbiano modo di vedere, quasi ogni sera, i successi del passato interpretati da una schiera infinita di attori popolari, da Gary Cooper a Alan Ladd, da John Wayne a Clint Eastwood. Naturalmente la crisi, che da anni spinge molti gestori di sale cinematografiche a chiudere o a diversificare la propria attività, non riguarda soltanto il western, ma pressoché tutto il cinema.
In un clima di stasi generale, è il piccolo schermo ad avere la meglio e il cinema si rifà soltanto quando riesce a produrre – tralasciando i film di bassa comicità detti cine-panettoni per l’abitudine di distribuirli sotto Natale – qualcosa di veramente eccezionale.

LA RIVINCITA DI COSTNER

Il 2003 torna ad essere un anno buono per il genere, presentando 3 lavori di tutto rispetto, uno dei quali – “Open Range” – raggiunge, contro ogni previsione, incassi più che soddisfacenti. Anche “Monte Walsh. Il nome della giustizia”, realizzato per la televisione e “The Missing” sono di orientamento crepuscolare come il primo.
Il film che fa maggiormente scalpore è senza dubbio “Terra di confine” (“Open Range”) dal romanzo di Lauran Payne “The Open Range Men”, diretto e interpretato da Kevin Costner (Charley Waite) Robert Duvall (Boss Spearman) Annette Bening (Sue Barlow) James Russo (Sceriffo Poole) Michael Gambon (Denton Baxter). La trama è delle più classiche e lineari, addirittura di una semplicità estrema rispetto ad altri film che vantano delle pretese: due esperti cowboy, un paio di giovani che stanno imparando il mestiere guidano una mandria di bovini nel Montana, occupando dei pascoli che ritengono liberi, mentre appartengono al solito prepotente allevatore (Baxter) che ha dalla sua parte anche lo sceriffo e i suoi aiutanti. Presto ne nasce una guerra, nella quale alcuni cittadini onesti si schierano con Waite e Spearman: fra questi vi sono il dottor Barlow (Dean Mc Dermott) e sua sorella Sue, che si innamora del mandriano interpretato da Costner. Nello scontro finale – un vero e proprio massacro – i cowboy “liberi” avranno l’appoggio di altri abitanti del villaggio, stanchi dello strapotere esercitato da Baxter e dalla sua cricca.
La vittoria finale contro quest’ultimo, che muore crivellato di colpi, e l’eliminazione dei suoi sgherri, cambierà anche la vita di Waite e Boss Spearman, decisi a stabilirsi in paese: Charley sposerà Sue e il suo amico più anziano aprirà un saloon, come è giusto che sia: si è nel 1882 e per entrambi – che non sono più giovani di primo pelo – l’epoca della vita solitaria nella prateria volge al termine.

Sceneggiato da Craig Storper, con la fotografia di J. Michael Muro, che ha già lavorato con Costner in “Balla Coi Lupi”, e la colonna sonora di Michael Kamen, il film – che contiene molte scene di pioggia ed addirittura un’alluvione – viene girato nell’estate del 2002 nell’Alberta canadese, con una spesa di 22 milioni di dollari. Ne realizza oltre 68 e, se non viene candidato ad alcun Oscar, richiama l’attenzione del National Cowboy & Western Heritage Museum di Oklahoma City, che annualmente assegna un premio – una scultura in bronzo intitolata “The Wrangler”, opera di John Free, simboleggiante un uomo a cavallo – ai principali autori o interpreti di letteratura, cinema o musica western. Ma per il suo trionfale ritorno sul palcoscenico del West dopo il fallimento di “Wyatt Earp”, Costner si può ritenere più che soddisfatto. Sorge il sospetto, avanzato da qualche osservatore, che l’attore-regista, dopo la grande affermazione di “Balla Coi Lupi”, si sia attirato invidie e maldicenze, perché fino a quel giorno nessun western si era mai aggiudicato 7 Oscar.
“Open Range” è un film corposo, nel quale i cowboy sembrano reali e le sfide vengono lasciate alla leggenda, per fare spazio ad una realtà molto più pratica e spietata.

