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La storia di Metacomet, Re Filippo

A cura di Pietro Costantini

Metacomet
Metacomet, capo dei Wampanoag, fu il solo Indiano in America cui i colonizzatori inglesi diedero il titolo di “Re”. Il perché a nessun altro dei Nativi fosse stato assegnato questo titolo, o come avvenne che venisse attribuito proprio a Metacomet – “Re Filippo” – non è dato saperlo.
I Wampanoag erano una Nazione indiana stanziata in quello che è ora il Massachusetts sud orientale e nel Rhode Island, ad est della Narragansett Bay. Qualcuno di loro viveva anche a sud, nelle grandi isole di Nantucket e Martha’s Vineyard. Quattro secoli fa, Massasoit, il padre di Metacomet, era il grande sachem dei Wampanoag. Il suo popolo non era costituito da un’unica tribù unita, e non aveva stati, città e paesi con governatori, sindaci e consiglieri, come abbiamo noi. E neanche vivevano in stretta relazione reciproca o votavano per funzionari comuni. Avevano infatti villaggi molto piccoli.
Poche famiglie riunivano i loro wigwam e vivevano approssimativamente allo stesso modo della gente che vive in campeggio d’estate.
Generalmente, tra i Wampanoag, ogni wigwam era occupato da una singola famiglia. I capi famiglia dei diversi wigwam si riunivano occasionalmente e si consultavano su determinati argomenti che sembravano loro importanti. Tutti coloro che erano presenti a questi incontri avevano diritto ad esprimere la propria opinione sull’argomento in discussione, ed ogni volta che l’avessero desiderato. Tutti parlavano con calma, senza retorica e senza preparare il discorso. Parlavano di ogni argomento fosse loro aggradato e per quanto tempo avessero voluto.
La persona più illustre del villaggio era chiamata ”capo” del villaggio. Il suo consiglio e la sua opinione erano generalmente seguiti, ed egli governava il popolo in maniera non invasiva.
Gli Indiani di diversi villaggi erano qualche volta riuniti in una piccola tribù ed erano governati da un sachem. Questo capo non aveva potere su una parte rilevante del territorio. Generalmente nessuno degli individui sotto la sua giurisdizione viveva a più di otto – dieci miglia di distanza dalla sua sede. Il suo governo durava finché a lui fosse piaciuto e non era soggetto a costituzione o parlamento di alcun genere. Infatti egli era più un comandante che un governante. Ciononostante, un capo saggio non faceva nulla di rilevante senza consultarsi prima con i vari capi-villaggio della sua tribù. Nella tribù il capo occupava una posizione leggermente più alta di quanto aveva nel suo gruppo il singolo capo-villaggio. Egli dirimeva le dispute, e dirigeva una rudimentale forma di tribunale, dove la giustizia era accordata in ciascun caso secondo i meriti. Inoltre mandava e riceveva messaggeri dalle altre tribù.


Le tribù algonchine del Massachusett, con le loro suddivisioni in sotto tribù

Poiché diversi villaggi erano uniti in una singola, piccola tribù, così anche diverse di queste piccole tribù erano liberamente e blandamente riunite insieme, sotto la guida di un grande sachem.
Le differenti tribù Wampanoag che prestavano fedeltà a Metacomet e a suo padre, Massasoit, erano in numero di cinque, oltre le piccole bande delle isole di Nantucket e Martha’s Vineyard. Il villaggio dove viveva il grande sachem era chiamato Pokanoket.
Massasoit aveva parecchi figli. Il primogenito si chiamava Wamsutta, mentre il secondo era Metacomet. Negli anni seguenti gli Inglesi attribuirono loro i nomi di Alessandro e Metacomet rispettivamente, per avere minori difficoltà di pronuncia.
Non conosciamo la data esatta della nascita di Metacomet: gli Indiani non davano al tempo l’importanza che diamo noi, e neanche si preoccupavano di chiedere a nessuno la sua data di nascita. E’ probabile, comunque, che Metacomet fosse nato prima del 1620, l’anno in cui i Pellegrini si stabilirono vicino ai Wampanoag.
La giovinezza di Metacomet passò nei giochi con fratelli e sorelle, e con i figli dei suoi vicini; sebbene fosse il figlio di un grande sachem, non aveva nessun privilegio speciale nei confronti degli altri bambini che giocavano con lui.
Mentre la mamma è al lavoro…
A quel tempo si era abituati a pensare ad un principe come ad una persona che lavorava molto poco; ci si aspettava che fosse occupato in banchetti, che indossasse un’uniforme militare con una bella spada al fianco e molte medaglie sul petto, sempre circondato da servitori, e con tutti che si inchinavano di fronte a lui, pronti ad eseguire i suoi ordini. Nel caso di Metacomet era molto diverso. Egli non viveva in modo migliore rispetto agli altri membri della sua tribù. Aveva un’abitazione non migliore né peggiore delle altre del villaggio.
Il suo cibo era della stessa qualità, la quotidianità era la stessa di tutti gli altri. Non indossava uniformi, non aveva mai sentito nominare medaglie o mostrine, non aveva servitori. Suo padre differiva dagli altri Indiani solo perché era il loro capo in tempo di guerra e perché veniva cercato ogni volta che i capi della tribù tenevano incontri o consigli. Nella sua casa non c’erano giocattoli, carriole o dolciumi. Non vi erano smancerie con i genitori, perché gli Indiani erano un popolo quieto e sobrio e raramente mostravano l’affettività verso i figli. Fin da quando era piccolo il bambino non riceveva mai molta attenzione da parte del padre. Se ne prendeva cura la madre. Non fu mai fatto oscillare nella culla, ma posto in una specie di borsa di larghi pezzi di corteccia, con all’interno della morbida pelliccia. Qualche volta veniva trasportato sul dorso della madre, quando lei andava al lavoro, e talvolta veniva appeso al ramo di un albero.
La piccola casa in cui viveva era il wigwam. Era di forma circolare oppure ovale, fatta di corteccia o di pelli adagiate su un’impalcatura di piccoli pali. Questi pali erano fissati sul terreno ad un’estremità. E venivano legati insieme alla sommità, formando una copertura in qualche modo somigliante ad una tenda. Due aperture agli opposti lati del wigwam servivano da porte. Queste erano chiuse da pelli quando era necessario, rendendo così il luogo caldo e accogliente. Il wigwam aveva una sola stanza. Nel centro c’erano alcune pietre che servivano da caminetto. Non esisteva il camino di tiraggio, ma il fumo usciva da un’apertura praticata alla sommità dell’abitazione. Su un lato del caminetto stava un grande “letto”, fatto con ruvide assi sollevate di circa 30 centimetri dal terreno e coperte con stuoie o pelli. Il letto era molto largo, di modo che Metacomet e gli altri bambini di notte potessero dormirvi stesi fianco a fianco. Nella stanza non vi erano altri accessori. Alle pareti erano appesi alcuni canestri pronti per l’uso. Come ornamenti erano piazzate alcune stuoie. I piatti destinati a contenere il cibo erano rudimentali vasi fatti di creta cotta, pezzi di corteccia o di pietra incavata, quando non di legno. Vi era poca voglia di tenere il wigwam pulito e ordinato: era usato solo per pochi mesi, e poi abbandonato per uno nuovo che era stato edificato nelle vicinanze. In estate era usuale erigere il wigwam in uno spazio aperto. In inverno veniva eretto in un fitto bosco a protezione da venti e tempeste.
Simile a quella descritta era l’abitazione nella quale crebbe Metacomet. Differiva ben poco da quelle dei suoi compagni di gioco, perché non vi era aristocrazia fra gli Indiani. In generale il posto dove Massasoit viveva assieme alla sua famiglia si trovava nelle vicinanze dell’odierna Bristol, su una stretta striscia di terra che si proietta nella Narragansett Bay. La zona oggi ha il nome di Mount Hope, a circa quindici miglia a sud est di Providence, Rhode Island.
A prima sera, nei giorni della sua giovinezza, Metacomet era lieto di sedersi vicino al campo attorno al fuoco, dove i membri della tribù erano soliti radunarsi. Lì ascoltava avidamente le storie d’avventura raccontate dagli anziani, e desiderava essere abbastanza grande da partecipare alle attività che essi descrivevano in modo così interessante. Sebbene non ci si aspettasse che i bambini prendessero la parola in presenza degli anziani, Metacomet dimostrò spesso il suo interesse per i loro racconti, facendo molte domande riguardo ai luoghi visitati dagli Indiani più anziani.
In quei giorni, le notizie viaggiavano lentamente da un villaggio all’altro: non vi erano strade, e anche i sentieri attraverso i boschi erano così poco usati che era difficile trovare la direzione da un posto all’altro. In quei luoghi gli Indiani non tenevano animali di nessun tipo, e da un posto all’altro si spostavano sempre a piedi. In una piacevole serata del giugno 1620, il piccolo Metacomet rilevò che c’era meno interesse del solito per i soliti racconti, e che gli Indiani sembravano grandemente interessati ad una lunga storia che uno di loro stava raccontando. Egli non poteva capire il racconto, ma udì spesso le parole Squanto e Inglese. Queste per lui erano parole nuove. La sera dopo, mentre Metacomet e suo fratello erano seduti accanto al fuoco, chiesero a loro padre quale era il motive per cui gli Indiani erano così seri nel loro parlare, e di che cosa trattava quel lungo racconto.
Il padre rispose:«Squanto è tornato a casa».
«E chi è Squanto?» chiese Metacomet.


