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Luis Terrazas, il Chihuahua… e gli Apaches

A cura di Josephine Basile

“Io non sono di Chihuahua, il Chihuahua è mio!” si dice che affermasse Luis Terrazas.
Considerato dagli storici il patriarca del Chihuahua, Don Luis fu generale, sindaco, governatore, presidente della “Junta de Guerra” per combattere “los Indios Barbaros”… ma anche il più grande proprietario terriero del paese, l’uomo che, secondo i campesinos della regione, aveva più vacche nelle sue terre che binari ferroviari da Ciudad Juárez a Ciudad Mexico. I suoi beni e le sue proprietà (ville, haciendas, ranchos, banche, ecc. ecc.), erano davvero troppe per poter oggi essere numerate. Nobili origini le sue: Luis Terrazas, figlio di Don Juan Jose Terrazas e Dona Petra Fuentes, apparteneva ad una vecchia famiglia chihuahuense, le cui radici in questo stato risalgono al XVII secolo.
Secondo R. Almada, apparentemente Don Luis discendeva dal conquistador “Don Francisco de Terrazas e da suo figlio Don Francisco Terrazas y Obregón”. Nato nella città di Chihuahua il 20 luglio 1829, fu battezzato in chiesa con l’altisonante nome di: Jose Luis Gonzaga de Jesús Daniel de Los Angeles (y Terrazas y Fuentes).
Dopo i primi insegnamenti in scuole rinomate, Luis Terrazas, in età precoce, fece il suo ingresso nel Seminario di Durango, per acquisire conoscenze che lo preparassero nella vita. Tornato a casa nel 1847, all’età di 18 anni, il giovane Luis visse l’Invasione Americana e la fatidica resistenza dei Chihuahuensi, tormentati da sentimenti contradditori: da un lato la paura di essere divorati dall’emergente Impero Americano, con cui avevano relazioni commerciali, e dall’altro il malessere contro il Governo Nazionale Messicano, che criticava il loro fiacco intervento militare di fronte all’invasore.


Luis Terrazas

Un altro evento traumatico si verificò nel 1849, quando il Chihuahua venne colpito da una devastante epidemia di colera, che coprì quasi l’intero territorio, preceduta da una prolungata siccità che colpì il bestiame. Luis perse suo padre a causa del colera e, a 21 anni, diventò il capo famiglia, giacché suo fratello maggiore era morto da piccolo. Oltre a sua madre, aveva 4 sorelle.
Tre anni dopo, nel 1852, Luis si sposa con Carolina Cuilty Bustamante, discendente di Gabino Cuilty, un irlandese nato a Cuba, proprietario di una hacienda nel nordovest di Ciudad Chihuahua. Diverse delle sue figlie sposarono uomini distinti della zona, come Pedro Zuloaga, ricco proprietario terriero di origine spagnola (imparentato con il discusso Josè Maria Zuloaga, prima capitano, e poi proprietario delle miniere di Corralitos, di cui si dice che contrabbandò per un quarto di secolo con i Chiricahuas); Carlos Moye, industriale tedesco; e Reuben W. Creel, console degli Stati Uniti. Luis e Carolina ebbero ben 13 figli. Juan e Alberto furono eminenti uomini d’affari, Luis e Federico lavorarono nelle imprese di famiglia.


Ciudad Chihuahua: Quinta Carolina, una delle residenze estive di Don Luis

In seguito si unirono al clan 2 generi, Enrique Creel e Federico Sisniega, che furono importanti impresari. Sempre tramite matrimoni, la famiglia acquisì altre alleanze importanti: Juan si sposò con María Luján; Federico con Genoveva Falomir, prima, e dopo con sua cugina Margarita Muñoz; Elena con Rafael Horcasitas. Nel 1878, Guillermo, uno dei figli, muore suicidandosi in piena adolescenza.
Da buon “rico”, Terrazas mandò i figli a studiare negli Stati Uniti. Le figlie seguirono il percorso tradizionale: donne religiose, sostenitrici e animatrici di opere pie. A partire dal 1890, i figli e i generi appaiono sulla scena per dare inizio ad una nuova fase di sviluppo. La maggior parte delle molte imprese che fondarono erano controllate dalla famiglia. Si stima che nei primi anni del ventesimo secolo, le imprese del Clan Terrazas davano occupazione a più di 10 mila persone.