Alle bellissime e veritiere scene del diluvio, dei bivacchi sotto un telo nella prateria e degli impacciati dialoghi di Charley con Sue in cerca di marito, si aggiunge infatti la credibilità del confronto finale, che rifugge – come già nella sua performance della sfida all’O.K. Corral – da ogni forma di artificiosità.
Ancora una volta il quarantottenne regista e attore ha dimostrato le proprie indiscusse capacità nel genere che per decenni è stato il più amato dagli Americani.

FRONTIERA AL CREPUSCOLO

Ron Howard, popolare attore di serie televisive (“Happy Days”) e di film cari ai teenager (“American Graffiti”, 1973) aveva già avuto parti non secondarie ne “La banda di Harry Spikes” di Richard Fleischer (1974) e nel celebre western di Don Siegel “Il pistolero” (1976) considerato l’addio al cinema del grande John Wayne.
Nel 2003 si pone alla regia di un western piuttosto insolito e con scene di efferata crudeltà come “The Missing”, interpretato da Tommy Lee Jones (Samuel Jones) Kate Blanchett (Maggie Gilkesson) Evan Rachel Wood (Lily Gilkesson) ed altri attori, fra cui Val Kilmer (il tenente Jim Ducharme).
A ben vedere, il film è piuttosto lento nell’azione, ma Jones sembra possedere tutte le caratteristiche dell’Indiano, taciturno e misterioso quanto poco impressionabile di fronte alle scene più raccapriccianti. E’ la storia, ambientata nel New Mexico del 1885, del rapimento, compiuto da una banda mista di Pellirosse, disertori dell’esercito e fuorilegge, della giovane Lilly Gilkesson (Eva Rachel Wood) il cui padre è stato massacrato nel modo più barbaro possibile. Insieme alla figlia Maggie e alla nipote Dot Gilkeson (Jenna Boyd) che è stata testimone delle atrocità, l’Indiano-Bianco Jones partirà alla ricerca della ragazza rapita, affrontando una serie di avventure ai limiti dell’incredibile. Dopo avere sfidato anche le arti malefiche di un brujo (uno stregone indigeno, interpretato da Eric Schweig) Jones riesce a liberare la nipote insieme ad altre prigioniere, ma il tentativo gli costerà la vita.
Sceneggiato da Ken Kaufman da un soggetto di Thomas Eidson, con la fotografia dell’italo-americano Salvatore Totino e la colonna sonora di James Horner, il film ottiene molti consensi, pur senza vantare alcun premio significativo. Pessimo invece l’andamento ai botteghini, dove ricava poco più della metà dell’ingente somma di 60 milioni di dollari impegnata.
Aria di crepuscolo anche in “Monte Walsh” (in Italia la distribuzione vi aggiunge: “Il nome della giustizia”) diretto da Simon Wincer (sceneggiatura di Michael Brandman e Robert B. Parker; fotografia di David Eggby, musica di Eric Colvin) film televisivo che ricalca il tema di “Monty Walsh, un uomo duro a morire” di William A. Fraker (1970) con l’interpretazione di Lee Marvin nella parte principale. La recitazione di Tom Selleck (Montelius “Monte” Walsh) non è meno convincente di quella dell’illustre collega dai capelli precocemente incanutiti, scomparso a soli 63 anni nel 1987.
La vicenda è quella di un anziano mandriano costretto ad adattarsi a lavori saltuari insieme all’amico Chet Rollins (Keith Carradine). In un ranch dove i due fanno sosta incontrano un’altra vecchia conoscenza, Shorty Austin (George Eads) che commetterà atti contro la legge, uccidendo uno sceriffo e tentando successivamente di rapinare e uccidere l’amico Chet, divenuto titolare di un negozio. Monte, che si è legato all’ex prostituta Martine (Isabella Rossellini) con tutta l’intenzione di sposarla, dopo avere rifiutato un ingaggio come cowboy da rodeo, che ritiene mortificante, darà la caccia a Shorty fino ad eliminarlo in uno scontro a fuoco. E’ la vittoria del giusto, che assiste tuttavia al tramonto della propria epoca e degli uomini che ne hanno fatto parte: non gli rimane che un mesto ritiro, conservando però fino all’ultimo il proprio orgoglio.
Il film ottiene una nomination all’Emmy Award per il sonoro e porta a casa la statuetta del “The Wrangler” della National Cowboy & Western Heritage.