Villaggio Wampanoag arcaico

Allora il padre gli raccontò una storia, che può essere riassunta così:
molti anni prima della nascita di Metacomet, era arrivata una nave dal mare. Era più grande di qualunque natante gli Indiani avessero mai visto.
Le sole imbarcazioni di cui Metacomet sapesse qualcosa erano piccolissime, ed erano chiamate canoe. Erano fatte sia di cortecce di betulla legate ad una leggera incastellatura di rami d’albero, o di tronchi che erano stati incavati bruciandoli col fuoco. Ma la barca che era arrivata attraversando il mare era più grande di molte volte rispetto a qualunque di quelle – così spiegò Massasoit ai ragazzi – ed era predisposta per trasportare molte persone. Invece di essere spinta in avanti da pagaie, era guidata dai venti per mezzo di grandi pezze di stoffa, distese tra lunghi e forti pali di legno. Gli Indiani non si recarono sulla spiaggia, ma osservarono questa imbarcazione dalle colline situate nell’interno, ad una certa distanza dal mare. Alla fine il vascello si fermò ed alcuni degli uomini scesero a terra. Gli Indiani, attoniti, guardavano gli stranieri: la loro pelle era di un colore pallido, biancastro, molto diverso da quello dei Nativi, che era di un color argilla rame o rossastra. Gli uomini bianchi, o visi pallidi, quando Massasoit li chiamò, fecero segni di amicizia verso gli Indiani e dopo pochi minuti li convinsero a scendere sulla spiaggia. Così i due popoli cominciarono a commerciare tra loro. Gli Indiani davano pellicce e pelli, ricevendo in cambio perline e bigiotteria di vario genere.


Ricostruzione del primo contatto fra i Pellegrini e gli Indiani

Quando la nave se ne andò portò con sé cinque Indiani che erano stati attirati a bordo, senza permettere che potessero tornare a terra. Da allora, di questi Indiani non si era più avuta notizia, ed erano ormai passati quindici anni. Gli occhi del piccolo Metacomet si sgranavano, ed istintivamente stringeva i pugni al pensiero dell’errore che era stato commesso dal suo popolo con le facce pallide. Suo padre continuò con la storia, e raccontò di come gli Indiani avessero giurato vendetta contro gli uomini bianchi; infatti era costume dei Nativi punire chiunque avesse commesso un atto ostile nei confronti di uno dei loro.
Di tempo in tempo, altre navi visitarono quelle spiagge, ma nessun Indiano poté mai più essere indotto a salire a bordo di una di esse. Nove anni dopo venne commesso un altro oltraggio. Mentre commerciavano con gli Indiani, improvvisamente i Visi Pallidi si impadronirono di ventisette di loro, li portarono sul vascello e salparono portandoseli via, prima che potessero essere salvati. C’è da meravigliarsi se Metacomet era convinto che i Bianchi fossero i suoi nemici naturali? Dopo quella volta, disse Massasoit, gli Indiani avevano rifiutato ogni trattativa coi Bianchi. Ogni volta che giungeva in vista una nave degli uomini bianchi, gli Indiani si preparavano a colpire chiunque sbarcasse sulla spiaggia. E adesso era arrivato sulla costa un altro vascello dei Bianchi, e molti membri dell’equipaggio erano sbarcati a terra a dispetto di tutto ciò che poteva essere fatto per impedirlo. Con grande sorpresa degli uomini di Massasoit, c’era un Indiano con quei Visi Pallidi. E quell’uomo si rivelò esse Squanto, uno dei cinque rapiti di quindici anni prima. Questo è solo un accenno di quello che Massasoit disse ai suoi figli. Ai ragazzi sembrava come una favola, e per giorno essi non parlarono d’altro che di questa strana storia.
Nel corso dell’estate seguente il giovane Metacomet udì più di una volta storie interessanti riguardo agli Inglesi. Lo stesso Squanto si recò parecchie volte a trovare Massasoit e da lui Metacomet udì la storia delle sue avventure attraverso il mare. All’inizio dell’autunno, ben prima che Metacomet avesse perso interesse alle storie di Squanto, un’altra nave inglese arrivò sulla costa della patria degli Indiani. L’undicesimo giorno di novembre 1620 la nave si ancorò vicino a Cap Code. Ne sbarcarono sedici Facce Pallide. Essi non si comportarono come gli altri che li avevano preceduti. Non fecero alcun tentativo di fare conoscenza con gli Indiani, ma passavano il tempo a guardarsi attorno ed esaminare il paese.
Gli uomini sbarcati trovarono alcuni contenitori con del mais che erano stati immagazzinati per l’inverno da un Indiano, e li portarono sulla nave. Questo contrariò gli Indiani e possiamo immaginare ciò che passò per la mente al ragazzo Metacomet quando egli udì che gli Inglesi avevano rubato il mais che apparteneva a un povero Indiano, uno degli amici di suo padre. Gli Indiani parlarono del fatto attorno al fuoco dell’accampamento e il piccolo Metacomet ascoltò la storia con altrettanta ansia di quando aveva ascoltato la storia di Squanto, sei mesi prima. Circa una settimana più tardi arrivarono nuove notizie a Mount Hope. I Visi Pallidi avevano visitato la spiaggia una seconda volta e in questa occasione avevano rubato una borsa di fagioli e ancora del mais. La rabbia di Metacomet crebbe nell’udire suo padre parlare del nuovo furto a danno di Indiani.
Nei giorni seguenti Metacomet udì ulteriori notizie sugli Inglesi. Erano sbarcati una terza volta. Gli Indiani li avevano controllati a distanza. Finalmente, quando capitò l’occasione buona, trenta o quaranta Nativi circondarono silenziosamente le Facce Pallide e, al segnale convenuto, ciascuno di loro cominciò a lanciare urla al massimo delle sue possibilità vocali e a tirare frecce contro gli odiati visitatori. Per un certo tempo sembrò che i Visi Pallidi sarebbero stati respinti in acqua. Ma presto reagirono con i loro fucili, e gli Indiani fuggirono, spaventati dal rumore di quelle armi. Metacomet fu grandemente interessato dalla descrizione che fu fatta del fucile. Non ne aveva mai sentito parlare prima e pensò che fosse molto strano che tutti potessero essere spaventati da piccoli pezzi di piombo. Non poteva sapere perché non era facile schivare le pallottole come era facile scansare le frecce.
Una o due settimane dopo ulteriori nuove notizie arrivarono al villaggio di Massasoit. Le Facce Pallide avevano lasciato Cape Cod e avevano navigato attraverso la baia fino a Patuxet (che gli Inglesi battezzarono Plymouth). Qui erano sbarcati e avevano costruito alcune capanne, con l’evidente intenzione di fermarsi per qualche tempo.
Questa era una cosa che gli Indiani non potevano capire. Ogni giorno qualcuno di loro andava sulla sommità della collina che sovrastava il piccolo insediamento per vedere che cosa gli Inglesi stessero facendo. Poi tornavano a Mount Hope con sempre qualcosa di nuovo da raccontare sui Visi Pallidi, e Metacomet ascoltava con attenzione qualunque racconto fosse riferito. Nell’inverno gli Indiani tennero numerosi Consigli, ai quali Metacomet era sempre presente, ed infine uno di loro, di nome Samoset, venne mandato a Plymouth per chiedere agli Inglesi il perché si fossero insediati in quella terra che apparteneva, di diritto, agli uomini rossi.
Samoset ritornò pochi giorni dopo. Fece la sua relazione attorno al fuoco del campo; il piccolo Metacomet, come sempre, poneva grande attenzione a ciò che veniva detto. Samoset disse che I Visi Pallidi erano stati molto gentili con lui, e gli avevano comunicato di essere giunti in questo paese per abitarvi, di voler vivere nella massima amicizia con gli uomini rossi, e che era loro desiderio pagare non solo per il mais e i fagioli che avevano portato via, ma anche per la terra sulla quale avevano costruito il loro villaggio. Alla fine di questo racconto gli Indiani espressero soddisfazione per il comportamento delle Facce Bianche; Metacomet cominciò a pensare che forse gli Inglesi non erano così cattivi come egli aveva pensato che potessero essere. Samoset fu di nuovo inviato dai coloni per comunicare loro che Massasoit e alcuni suoi amici avrebbero avuto piacere di incontrarli per un colloquio sulle molte cose che altrimenti sarebbero potute diventare causa di disaccordo fra di loro. Il messaggero ritornò portando la notizia che gli Inglesi avevano accolto caldamente l’opportunità di incontrare gli Indiani e si erano offerti di incontrarli già il giorno seguente.
Il giorno dopo, Massasoit e sessanta dei suoi guerrieri si recarono in visita dagli Inglesi. Essi non entrarono nel villaggio inglese, ma si fermarono sulla cima della collina che si trovava nelle vicinanze. Con loro non c’era Metacomet: a quel tempo era ancora troppo giovane per allontanarsi tanto da casa. Comunque possiamo immaginare i suoi sentimenti quando vide suo padre partire per il viaggio con i guerrieri.