Apaches all’attacco

Ma prima di diventare il latifondista più grande del paese, e forse del mondo, Luis Terrazas fu un soldato che lottò contro i Conservatori, contro gli Imperialisti e, infine, contro gli Apaches del Chihuahua. I Conservatori furono avversari deboli, per cui, tra il 1861 e 1865, come governatore dello stato, Terrazas applicò con facilità le Leggi di Riforma in Chihuahua, appropriandosi, tra l’altro, dei beni che queste leggi avevano strappato alla chiesa. Gli Imperialisti furono avversari più pericolosi, che Terrazas combatté con il grado di generale di brigata nell’esercito della repubblica; verso la fine della guerra, il 25 marzo 1866, prese con le armi la capitale dello stato, di fronte alle Forze Imperiali: il suo nome rimase coperto di gloria in tutti gli angoli del Messico. Ma i più feroci nemici di Terrazas non furono i Conservatori e neanche gli Imperialisti: furono gli Apaches, che calavano in orde sul Chihuahua, isolando intere popolazioni e riducendo in macerie haciendas e ranchos (molti di sua proprietà), rubando animali, uccidendo gli uomini e catturando donne e bambini, secondo la legge del taglione. Circondati dai bianchi, con nemici ovunque, senza terre, senza animali, senza nulla, erano stati ridotti al saccheggio.


Soldados messicani

Nel Messico del XIX secolo, la guerra a morte contro gli Apaches durò più di mezzo secolo, dal 1830 fino ad oltre la prima metà del 1880. Un eternità per chi la visse. All’origine vi era la decisione delle autorità locali di cancellare il sussidio alimentare degli Apaches, che era stato disposto dal Governo Federale, sussidio che esisteva dalla guerra più recente. Presto, lo stato rimase devastato dalle ostilità, al punto che, come nello Yucatán durante la cosiddetta “Guerra delle Caste”, prese forza tra i suoi abitanti l’ideale del separatismo: abbandonati dal centro (Chihuahua si trovava così lontana dalla capitale che l’indipendenza dalla Spagna fù celebrata un anno dopo) molti cercarono la protezione degli Stati Uniti. “Chihuahua, per conservarsi, romperà i vincoli che la legano alla Federazione e si unirà agli Stati Uniti, che gli garantiranno la sua sicurezza uscendo dalla rovina, con la loro adesione nella guerra contro i barbari”, scrisse in quei tempi il “Giornale Oficial” dello stato di Chihuahua.
La guerra contro gli Apaches cominciò un anno dopo la nascita di Terrazas, la cui vita trascorse all’ombra della lotta a morte contro “los bárbaros”, che calavano feroci sul Chihuahua. A detta di alcuni storici, egli comprese che erano costoro a rappresentare il vero pericolo e non i Francesi; e fu questa sua “predisposizione” che diede origine, dopo, ai disaccordi con Benito Juarez, che non capì mai perché nel Chihuahua fosse più importante – per Don Luis – uccidere Indios invece che Francesi.


Il grande capo e guerriero Victorio

In realtà, a Terrazas premeva, innanzitutto, proteggere dalla rovina i suoi ranchos, le diligenze cariche di metalli preziosi….e le sue numerose e ricche haciendas (si dice che arrivò a possederne circa 50): come quelle di San Miguel di Babicora, San Lorenzo, quella del Carmen….. e quella rinomata di Encinillas, la più grande di tutte, dove le donne e i bambini degli Apaches venivano ridotti in perpetua servitù.
A 24 anni, dice il biografo di Don Luis, “il suo nome compare in una lista di volontari per el pago de cabelleras de indios”. Dieci anni dopo, a 34 anni, già governatore, scrive a un amico una lettera sugli Apaches che isolano pueblos, haciendas e ranchos.
Un guerriero Apache
Non sono altro che “orde distruttive e insaziabili di sangue e saccheggio”, esclama, per poi venire al sodo: “Sono persuaso che questo nemico di tutta la civilizzazione, feroce e sanguinario più per carattere che per ignoranza, cederà solo davanti alla forza materiale, unico mezzo per ridurlo all’impotenza di continuare le sue abominevoli depredazioni”. Così accadrà.
Nell’autunno del 1880, a 51 anni di età, Luis Terrazas pone fine al capitolo della guerra contro gli Apaches, ordinando una campagna comandata da suo cugino, Joaquín Terrazas, uno spietato combattente, che nel nord del Messico tutti chiamavano, e a ragione, “il Flagello degli Apaches”. E’ lui, l’incaricato, dello sterminio di Geronimo, Juh, e soprattutto di Victorio, il capo più temibile del nord del Messico.
Braccato anche dall’Esercito Americano, capitan Victorio comanda l’ultima più folta ed agguerrita banda Apache. Uomo intelligente ed equilibrato, il condottiero Mimbreno è veramente un abile stratega; cresciuto sotto Mangas Coloradas – il più potente capo Apache del XIX secolo – ne è divenuto il degno erede. Dopo la sua fuga dalla riserva Mescalero (1879), ha surclassato sul campo diversi generali e causato centinaia di morti: tra gli ultimi a cadere sotto i suoi colpi nel Chihuahua, due gruppi di combattenti di Carrizal, più di 30 uomini, i migliori di quella cittadina. Ma negli scontri Victorio ha perso molti guerrieri (tra cui suo figlio Washington), le munizioni cominciano a scarseggiare ed egli stesso è rimasto ferito.