LA STORIA A BASSO GRADIMENTO

A costo di ripeterlo per l’ennesima volta, quando il western tenta di ricalcare il solco della storia va quasi sempre incontro ad un insuccesso, a volte di proporzioni colossali.
Nel 2004 Ron Howard e Mark Johnson decidono di finanziare una riedizione della famosissima battaglia di Alamo, svoltasi nel Texas fra il 23 febbraio e il 6 marzo 1836, fra gli insorti texani prevalentemente di lingua inglese e l’armata del generale Antonio Lopez de Santa Anna, presidente-dittatore del Messico. Ne è regista John Lee Hancock, che ha scritto il soggetto di “Un mondo perfetto”, diretto e interpretato da Clint Eastwood, affiancato da Kevin Costner, definito “il miglior film del 1993” dai “Cahiers du cinema” e proiettato nelle sale di tutto il mondo con un incasso favoloso ed oltre 100 milioni di dollari di utile netto.
Il nuovo progetto “The Alamo” (in Italia: “Alamo. Gli ultimi eroi”) viene concepito in maniera faraonica, ingaggiando, oltre agli attori, centinaia di comparse, molte delle quali addirittura discendenti dai patrioti che si batterono al fianco di Sam Houston per l’indipendenza. Il costo del cast e delle attrezzature diventa esorbitante: da un budget iniziale di 107 milioni di dollari si passa a 140. La speranza è che il remake del celebre film prodotto, diretto e interpretato da John Wayne nel 1960 possa questa volta ottenere risultati assai più gratificanti. Infatti, è noto che Wayne aveva recuperato a stento la somma investita.
Gli attori impegnati sono: Billy Bob Thornton (Davy Crockett) Jason Patric (Jim Bowie) Patrick Wilson (ten. colonnello William B. Travis) Dennis Quaid (Sam Houston) Emilio Echevarrìa (generale Lopez de Santa Anna) Stephen Bruton (capitano Dickinson) Laura Clifton (Susanna Dickinson) e molti altri. La sceneggiatura è affidata a Leslie Bohem, Stephen Gaghan coadiuvati dallo stesso Hancock. Fotografia di John O’Connor e Dean Semler, musiche di Carter Burwell e Craig Eastman; costumi di Daniel Orlandi. Le riprese vengono effettuate nel Texas, anche nei pressi della capitale Austin, la missione di Alamo viene ricostruita con la massima cura e le scene di battaglia possiedono una spettacolarità eccezionale. Memorabili alcune scene, come quella in cui Davy Crockett si mette a suonare il violino sulle mura dell’improvvisata fortezza, inducendo i Messicani ad interrompere l’esecuzione del “De Guello”. Per inciso, l’attore Billy Bob Thornton dovette fare un po’ di pratica con questo strumento, per essere più convincente nella parte. I dialoghi fra Santa Anna e i suoi ufficiali sono in lingua spagnola originale e mostrano, prima che comincino le ostilità, la scarsa considerazione che essi danno agli insorti, ritenuti, in contrapposizione all’esercito regolare della repubblica messicana, un branco di pezzenti male armati.