Gli Inglesi accolgono Massasoit

I guerrieri erano vestiti con costumi che apparivano davvero strani. Il loro abbigliamento era costituito dalla ruvida pelle di animali selvatici. I piedi erano protetti da mocassini di pelle di daino. Ognuno di loro era alto, eretto, dinamico, con lunghi capelli neri che ricadevano sul dorso. Nessuno aveva deformità fisiche, perché era costume delle tribù uccidere ogni bambino che fosse nato sordo, cieco, zoppo o ritardato. Tutti erano ornati con decorazioni personali, che non consistevano in oro, argento, pietre preziose, perché non conoscevano queste cose. I loro ornamenti erano orecchini, anelli da naso, bracciali e collane, costruiti con conchiglie, ossa di pesce o pietre luccicanti, che nei dintorni erano molto comuni. Le facce erano impiastricciate da pesanti strati di colore. Tutti avevano un mantello attorno alle spalle, e indossavano copricapi formati da piume o aculei. A Metacomet sembrava di non aver mai visto nulla di così imponente. Possiamo immaginare con quale entusiasmo Metacomet ascoltò la storia che suo padre raccontò quando tornò a casa: come i coloni uscirono ad incontrarlo sulla collina, e gli regalarono tre coltelli, una cintura di rame e un orecchino, oltre a molte buone cose da mangiare, molto diverse da qualunque cosa egli avesse assaggiato fino a quel momento.
Poi Massasoit descrisse il trattato che aveva concluso con i visi pallidi, con il quale i coloni e i Wampanoag si erano accordati per restare amici e per aiutarsi a vicenda in ogni modo che avessero potuto. Per rendere il trattato il più forte possibile, le facce pallide lo avevano scritto sulla carta e vi avevano scritto i propri nomi. Gli Indiani non sapevano leggere e scrivere. Era qualcosa di cui non avevano mai sentito parlare. Ma essi disegnarono rozze figure alla fine dello scritto e affermarono che quei dipinti erano i loro nomi.
Metacomet non si stancava mai di ascoltare storie sui visi pallidi. Egli era ancora troppo giovane per essere accettato negli insediamenti dei Bianchi, ma aspettava un’occasione per entrare in contatto con loro.
Un giorno di mezza estate dell’anno 1621, circa quattro mesi dopo la stipula del trattato fra gli Indiani e i Visi Pallidi, nel piccolo villaggio nativo di Mount Hope arrivarono sei guerrieri con due uomini, che Metacomet riconobbe subito come uomini bianchi. Non erano alti come gli Indiani, erano più grassi e avevano le facce coperte dalla barba. Massasoit li riconobbe immediatamente, perché erano stati parte del gruppo che lui aveva incontrato a Plymouth. Erano venuti a fargli una visita amichevole, e gli avevano portato un mantello di cotone rosso e una cintura di rame. Metacomet era molto felice di vedere le facce pallide, delle quali aveva sentito così tanto parlare. Ascoltò le loro storie, rispose alle loro domande riguardo alle usanze indiane, imparò tutto quello che poté circa le loro case e i loro costumi. Dopo questo, i coloni invitarono gli Indiani molte volte, e presto Metacomet divenne ben conosciuto fra loro.
Nel corso dei mesi successivi arrivarono molti uomini bianchi dall’Inghilterra, che si stabilirono a Weymouth, poche miglia a nord di Plymouth. Questi nuovi coloni non erano così onesti come quelli che si erano stabiliti a Plymouth. Essi derubavano gli Indiani e li offendevano in altri modi, suscitando il loro malcontento contro i Bianchi in tutta la regione. Ma prima che passassero all’azione, Massasoit si ammalò. Venne chiamato l’uomo della medicina. Questi era il medico della tribù e aveva imparato le virtù mediche di poche semplici erbe. Sapeva come fasciare strettamente le ferite con certe preparazioni di foglie, ed era anche in grado di curare la febbre. Egli eseguiva molte cerimonie magiche a base di grida, gemiti e ululati di vario genere. Se il malato guariva, l’uomo di medicina prendeva tutto il merito; se il paziente moriva, l’uomo della medicina asseriva che se ne era impadronito totalmente il cattivo spirito. Ma l’uomo di medicina non poté aiutare Massasoit. Metacomet, al capezzale di suo padre, lo osservava aggravarsi di giorno in giorno. Ricordava come, solo pochi anni prima, il vaiolo si era portato via un gran numero di Indiani, e ora cominciava a pensare che anche i giorni di suo padre fossero contati.


Il vaiolo tra gli Indiani

Ma un giorno un viso pallido, uno dei capi della colonia di Plymouth, arrivò al villaggio degli Indiani. Allontanò l’uomo della medicina e si prese cura di Massasoit egli stesso. Gli diede medicine, lo nutrì con alimenti prelibati e lo portò lentamente a ristabilirsi in salute. Massasoit fu così grato per la gentilezza dimostratagli che disse alle Facce Pallide che c’erano Indiani che tramavano contro di loro. I Bianchi di Weymouth furono mandati via e i visi pallidi di Plymouth continuarono a vivere nell’amicizia più salda con i Wampanoag.
Negli anni che seguirono Metacomet acquisì grande familiarità con i Bianchi e, benché non li avesse mai amati, aveva grande rispetto per la loro saggezza. Nei vent’anni successivi arrivarono molti altri uomini bianchi a stabilirsi nelle terre dei Wampanoag o nelle vicinanze. Nel frattempo, Metacomet era cresciuto fino alla maggiore età e riceveva la stessa educazione riservata agli altri giovani della tribù. L’educazione era molto differente da quella che davano i Bianchi ai loro giovani. Non imparò l’”abc” e nemmeno le tabelline; non imparò mai a leggere e scrivere; non sapeva nulla della scienza, non sapeva tener di conto o avere un’idea del tempo come lo intendiamo noi. La sua educazione aveva caratteristiche differenti, e mirava a renderlo valoroso, forte, coraggioso e capace di sopportare il dolore, perché gli Indiani pensavano che queste cose fossero della massima importanza. Gli venne insegnato a sopportare le più orribili torture senza un lamento o un segno di angoscia. Si batteva le gambe con bastoni, e correva attraverso rovi spinosi in modo da abituarsi alla sofferenza. Poteva correre molte miglia in un giorno e, senza fermarsi, tornare nei due giorni successivi. Giunto all’età adulta, venne bendato e portato nei boschi lontano da casa, in un posto dove non era mai stato prima. Lì fu lasciato con nient’altro che un’accetta, un coltello, arco e frecce. L’inverno gli stava davanti, e ci si aspettava che lui lo avrebbe superato. Se non fosse stato in grado di farlo, sarebbe stato meglio per lui morire subito.