Una donna e il suo bambino

Per impedire defezioni ed indebolire ulteriormente la banda, durante un diverbio Victorio uccide Caballero, il suo alleato capo Mescalero. Poi la fuga per la libertà continua, “verso la Sierra Madre”, dissero i testimoni Apache.
Ma il Chihuahua esige giustizia, e il suo patriarca Don Luis si occuperà di procurarla, condannandolo a morte. Per combatterlo, Terrazas promise a suo cugino Joaquin tutto l’appoggio del governo di Chihuahua.
“Il governo pagherà 4 reales ai fanti e 6 reales in più a coloro che si presenteranno a cavallo”, comunicò, “e pagherà i premi per le capigliature degli Indiani guerrieri, las piezas vivas di donne e bambini, secondo la legge, e 2 mila pesos per Victorio”.


Una corsa sfrenata

Il colonnello Joaquín Terrazas, al comando di 260 combattenti scelti e pesantemente armati, batté poco dopo Victorio, scovato quasi senza munizioni sulle immense pianure chihuahuensi, in un remoto luogo chiamato “Los Tres Castillos”: la vera tomba a cielo aperto degli Apaches e dell’ultimo grande nantan dei Mimbrenos, che vedendosi battuto si toglierà la vita con il suo stesso coltello. Poco dopo, Kayatennae ritroverà il suo corpo, che sepellirà sotto un cumulo di pietre. L’impari battaglia durò due giorni: si era allora nel 14-15 Ottobre 1880. L’anno prima, Don Luis aveva fondato una banca.
Presto, nel 1883, morirà cadendo da cavallo il temuto capitan Juh, il più feroce degli Apaches per antonomasia e tristemente famoso per le sue efferate uccisioni. Alcuni affermano che fosse un sadico e, certamente, ancora oggi il suo nome è sinonimo di uomo cattivo nel nord del Messico. Ma l’anno precedente (Aprile 1882), a causa di un attacco alla sua rancheria compiuto dai messicani al comando del major Mata Ortiz, il condottiero Ndèndaì aveva perduto sua moglie Ishton e la figlioletta di soli 4 anni, mentre un’altra sua figlia, Jacali, rimase storpia a vita (in seguito gli amputarono la gamba). 7 mesi dopo, nel Novembre del 1882, Juh vendicherà i suoi morti, ponendo fine all’esistenza del “gordo” Mata Ortiz e degli oltre 20 uomini che lo accompagnavano. La leggenda vuole che Mata venisse ucciso per ultimo: bruciato vivo da Juh, come lo stesso capo Apache gli aveva promesso.
Geronimo
Daklugie, sopravissuto figlio minore di Juh, raccontò che il governatore Luis Terrazas e il presidente Porfirio Diaz, si incontrarono personalmente con suo padre, allo scopo di far cessare le ostilità nel Chihuahua:
“Diaz non disse nulla per un po’. Quindi parlò rapidamente rivolto a Terrazas così rapidamente che Juh non potè capire tutto quello che disse. Finalmente si girò verso mio padre e disse “Se siete affamati, uccidete il bestiame. Non uccidete cavalli e muli per la carne, ma prendete bestiame. Non uccidete le vacche, ma uccidete i maschi. Quindi questi aumenteranno per tutti.” Mio padre pensò e fu d’accordo con questo. Sentiva che dovevano ancora arrivare molte rimostranze e aspettò. Il presidente finalmente disse “questo scalping, non permetterlo.” “Chi ha iniziato a scalpare?” Domandò Juh. “Forse che il tuo Governatore non offre cento pesos per gli scalpi di uomini Apache, cinquanta per quelli delle donne, venticinque per quelli dei bambini? E forse che non prendono molti più capelli dal tuo popolo che non dal mio? Ricompense non sono forse date per gli scalpi ogni giorno nella tua Città dei Muli? Se tu fermerai il tuo popolo dal prendere capelli, io fermerò il mio; ma non prima che tu lo faccia”. “Io voglio la pace” disse Diaz “e quindi ordinerò questo”. “Anche io voglio la pace” disse Juh “E tu puoi fare meglio che dare ordini. Potresti verificare che siano obbediti”.
E così terminò il meeting. Ma le tregue tra Messicani e Apaches furono sempre di breve durata. Dopo la morte di Juh, la cavalleria messicana catturò Delzhinne e Daklegon (2 altri figli del defunto capo), che vennero portati a Città del Messico, dove morirono. Restava sul campo ancora Goyahkla alias “Colui che Sbadiglia”, meglio noto come Geronimo.