Quando al dittatore viene riportata la notizia che fra i Texani si trova anche Davy Crockett – un uomo che a quell’epoca si era conquistata una robusta fama, nominato colonnello onorario per le sue campagne contro gli Indiani e poi eletto deputato al Congresso degli Stati Uniti – questi si mette a ridere, chiedendo se si tratti de “el cazador de orsos” (il cacciatore di orsi). Come tutti gli appassionati di storia del West sanno, la conquista dell’Alamo costò agli assalitori un numero di morti da 600 a più di 1.000: alcune fonti le quantificano addirittura in 1.545, sebbene tale cifra possa apparire esagerata. Quanto ai Texani e ai sostenitori della loro causa, come Crockett e Bowie, persero 187 uomini.
La ricostruzione della battaglia fatta da Hancock è senz’altro spettacolare e i suoi protagonisti, soprattutto Crockett, presentato con i capelli lunghi sulle spalle come appare in molti ritratti, sono verosimili. Sorprendentemente però, la critica non è affatto favorevole e il pubblico non si lascia tentare più di tanto ad assistere alla proiezione. Forse manca la verve di John Wayne e Richard Widmark, oppure l’azione è a tratti troppo lenta e costruita; se si considera che la durata del film non è eccessiva (142 minuti) è quasi inspiegabile la diserzione da parte del pubblico delle sale, che produce un misero incasso di poco superiore ai 25 milioni di dollari. Dunque, un fallimento senza precedenti, che fa pensare al disinteresse della gente alle ricostruzioni storiche di questo tipo.
Meno di un anno dopo Terrence Malick ci riprova con “The New World”, una vicenda più remota, narrata varie volte in chiave romantica e resa popolare dalla Walt Disney Pictures con il film d’animazione “Pocahontas” nel 1995, un successo commerciale travolgente con oltre 346 milioni di incasso. Ma il lavoro di Disney era rivolto all’infanzia e quindi sapeva di poter suscitare la sensibilità delle famiglie di tutto il mondo.
Malick si mette in testa di raccontare finalmente la storia vera della giovanissima principessa indiana e del suo occasionale partner John Smith, un capitano coraggioso e spregiudicato lanciato alla conquista della Virginia con un pugno di uomini. Pur cercando di raccontare la verità, il regista si lascia affascinare dalla leggenda, che vuole vi sia stata una forte relazione amorosa fra i due personaggi, benché la storia ne dubiti. La scelta dei personaggi è giusta, con Colin Farrell nei panni di Smith, Q’orianka Kilcher (Pocahontas) un’attrice tedesca di origine quechua, un popolo peruviano, Christian Bale (sir John Rolfe, marito inglese di Pocahontas) August Schellemberg (Wahunsonacock, padre di Pocahontas e capo dei Powhatan) Wes Studi (il ribelle Opechancanough, fratellastro di Powhatan e ostile ai colonizzatori). Soggetto, sceneggiatura e regia sono di Terrence Malick, che è anche produttore del film insieme a Sarah Green; la fotografia, a tratti stupenda, è di Emmanuel Lubezki, mentre le musiche sono di James Horner, che ha già composto le colonne sonore di oltre 90 film, fra i quali “Vento di passioni”, “Titanic” e “The Missing”. La vicenda si sviluppa in un arco di tempo di circa 10 anni, che procede dallo sbarco di Smith fino al suo ultimo incontro con Pocahontas in Inghilterra, dove lei, convertita la Cristianesimo e divenuta Lady Rebecca, è sposata con il nobile Rolfe. La principessa pellerossa morirà poco tempo dopo a Gravesend, all’età presunta di 22 anni, per cause soltanto ipotizzabili: polmonite, tisi, oppure vaiolo.

“The New World” è un ottimo film, ben narrato e condotto egregiamente in tutti i suoi passaggi, ma non ottiene dalla critica i risultati sperati. L’unica nomination all’Oscar è per la fotografia di Lubezki, mentre la Kilcher si vede assegnare il premio della National Board of Review. Seguono altri 4 riconoscimenti minori (uno al Mar del Plata Festival, per la fotografia a Lubezki e a Malick per il miglior film) e neppure ai botteghini l’esito è troppo confortante: infatti l’incasso supera di poco la spesa di 30 milioni affrontata.
L’esito poco incoraggiante degli ultimi due film citati, rivela – oltre ad una crisi del cinema in generale – l’imprevedibilità del pubblico. Non vi è dubbio che tanto “The Alamo” quanto “The New World” siano film revisionisti, ma la loro rivisitazione storica degli eventi non pare interessare le platee. Ma concludere che il western sia giunto di nuovo al capolinea è affrettato: film come “Il Grinta”, “Django Unchained” e “The Revenant” dimostreranno esattamente il contrario nell’arco di pochi anni.