Accampamento Wampanoag

Metacomet passò un inverno solitario lontano da casa. Molte volte desiderò di tornare al wigwam di suo padre, dove poteva discorrere con i suoi genitori, i fratelli e gli amici e venire a conoscenza delle mosse delle facce pallide. Ma egli sapeva che se fosse ritornato al piccolo villaggio prima della fine dell’inverno, sarebbe stato bollato come codardo, e non sarebbe mai stato considerato degno di succedere a suo padre come sachem. Non aveva paura, ma sentiva la solitudine e avrebbe desiderato di parlare ogni tanto con qualcuno. Con l’accetta tagliava piccoli alberi, li trasformava in pali e li conficcava nel suolo. Con il coltello staccava le cortecce dalle piante tagliate e le poneva sopra i pali, in modo da procurarsi un confortevole riparo dai venti e dalle tempeste che egli sapeva sarebbero presto arrivati. Quindi passò diversi giorni a cacciare gli uccelli e gli animali selvatici. Fece lavorare l’arco e le frecce abbastanza da procurarsi sostentamento per tutto il corso dell’inverno, anche se gli occorsero avventure di ogni genere: più di una volta si coricò la sera senza essere riuscito a toccare cibo per tutto il giorno. Incontrò molti animali selvatici e pericolosi, per cui in diverse occasioni scalò alberi, si rifugiò in grotte o corse più velocemente che poteva per allontanarsi il più possibile dalla loro strada. Ma egli aveva una volontà di ferro. Sapeva che il figlio del grande sachem dei Wampanoag poteva fare ogni cosa che tutti gli altri Indiani avevano fatto. Così passò il lungo, freddo inverno, coraggiosamente e senza lamentarsi.
In primavera, quando il padre e gli amici andarono a cercarlo, lo trovarono forte e in buona salute. Il lavoro invernale lo aveva reso robusto e vigoroso. Così fu portato a casa e venne preparata una festa in onore del figlio di Massasoit che era tornato a casa più forte di quando era andato via, l’autunno precedente. Nel corso delle due lune seguenti, secondo il conteggio mensile indiano, Metacomet condusse una vita indolente, non facendo lavori di alcun genere. Si prendeva una vacanza dopo la dura vita invernale che aveva condotto da solo nei boschi.
Ma l’educazione non era ancora completa. Il suo corpo era divenuto forte, ma era necessario ora rinforzare la sua costituzione contro i malefici effetti dei veleni. Allora andò di nuovo nella foresta, dove raccolse giornalmente erbe e radici amare e velenose. Poi le tagliava per ricavarne succhi che versava nell’acqua, e beveva la mistura. Poi bevette altri succhi, che agivano come antidoti, prevenendo le malattie o la morte. Faceva questo giorno dopo giorno, finché il suo fisico si abituò ai veleni ed egli riusciva a berli liberamente senza subire alcuna conseguenza. Quindi tornò a casa. La gente diede per lui un’altra grande festa, e cantò e ballò. Ora era considerato un uomo, pronto per sposarsi e avere un suo proprio wigwam. La cerimonia del matrimonio fu estremamente semplice. Non c’erano regali, fiori, invitati, banchetto. Semplicemente Metacomet chiese a una certa donna di andare a vivere con lui. Lei accettò e dal quel momento divenne sua moglie, la sua squaw. Non abbiamo notizia della data del matrimonio, gli Indiani non registravano tali avvenimenti. Possiamo solo dire che esso avvenne subito dopo il suo ritorno dalla battaglia contro i veleni nei boschi.
Dal nostro punto di vista la vita quotidiana di Metacomet era molto monotona. Era sempre la stessa, giorno dopo giorno, anno dopo anno. Il piccolo villaggio in cui viveva conteneva poco più di cento abitanti, e ognuno di loro conosceva a fondo tutti gli altri. La vita sociale consisteva solo in visite reciproche. Quanto alla religione, i Wampanoag credevano che ci fossero uno spirito buono e uno cattivo, ma non avevano templi né sacerdoti. Non si facevano attività che istruissero la mente, si aveva cura solo di quelle che servivano a rafforzare il corpo, aumentandone la resistenza, o a sviluppare i muscoli o la scaltrezza. Si praticavano il gioco della palla, il lancio degli anelli, la lotta, la corsa e il salto. In qualche occasione si organizzava una danza di guerra, che era condotta in maniera molto solenne: rappresentava una campagna di guerra o una finta battaglia. Dapprima gli Indiani si riunivano, provenendo da varie direzioni. Poi avanzavano furtivamente e in silenzio, come a preparare un’imboscata e aspettando l’arrivo del nemico, infine saltavano fuori, precipitandosi sul nemico, poi si ritiravano e tornavano a casa. La danza terminava con l’accoglienza a casa e la “tortura” e l’”uccisione” dei prigionieri.


Danza rituale – stampa riferita all’anno 1585

In quel periodo le occupazioni di Metacomet erano la caccia e la pesca. Nelle stagioni dell’autunno e della primavera egli passava a caccia almeno tre mesi. In compagnia del fratello o di qualcuno degli amici più intimi, andava alla ricerca di provviste di carne per la famiglia, e di pelli da vendere ai Bianchi o da usare per farne abiti. Raggiunti i territori di caccia, i cacciatori costruivano un grande wigwam per il ricovero durante la notte. Lì venivano anche immagazzinate le pelli degli animali che avevano ucciso. I boschi del New England ospitavano molte alci e altri animali selvatici e generalmente Metacomet tornava al suo piccolo villaggio con carne sufficiente per tutto l’inverno. Di frequente si presentava a casa con almeno cento pelli di castoro. Ma talvolta Metacomet, come tutti, non aveva fortuna. Di quando in quando perdeva la strada nelle foreste, e in una o due occasioni la zattera sulla quale attraversava un fiume trasportando le pelli si era rovesciata, con il risultato di perdere il frutto di tanta fatica. Catturava le sue prede con l’arco o con le trappole, oppure facendole cadere nelle buche che aveva preparato. Finita la stagione della caccia, cominciava quella della pesca. In genere i pesci venivano presi con la rete, sebbene occasionalmente si usassero ami e lenze. Quando non era impegnato in queste attività, o in incontri con Indiani di altre tribù, se ne stava vicino al suo wigwam, dormendo o osservando i lavori della sua squaw. Infatti tutti i lavori che riguardavano il wigwam venivano svolti dalle squaw che, dal punto di vista indiano, erano praticamente delle schiave. Esse rivestivano e foderavano il wigwam, intrecciavano le stuoie e i canestri; piantavano il mais e le verdure e se ne prendevano cura, occupandosi anche del raccolto; cucinavano il cibo, ma ne mangiavano gli avanzi, e dormivano nel lato più freddo del wigwam.
Nel New England molti Indiani non si preoccupavano molto delle loro squaw, e rendevano loro la vita difficile trattandole in malo modo e non mostrando verso di loro né affetto né amore. Ma viene riferito che Metacomet, dal quel punto di vista, era migliore di altri. Egli amava la moglie e la trattava come una compagna di vita, piuttosto che una schiava.
Le donne arrostivano la carne ponendola sulla punta di un bastone sopra il fuoco, oppure la cuocevano su carboni ardenti o pietre calde. La carne bollita si preparava in rudimentali vasi di pietra, terra o legno, contenenti acqua che veniva portata a ebollizione introducendovi pietre roventi. Il solo attrezzo da giardino conosciuto era una specie di zappa, fatta con una grande conchiglia o con l’osso della spalla di un alce, assicurato a un manico di legno. Gli Indiani avevano anche una rudimentale scure fatta con un pezzo di pietra, arrotata preventivamente per mezzo di un’altra pietra, e legata a un manico di legno. Le frecce e le lance avevano punte d’osso o fatte con pezzi triangolari di selce. Tutto questo era fabbricato personalmente dal guerriero a casa sua. Le donne coltivavano il mais, le zucche e i cocomeri, mentre gli uomini andavano a caccia e a pesca. Questi, insieme a nocciole, radici e bacche, erano tutti i cibi di cui l’Indiano necessitava, e Metacomet non faceva eccezione.
Così si svolgeva la vita di Metacomet, anno dopo anno, con qualche piccolo cambiamento ogni tanto. Qualche volta egli incontrava le facce pallide nei boschi o al villaggio di suo padre. Ogni tanto si recava a Plymouth per commerciare con loro e parecchi li considerava suoi amici personali. Lui, suo padre ed altri Wampanoag continuarono a mantenere relazioni di amicizia con gli Inglesi, sebbene diverse altre tribù non lo facessero. Tra gli anni 1628 e 1640 molti Bianchi si stabilirono a quaranta o cinquanta miglia a nord di Plymouth, nei luoghi che oggi si chiamano Boston e Salem, e in altre città e paesi nei pressi della Massachusetts Bay. Altri occuparono l’interno, sul fiume Connecticut, a circa settantacinque miglia ad ovest di Mount Hope, la sede di Metacomet. Vi erano anche nuovi insediamenti a Providence e altri ancora a Rhode Island, a circa ventI miglia a sud di Mount Hope.