Ciudad Chihuahua: la prigione e la sua guarnigione

A far la guerra rimase il sessantenne diyin, il cui odio verso i Messicani aveva vecchie radici. Intorno al 1851 la sua famiglia venne interamente massacrata: madre, moglie e 3 figli. Anche lui – uguale a Don Luis Terrazas – era diventato capo famiglia da giovane, dopo la morte di suo padre Taklishim. Costretto dai suoi, finirà con l’arrendersi agli Americani, nei primi giorni di settembre del 1886, e non ai Messicani, che poco tempo prima avevano progettato di ucciderlo, invitandolo con la sua gente a Fronteras. Ma lo scaltro Geronimo non cadde nella trappola. Non abbandonando il progetto di eliminarlo, il prefetto di Fronteras inviò ingenti forze nei pressi del confine, dove Geronimo e i suoi – scortati dagli Americani ma ancora armati – si dirigevano ad incontrare il generale Miles per arrendersi. Qui, più a nord di Fronteras, avvenne un singolare colloquio tra 7 Apaches (tra cui Geronimo), 7 Americani (tra cui Gatewood) e 7 Messicani, che rappresentavano i rispettivi gruppi. L’incontro venne stabilito lontano dal grosso delle truppe messicane, i cui ufficiali volevano essere certi che Geronimo si stesse davvero arrendendo, anche se la loro reale intenzione era quella di distruggerli.


Una lapide ricorda Geronimo

Durante il colloquio, un ufficiale messicano domandò a Geronimo il perché non si fosse arreso al Messico; la risposta del lungimirante leader dei Bedonkohe fu: “perché voi ci avreste massacrati!”. Non si sbagliava. Secondo alcune testimonianze, il colloquio finì col prendere una brutta piega, poichè mancò poco che Goyahkla sparasse all’ufficiale messicano. Ma gli Americani intervennero riportando la calma. Infine, il colloquio terminò, con gli Apaches che si diressero a nord insieme gli Americani, e i Messicani che furono costretti a tornare a sud, senza “las cabelleras de los barbaros” da esibire o vendere.
Pancho Villa
Ma le guerre Apache nel Chihuahua si potevano ormai dire concluse. Tuttavia, ancora da vecchio, Geronimo non dimenticherà, ricordando sempre i Nakayè (Messicani) con odio e disprezzo: “Ho ucciso molti messicani: non so quanti, perché sovente non li ho contati. Qualcuno di loro non era nemmeno degno di essere contato. Da allora è passato molto tempo, ma ancora adesso detesto i messicani. Con me furono sempre infidi e malvagi. Ora sono vecchio e non scenderò mai più sul sentiero di guerra ma, se fossi giovane… questo mi condurrebbe nel Vecchio Messico.”
Durante i suoi ultimi anni, vennero prese numerose foto a Geronimo; queste lo mostrano triste, ma ancora con il suo odio dipinto nel volto, già crudele di per sé, o forse segnato dai tanti lutti subiti nel corso della sua vita, un’esistenza di guerra in verità. Morirà nel 1909 a quasi 90 anni di età, senza poter far ritorno nella sua terra e dopo aver visto morire quasi tutti i componenti della sua famiglia, comprese diverse altre mogli e figli, tra cui si ricorda il giovane Chappo, immortalato al suo fianco in alcune foto e morto di tubercolosi nel 1894.
La tomba di Terrazas
La fine della grande guerra contro gli Apaches coincise con un evento che sarà trascendentale: l’introduzione della ferrovia in Chihuahua. Entrambi i fattori, unitamente al prezzo della terra, bassissimo, saranno la chiave dell’immensa fortuna di Don Luis Terrazas. Ma a ben vedere anche il suo finale non sarà molto felice, poiché subì le devastazioni della Rivoluzione, nella sua figura più terrificante: quella di Francisco Pancho Villa.
Le sue infinite vacche, che prima venivano rubate dagli Apaches, vennero ora date al popolo, e le sue immense fortune espropriate. Terrazas aveva già visto morire due dei suoi figli ( dopo il suicidio di Guillermo nel 1878, Federico venne fulminato da un infermità nel 1903 ), quando ebbe la pena di veder scomparire anche il suo primogenito, Luis, che tempo prima era stato sequestrato dalle Truppe Federali di Pancho Villa. Le foto della sua vecchiaia lo mostrano sconfitto, disilluso e triste ma – al contrario degli Apaches – ebbe la fortuna di ritornare a vedere un’altra volta il cielo del Chihuahua, quello stesso immenso cielo sotto il quale gli Ndè, per secoli, avevano vagabondato in libertà. A 94 anni “Don Luis”, racconta il suo biografo, “morì nel suo letto, nella sua casa e nella città che lo vide nascere: era la mattina del 15 giugno 1923”.