La colonizzazione del New England nel XVII secolo

I coloni del Connecticut avevano problemi con i Pequot, una tribù che viveva ad ovest dei Wampanoag. Nella guerra che seguì tutti Pequot vennero uccisi. Anche con i Narragansett, che abitavano vicino a Providence, c’erano contrasti, con scontri che si verificavano ogni uno o due anni e che si prolungarono molto a lungo. Nel corso di questi anni Metacomet e suo padre non fecero nulla che fosse in certo qual modo offensivo verso i coloni. Si rifiutarono di supportare gli altri Indiani nelle guerre contro gli Inglesi, preferendo restare fedeli al loro primo trattato con i Bianchi; e costoro rimasero nei più grandi rapporti di amicizia con loro.
Metacomet non sapeva nulla della religione cristiana. Furono fatti molti tentativi da parte dei Bianchi per convertire gli Indiani alla cristianità. Nel 1646 John Eliot tradusse la Bibbia in lingua indiana, insegnò ai Nativi l’organizzazione inglese dell’industria manifatturiera e dell’agricoltura, e fondò vicino a Boston due paesi abitati interamente da Indiani convertiti. Nello stesso momento, Thomas Mayhew predicava ai Wampanoag di Matha’s Vineyard, convertendone in gran quantità. Nell’anno 1675 quattromila Indiani erano stati convertiti al cristianesimo. Ma i missionari non ebbero successo con Metacomet e i Wampanoag di Mount Hope, che si rifiutarono decisamente di ascoltare i predicatori. Essi preferivano il loro primitivo modello di vita e pensavano che ci fossero molte buone ragioni per effettuare questa scelta. Metacomet notava come molti uomini bianchi che si definivano “cristiani” avevano l’abitudine di derubare gli uomini rossi, e di imbrogliarli ogni volta che potevano. In questo modo non era senz’altro indotto a pensare che la religione cristiana rendesse più felici, più onesti o migliori di quanto egli stesso non fosse. Ancora, egli aveva notato che, non appena gli Indiani erano convertiti, abbandonavano il precedente modello di vita, i loro amici, e si univano agli Inglesi. Ciò tendeva a diminuire il controllo dei capi sulle tribù, e ridurre così il loro potere. Egli comprese così i rischi che potevano derivare da un cambio di religione. Nonostante questo, Massasoit e i suoi figli rimasero fortemente amici della gente di Plymouth fino al 1661, quando lo stesso Massasoit morì, all’età di quasi ottant’anni.
Secondo l’usanza indiana, Wamsutta, il primogenito di Massasoit, succedette a suo padre come Grande Sachem dei Wampanoag. Una delle sue prime iniziative fu di andare a Plymouth, dove fece alcune richieste ai coloni, che le accolsero subito. Poi richiese che gli fosse attribuito un nome inglese, ricevendo l’appellativo di “Alessandro”. Si compiacque tanto di questo nome che ne chiese uno anche per il fratello più giovane, Metacomet. Gli Inglesi lo chiamarono “Filippo”, nome con il quale venne chiamato per il resto della sua vita. Pochi giorni dopo, dieci uomini armati apparvero improvvisamente nel luogo dove Wamsutta e diversi dei suoi seguaci stavano tenendo una festa, e li arrestarono tutti. Wamsutta venne subito portato a Plymouth e accusato di complottare contro gli Inglesi assieme ai Narragansett. Essere catturati con la forza nel loro stesso territorio e costretti ad andare a Plymouth a rispondere ad accuse basate solo su voci, era una nuova esperienza per i Wampanoag. Era una cosa molto diversa dai modi amichevoli con cui essi erano stati trattati in precedenza. Comunque a Plymouth gli Inglesi trattarono Wamsutta molto bene. Non potevano provare nulla contro di lui e perciò ben presto lo rilasciarono. Sulla strada del ritorno, Wamsutta morì.
Poiché Wamsutta non aveva lasciato figli, gli succedette il fratello Filippo. Non ci fu nessuna cerimonia di incoronazione, né cortei, né discorsi, perché in effetti non si trattava di un monarca. Semplicemente gli altri Indiani obbedivano a Filippo come in precedenza avevano obbedito a suo padre e a suo fratello. Filippo e tutti i membri della tribù Wampanoag credevano che la morte di Wamsutta fosse dovuta ad un veleno che gli era stato propinato dai Bianchi quando si trovava a Plymouth. Secondo l’uso indiano, era dovere di Filippo esercitare il diritto di vendetta su coloro che avevano causato la morte di suo fratello. Tuttavia Filippo non fece alcun tentativo di recare offesa in alcun modo alle facce pallide. Ma i Bianchi divennero sospettosi, probabilmente perché sapevano di aver agito male: ben presto convocarono Filippo a Plymouth per rispondere all’accusa di complotto contro di loro.


Morte di Wamsutta

Nella circostanza Filippo agì in maniera molto leale. Invece di nascondersi nella foresta, come avrebbe potuto fare facilmente, si recò a Plymouth. Là ebbe un lungo colloquio con i Bianchi, negando di aver complottato contro di loro. Dimostrò che era contro il suo stesso interesse avere qualunque contrasto con loro e, come prova delle sue buone intenzioni nei loro riguardi, offrì di lasciare in ostaggio il suo fratello più giovane. Si stipulò un accordo, nel quale Filippo assicurò di continuare a rispettare il trattato che Massasoit aveva firmato quarant’anni prima. Ma egli andò oltre, riconoscendosi fedele suddito del Re d’Inghilterra e promettendo anche di non fare guerra ad alcuna tribù indiana senza che prima gli Inglesi avessero dato il loro consenso. Per molti anni Filippo fu grande sachem dei Wampanoag e tenne fede al trattato con grande fedeltà. In questo periodo i suoi doveri furono simili a quelli che aveva avuto suo padre e la sua vita fu priva di eventi eclatanti.

Era consultato dagli altri capi della tribù, che in genere seguivano il suo parere. Come suo padre, il buon Massasoit, era incline ad essere conservatore: in pratica, non gli piaceva cambiare l’ordine stabilito delle cose. Era molto amato dagli Indiani, che capivano come egli cercasse di trattarli tutti con onestà ed equità. Si recava frequentemente a Plymouth, a visitare i Bianchi e a commerciare. Allo stesso modo le Facce Pallide venivano spesso a Mount Hope a fargli visita.
Le relazioni fra Bianchi e Indiani erano tali che era perfettamente sicuro per un uomo bianco andare ovunque in territorio Wampanoag completamente disarmato. Ciò è qualcosa che non si può dire per ogni altra tribù indiana nel periodo coloniale. Gli Indiani, agendo sotto gli ordini di Re Filippo, trattavano i Bianchi con giustizia e onestà. Di conseguenza s’era creato un sentimento di grande amicizia fra i due popoli.
Dieci anni trascorsero in pace, eccetto che per un piccolo episodio che avvenne nel 1667, sei anni dopo che Filippo era diventato sachem. Un Indiano aveva detto alla gente di Plymouth che Filippo aveva espresso il desiderio che gli Olandesi battessero gli Inglesi nella guerra che si stava allora combattendo fra le due nazioni. Gli abitanti di Plymouth si sorpresero molto di questo, e chiamarono subito Filippo a rendere conto. Ma egli negò di aver mai preso una simile posizione e offrì di consegnare tutte le sue armi agli Inglesi per dimostrare che lui non aveva progetti ostili contro di loro. Questo soddisfò gli Inglesi. Le cose continuarono ad andare bene fino al 1671, quando cominciare a sorgere dei contrasti fra i due popoli.
In quell’anno Filippo si lamentò perché gli Inglesi non mantenevano gli impegni presi con l’accordo di dieci anni prima. Dietro richiesta della gente di Plymouth, Filippo si recò a Taunton, un villaggio situato nelle vicinanze dei suoi territori di caccia, per parlare con loro della questione. Era accompagnato da una banda di guerrieri dipinti e armati fino ai denti. L’incontro ebbe luogo nella piccola chiesa del villaggio. Filippo e i suoi guerrieri sedevano da un lato, gli Inglesi dall’altro. A presiedere l’incontro venne scelto un uomo proveniente da Boston, che si riteneva essere in rapporti amichevoli con entrambe le parti. Indiani e coloni fecero discorsi uno dopo l’altro. Filippo ammise che ultimamente aveva cominciato a prepararsi per la guerra e anche che qualcuno dei suoi Indiani non aveva trattato i Bianchi secondo giustizia. Ma dimostrò anche che a loro volta anche gli Inglesi si stavano armando, e che molti di loro avevano imbrogliato gli Indiani nel commercio. Filippo disse di preferire la pace alla guerra e che aveva armato i guerrieri per auto difesa. Infine si decise di stipulare un nuovo trattato.
Questo è il trattato come esattamente venne stilato. Notare il modo pittoresco di esprimere le idee e, anche come molte parole non vengono usate nella maniera di oggi. Notare anche che il documento è a senso unico, in quanto fu firmato solo da Filippo e dagli Indiani.

Trattato di Taunton – 10 Aprile 1671

In considerazione del fatto che mio Padre, mio Fratello, e io stesso abbiamo formalmente sottomesso noi stessi e il nostro popolo sotto i Re Maestà d’Inghilterra e questa Colonia di New Plymouth, con Patto solenne di nostra mano, ma avendo io di recente mostrato la mia indelicatezza e la disobbedienza del mio cuore, violato e spezzato questo mio Patto con i miei amici prendendo le armi, con intento malefico nei loro confronti, e ciò senza fondamento; essendo io ora profondamente consapevole della mia infedeltà e follia, desidero in questo momento rinnovare solennemente il Patto con i miei vecchi amici e gli amici di mio Padre sopra menzionato; e desidero che questo possa testimoniare al mondo contro di me se io dovessi mai ricadere nuovamente nell’infedeltà verso di loro (che io ora ed in ogni tempo ho trovato così cortesi nei miei riguardi) o verso ogni altra Colonia inglese; e come pegno reale delle mie buone intenzioni, che per il futuro saranno fedeli e amichevoli, mi impegno rinunciare, verso il Governo di New Plymouth, a tutte le mie armi di fabbricazione inglese, che gli Inglesi preleveranno per la loro sicurezza fina a quando essi stessi ne vedranno motivo. A leale conferma delle Premesse io ho posto a questo riguardo la mia mano insieme agli altri componenti del mio Consiglio.
Le firme: in presenza di William Davis, William Hudson, Thomas Brattle. Il segno di Filippo, sachem di Pokanoket, Tavoser, Capt. Wisposke, Woonkaponehunt, Nimrod.


La firma del trattato di Taunton

Ma Filippo dubitava della sincerità degli Inglesi. Esitava a consegnare loro le armi. Allora i coloni gli ordinarono di tornare a Plymouth a spiegarne i motivi. Invece di obbedire, egli si recò a Boston a lamentarsi là del trattamento che aveva ricevuto. Riferì che suo padre, suo fratello ed egli stesso avevano stipulato trattati di amicizia con gli Inglesi, i quali avevano tentato di trasformarli in trattati di sottomissione. Egli riferì di essere soggetto al Re d’Inghilterra, ma non alla Colonia di Plymouth e che non vedeva nessuna ragione per cui la gente di Plymouth dovesse cercare di trattarlo come un suddito. I coloni del Massachusetts mediarono ancora la pace tra Filippo e gli abitanti di Plymouth. Ma la cosa non poteva continuare, perché ciascuna parte ora era divenuta molto sospettosa nei riguardi dell’altra.
Nel 1674 un Indiano riferì ai coloni che Filippo brigava perché i sachem del New England dichiarassero guerra ai Bianchi. Pochi giorni dopo, il corpo dell’Indiano fu trovato in un lago. Gli Inglesi arrestarono tre Indiani e li processarono per l’omicidio. Essi furono dichiarati colpevoli e giustiziati, sebbene le prove contro di loro avevano una consistenza tale che non sarebbero mai state ammesse in una corte di giustizia contro un uomo bianco. Filippo ripensava a tutta la questione. Sentiva che gli Inglesi avevano fatto agli Indiani una grande ingiustizia. In primo luogo, la terra in origine era appartenuta agli Indiani. Non aveva un grande valore per loro, perché la usavano principalmente a scopi di caccia. Così avevano ceduto molto volentieri parecchi acri agli Inglesi in cambio di chincaglieria di molto poco valore – come coltelli a serramanico, perline di vetro, campanelli o coperte. Inoltre gli Inglesi avevano proibito ai Nativi di vendere la loro terra a qualunque uomo bianco. Avevano solo il permesso di vendere al governo coloniale. Questo ufficialmente allo scopo di proteggere gli Indiani dagli uomini bianchi che volevano imbrogliarli; ma Filippo vedeva solo che ciò gli impediva di alienare qualcosa che per lui aveva poco valore, per ottenere in cambio delle cose che gli interessava avere in cambio.
Prima dell’arrivo degli Inglesi, i boschi erano pieni di cacciagione e i torrenti abbondavano di pesce. Adesso Filippo notava che la cacciagione stava sparendo dai boschi e i pesci dai fiumi. Sentiva che gli Indiani si stavano impoverendo, mentre gli Inglesi diventavano sempre più ricchi. Ormai agli Indiani appartenevano solo le terre più povere: tutte le migliori erano nelle mani degli uomini bianchi. Filippo era anche stanco dell’aria di superiorità che i Bianchi avevano assunto. Essi consideravano gli Indiani adatti solo per fare i servi e gli schiavi, mentre lui pensava che il suo popolo fosse buono quanto quello dei visi pallidi. Sentiva che il legame di comprensione e simpatia fra i due popoli era stato rotto. In risposta alle sue molte lamentele e richieste, gli Inglesi avevano mancato nel punire gli uomini bianchi senza scrupoli che avevano trattato male gli Indiani. Infine, quegli Indiani che si erano convertiti alla cristianità avevano lasciato le loro tribù e il loro precedente modo di vivere. Questo aveva indebolito la potenza degli Indiani e Filippo era giunto a pensare che gli Inglesi volessero cristianizzare i Nativi semplicemente allo scopo di assumere il controllo sulle loro terre. Comunque la questione era troppo complessa per un solo capo, quindi radunò tutti i sachem dei Wampanoag, e trattò il problema insieme a loro. Si tennero varie riunioni e ciascun membro espresse liberamente la sua opinione sulla questione.
La domanda che sorse allora fu: che cosa avrebbero dovuto fare? Divenne ben presto evidente che vi erano due opinioni opposte. Non era costume degli Indiani votare su ogni argomento posto in discussione nel loro consiglio. Essi discutevano a lungo della questione e poi seguivano il piano che alla maggior parte di loro sembrava il migliore. Ma in quel momento essi non erano in grado di decidere cosa fare per riottenere quello che avevano perduto e come evitare di perderne ancora. E così ripresero a discutere altre prospettive.


Consiglio di guerra

Cinquantacinque anni di pace e di amicizia con gli Inglesi avevano avuto per risultato il concedere all’uomo bianco tutti i territori di qualche valore, mentre i Wampanoag stavano diminuendo di numero e ogni anno trovavano sempre più difficoltà a vivere.
I giovani guerrieri premevano per un’azione immediata. Volevano la guerra, e la volevano subito, e desideravano proseguirla finché gli Inglesi non fossero stati scacciati dal paese. Filippo si opponeva a questo. Sapeva quanto fossero forti gli Inglesi e che sarebbe stato impossibile scacciarli. Egli disse che il tempo in cui gli Inglesi avrebbero potuto essere cacciati ormai era passato. Egli usò la sua influenza con i vecchi guerrieri e per un po’ di tempo riuscì a tenere in scacco i più giovani. Sentiva che gli Indiani non sarebbero mai riusciti a vincere una guerra contro gli Inglesi dal momento che la tribù possedeva solo trenta fucili e non aveva da parte provviste da poter sfruttare in una lunga guerra.
Volendo esaminare più a fondo le cause della guerra che scoppiò, possiamo dire che le stesse si possono ricondurre in parte alla condizione delle colonie in quel tempo, in parte al carattere di Filippo. Gli insediamenti inglesi si stavano estendendo verso i territori selvaggi dell’ovest, terra degli Indiani, e aumentavano rapidamente la loro forza. I Nativi li consideravano intrusi e valutavano la probabilità che, un giorno non lontano, sarebbero stati spogliati dell’eredità dei loro padri. Erano guardinghi sulle intenzioni degli Inglesi e irritati per le violazioni già perpetrate. Si consideravano i veri signori delle foreste e vedevano che i loro territori di caccia erano ridotti, che gli animali selvatici da cui dipendevano per sopravvivere stavano sparendo, mentre l’uomo bianco abbatteva gli alberi, coltivava la terra ed erigeva le sue abitazioni.


Puritani inglesi del New England – dipinto di Jennie A. Brownscombe

In considerazione di questa avanzata dei Bianchi, sembrava che al Nativo selvaggio non restasse altro che rassegnarsi ad essere rimosso dai suoi amati luoghi e perdere i suoi adorati possedimenti, o ribellarsi e, con un disperato tentativo fatto di forza e di valore, riconquistare ciò che gli apparteneva.
John Sassamon, un Nativo convertito al Cristianesimo, giocava all’epoca un ruolo chiave in qualità di “mediatore culturale”, negoziando con entrambe le parti senza appartenere a nessuna delle due. Fra i primi laureati dell’ Harvard College, fungeva da interprete e consulente per Metacomet. Egli riferì al governatore della Colonia di Plymouth che Filippo meditava di raccogliere alleati tra i Nativi per attaccare gli insediamenti coloniali sparsi per il territorio. Filippo venne portato davanti a una pubblica corte, dove gli ufficiali di corte ammisero di non avere prove a suo carico, ma lo avvertirono che, se avessero avuto ulteriori rapporti a lui sfavorevoli, le terre e le armi dei Wampanoag sarebbero state confiscate. Non molto tempo dopo, il corpo di Sassamon venne ritrovato ad Assawompset Pond. Si è sempre discusso se la sua morte fosse il risultato di un incidente, suicidio oppure omicidio. Gli ufficiali della Colonia di Plymouth arrestarono tre Wampanoag, compreso uno dei consiglieri di Filippo. Sulla testimonianza di un Nativo, una giuria che comprendeva sei anziani della tribù giudicò i tre colpevoli dell’assassinio di Sassamon. Essi furono impiccati l’8 giugno 1675 a Plymouth. Molti Wampanoag ritennero che sia il processo che la sentenza della corte violassero la sovranità della tribù. I giovani guerrieri cominciarono a rubare dei maiali e altro bestiame dei coloni e in nella piacevole domenica del 20 giugno effettuarono un’incursione contro la cittadina di Swansea. Mentre i cittadini erano in chiesa, una banda di giovani guerrieri del gruppo Pokanoket incendiò alcune case isolate nei dintorni del villaggio, che era il più vicino alla base Wampanoag di Mount Hope. Poi assediarono il villaggio, che distrussero cinque giorni dopo, uccidendo parecchie persone.

Filippo in quell’occasione non era con i guerrieri. L’attacco contro i Bianchi era stato condotto contro i suoi espressi ordini. Quando apprese che Indiani e coloni si erano veramente scontrati in battaglia, pianse per il dispiacere, cosa che un Indiano fa molto raramente. Il 27 giugno 1675 si verificò un’eclissi di luna in tutta l’area del New England. Varie tribù del luogo lo considerarono un buon auspicio per attaccare i coloni.
Intanto gli ufficiali delle colonie di Plymouth e di Massachusetts Bay risposero con prontezza agli attacchi contro Swansea: il 28 giugno mandarono una spedizione militare punitiva che distrusse il villaggio dei Wampanoag di Mount Hope (oggi Bristol, Rhode Island). Subito dopo Filippo abbandonò il suo luogo di residenza, lasciandolo agli Inglesi. La causa della sua precipitosa ritirata fu la seguente: avendo gli Inglesi bisogno di rinforzi, le autorità di Boston inviarono il maggiore generale Savage con 60 cavalieri e parecchi uomini di fanteria. Essi setacciarono il territorio marciando verso Mount Hope, dove si supponeva si trovassero Filippo e sua moglie in quel momento. Giunsero nelle vicinanze senza essere scoperti, così Filippo fu costretto ad interrompere la cena e a dileguarsi nei boschi, insieme a quelli che erano con lui. Gli Inglesi lo inseguirono nelle paludi fin dove essi poterono spingersi, uccidendo una quindicina di Indiani. Su richiesta di Benjamin Church, una compagnia di 36 uomini venne posta agli ordini suoi e del capitano Fuller, e l’8 luglio arrivò fino alla località di Pocasset Neck. Questa spedizione, già poco numerosa, si divise ulteriormente: Church prese 19 uomini, Fuller i restanti diciassette. Il gruppo di Church raggiunse un punto chiamato Punkateeset (oggi la parte meridionale di Tiverton), dove venne attaccato da circa 300 Indiani. Dopo pochi minuti di sparatoria, gli Inglesi retrocedettero fino alla spiaggia, salvandosi dalla completa distruzione; infatti Church aveva capito che l’ intenzione degli Indiani era di circondarli completamente. In ogni caso anche ora potevano aspettarsi ben poco, se non perire tutti, ma sapevano di essere nella situazione di poter vendere cara la pelle.
Così circondato, Church aveva un duplice compito da perseguire: tenere alto lo spirito dei suoi uomini, parecchi dei quali si vedevano in situazione disperata, ed erigere barricate di pietre per difenderli. Poiché erano stati approntati dei battelli al servizio degli Inglesi della spedizione, dalla sua postazione difensiva il gruppo guardava ad essi come alla salvezza, ma sebbene le barche fossero comparse, esse erano state prese sotto il fuoco degli Indiani, e Church, in un momento concitato, ordinò loro di andarsene. Gli Indiani, ora rinfrancati, intensificarono il fuoco. Ora la situazione degli Inglesi s’era fatta disperata al massimo, sebbene, miracolosamente, nessuno di loro fosse stato nemmeno ferito. Stava arrivando la notte e le munizioni erano quasi finite e gli Indiani si erano impadroniti di una casa di pietra che sovrastava la posizione nemica. Ma, proprio in tempo per salvare gli assediati, si vide arrivare un’imbarcazione diretta verso la riva. Era comandata da un uomo risoluto, il capitano Golding, che fece imbarcare la compagnia, utilizzando una canoa e portando solo due uomini per volta verso la nave. Durante questo tempo, gli Indiani ricaricavano le loro armi da fuoco e Church, che fu l’ultimo ad imbarcarsi, a stento sfuggì alle pallottole del nemico, una delle quali gli sfiorò i capelli ed un’altra che si piantò in un palo che stava davanti a lui, proprio all’altezza del suo petto. Il gruppo del capitano Fuller ebbe analoga fortuna, e scampò al nemico rinchiudendosi in una vecchia costruzione che sorgeva proprio sulla riva del mare, venendo più tardi tratto in salvo dalle imbarcazioni. Il gruppo ebbe due feriti.
Poco dopo Church si unì a un corpo di spedizione inglese e penetrò di nuovo in Pocasset, rinnovando le schermaglie con gli Indiani. Non molto tempo dopo arrivò sul posto il corpo principale della spedizione inglese; a questo punto Filippo si ritirò nei recessi di una grande palude. Qui la sua situazione fu, per un certo tempo, estremamente critica; ma alla lunga riuscì ad eludere gli assedianti e, nella fuga, si rifugiò presso i Nipmuck, dai quali fu accolto senza difficoltà.


La fuga da Mount Hope

La guerra si accese rapidamente, coinvolgendo ben presto le tribù Podunk e Nipmuck. L’intera popolazione del villaggio di Middleborough trovò rifugio entro i confini di un forte costruito lungo il fiume Nemasket. Dopo non molto tempo questi coloni si spostarono più al sicuro nella Colonia di Plymouth; in loro assenza, l’intero villaggio di Middleborough venne incendiato e raso al suolo. Occorsero molti anni prima che potesse essere ricostruito. L’8 luglio fu la volta di Dartmouth, che subì un pesante attacco, e il 14 luglio toccò a Mendon, dove molti residenti furono uccisi e venne distrutto il mulino di Albee. Questi furono i primi coloni morti dello stato del Massachusetts in questa guerra. Si conosce il nome del primo colono ucciso a Mendon, un certo Richard Post di Post’s Lane. La città subì un altro attacco più tardi, all’inizio del 1676, in seguito al quale venne praticamente distrutta; fu ricostruita poi nel 1680.
Nello stesso momento i coloni mandavano Ephraim Curtis da Boston ad ovest, nel territorio Nipmuc, per trattare con la tribù e ottenerne la lealtà verso gli Inglesi. La spedizione Curtis trovò solo villaggi vuoti, il che significava che c’era qualcosa già in atto. Appena riuscì a individuare l’esatta posizione del grande sachem dei Nipmuc, Muttawmp, Curtis si accordò per fissare un incontro in un luogo stabilito. Ma egli non sapeva che era troppo tardi per i negoziati, perché i Nipmuc, sotto il comando del sachem Matoonas, avevano già attaccato Mendon e si erano uniti alla rivolta di Metacom. Dopo poco, Curtis venne raggiunto dal capitano Thomas Wheeler e dal capitano Edward Hutchinson. Il 14 luglio, lo stesso giorno in cui Matoonas attaccava Mendon, Curtis e i suoi incontrarono Muttawmp. In quel momento Muttawmp si considerava già in guerra con gli Inglesi; e mentre i suoi guerrieri si comportavano in maniera rude con gli emissari bianchi, lo stesso sachem riteneva fosse meglio fingere amicizia con i coloni e così disse a Curtis che egli stesso si sarebbe presentato a Boston entro sette giorni.
Dopo che Curtis fu tornato a Boston ed ebbe informato i suoi superiori dell’accordo, venne presa la decisione di non aspettare l’arrivo di Muttawmp, ma di mandare invece i capitani Hutchinson e Wheeler con trenta soldati a cavallo, con alcune guide native Natick (Indiani convertiti), per negoziare direttamente con il sachem dei Nipmuc. Il gruppo giunse a New Norwich il 31 luglio, ma trovò il villaggio deserto. Allora vennero a sapere che i Nipmuc avevano spostato il loro accampamento principale a circa 10 miglia da Brookfield e mandarono Curtis con le guide indiane a parlare ancora con Muttawmp. Nuovamente gli emissari vennero trattati rudemente dai guerrieri Nipmuc, mentre Muttawmp continuava il suo raggiro e si accordò per incontrare Hutchinson a Brookfield il giorno seguente. Quando il giorno dopo i coloni arrivarono sul posto prestabilito non trovarono nessuno. A questo punto le guide Natik tentarono di persuadere gli Inglesi a tornare a Brookfield. Invece Hutchinson e Wheeler decisero di marciare verso il campo Nipmuc, dove si era svolto l’incontro del giorno precedente. Per arrivare fin là, gli Inglesi dovevano attraversare una palude, passando per uno stretto sentiero in fila indiana. Nonostante le molte proteste delle guide indiane, Hutchinson e Wheeler decisero di rischiare, pur essendo consapevoli che sarebbero potuti cadere in una trappola.
Infatti non avevano percorso 400 metri che i guerrieri di Muttawmp spuntarono dalle alte erbe della palude e li attaccarono con gli archi e i fucili. Quando gli Inglesi fecero dietro front e cercarono di fuggire per lo stretto sentiero, trovarono un altro gruppo di Nipmuc che bloccò loro la ritirata. La pattuglia dei coloni era così totalmente disorganizzata che inizialmente non fu nemmeno in grado di rispondere al fuoco. Sia Hutchinson che Wheeler rimasero seriamente feriti. Nell’attacco iniziale furono uccisi altri otto uomini, mentre molti altri vennero feriti.


Milizia inglese

L’intera compagnia sarebbe stata probabilmente annientata se non fosse stato per le guide Natik, una delle quali assunse il comando al posto dei due capitani inglesi feriti e riuscì a condurre i superstiti inglesi fuori dalla trappola, sulle colline nei dintorni della palude. Scampato il pericolo immediato, la truppa si diresse verso Brookfield, pienamente consapevole che Muttawmp era all’inseguimento. Wheeler e gli uomini restanti, guidati dagli scout Natik, si rifugiarono nell’insediamento inglese di Quabaug (che in seguito divenne la cittadina di west Brookfield). Il villaggio era relativamente isolato, il che significava che nessun aiuto sarebbe presto arrivato, anche se i coloni delle restanti parti del New England avessero avuto notizia dell’attacco.
A Brookfield i soldati si radunarono nella casa del sergente John Ayers (il quale era rimasto ucciso nell’imboscata) e qui essi vennero raggiunti da circa 70 abitanti del villaggio, che avevano appreso dell’imminente attacco Nipmuc. L’edificio di Ayers era la costruzione più grande di tutto l’insediamento. Una volta all’interno della casa, Wheeler, che si era ripreso, prese di nuovo il comando dei suoi uomini e ordinò loro di fortificare le difese. L’ esterno venne rinforzato con dei tronchi ammassati frettolosamente, e l’interno con dei materassi di piume per smorzare la forza delle pallottole. Si tentò anche di mandare due soldati in cerca di aiuto, ma essi non riuscirono a partire prima dell’arrivo di Muttawmp e dei suoi guerrieri. Nell’edificio di Ayers c’erano in quel momento circa 80 persone. Quando gli Indiani irruppero nel villaggio, alcuni di loro presero a bersagliare il fortino con un fuoco costante, mentre altri rubavano il bestiame, saccheggiavano le altre case e poi le incendiavano. Una volta che Muttawmp ebbe radunato tutti i suoi uomini e circondato completamente l’edificio, lanciò tre attacchi successivi. Tutti e tre furono infruttuosi e le sole perdite inglesi riscontrate il primo giorno furono due coloni che avevano fatto l’errore di portarsi all’esterno ed erano stati subito uccisi. Muttawmp si rendeva conto che era necessario un approccio differente.
Il secondo giorno dell’assedio, all’alba, Muttawmp e i suoi uomini riempirono un carro del villaggio con materiale combustibile e lo spinsero contro l’edificio fortificato, sperando di incendiarlo e costringere così i difensori allo scoperto. Il piano però non funzionò, a causa della forte pioggia che cominciò a cadere mentre il carro era ancora in preparazione. Nella confusione che accompagnò questi preparativi, Ephraim Curtis riuscì a sgattaiolare fuori della casa e a raggiungere i boschi con una corsa affannosa. Infine raggiunse Malborough, sebbene a quel punto la milizia coloniale del villaggio fosse già stata avvertita da alcuni viaggiatori dei fatti che si stavano verificando a Brookfield. E infatti un gruppo di quarantotto dragoni, comandato dal maggiore Simon Willard, capo militare della Middlesex County, Massachusetts, che si trovava nelle vicinanze di Lancaster, aveva appreso delle condizioni critiche di Brookfield. Con una marcia forzata di trenta miglia si affrettò verso il posto e lo raggiunse la notte del 3 agosto. Gli Indiani furono costretti a interrompere l’assedio. In seguito continuarono ad arrivare rinforzi, finché alla fine Willard si trovò al comando di 350 soldati inglesi e un numero imprecisato di Indiani Mohegan alleati.
La battaglia continuò fino alla mezzanotte del 4 agosto, ma nessuno dei due schieramenti riusciva a sloggiare l’altro dalla sua posizione finché Muttawmp, che aveva capito di aver ottenuto molto di ciò che si aspettava (compresi i rifornimenti fondamentali provenienti dal saccheggio di Brookfield), decise che non era il caso di rischiare la morte di altri suoi guerrieri e si ritirò dal campo di battaglia. Quindi condusse i suoi guerrieri a Hatfield. Lo stesso Metacom, con 40 guerrieri Wampanoag, arrivò là poco più tardi. Metacom – Re Filippo, sentito lo svolgimento dell’attacco, ricompensò i capi Nipmuc con cinture wampum.


Il carro infuocato di Brookfield – stampa del 1827

Il maggiore Willard lasciò ben presto la regione di Brookfield, per trasportare la maggior parte delle sue truppe ad Hadley, al fine di proteggere l’insediamento colonico ivi esistente. Completata la sua missione, tornò a Boston, lasciando ad Hadley i capitani Lathrop e Beers. Ad un miglio circa dalla cittadina, un certo numero di Indiani convertiti che abitavano nelle vicinanze occupò un piccolo forte disabitato. In considerazione delle difficoltà che c’erano nella regione, costoro, come tutti gli altri Indiani, erano controllati e sospettati di connivenza con Filippo. Per mettere alla prova la loro fedeltà, Lathrop e Beers, al comando di una compagnia di centoottanta uomini, ordinarono a questi Nativi di arrendersi e cedere le armi. Questi esitavano a conformarsi all’ordine, ma promisero una pronta obbedienza. Ma la notte seguente, il 25 agosto, essi abbandonarono il forte e risalirono il fiume verso Deerfield per andare a congiungersi a Filippo. Alle prime ore del mattino dopo i capitani inglesi cominciarono l’inseguimento e li raggiunsero mentre si trovavano in una palude di fronte all’attuale cittadina di Sunderland, dove cominciò un’aspra battaglia. Gli Indiani combatterono valorosamente, ma infine furono messi in fuga, perdendo 26 guerrieri. Gli Inglesi persero 10 combattenti. Gli Indiani fuggiti raggiunsero i guerrieri di Filippo, mentre Lathrop e Beers tornarono alla loro sede di Hadley.
Il 22 agosto gli Indiani effettuarono una scorreria contro la cittadina di Lancaster (Massachusetts). Entrati nel villaggio in ordine sparso, con la tattica di muoversi furtivamente per colpire il più possibile prima che si potesse dare l’allarme, gli Indiani uccisero otto persone in zone differenti dell’abitato, per sparire subito dopo nell’oscurità della foresta e delle paludi circostanti.
Il 2 settembre 1675 per gli abitanti di Northfield era una giornata come le altre. Voci di attacchi indiani erano circolate per tutta l’estate e la cittadina aveva richiesto a Hadley rinforzi per i soldati della locale guarnigione, ma non si era ancor visto nessun aiuto. Improvvisamente crepitarono colpi di fucile e donne e bambini corsero al forte in cerca di salvezza. Gli uomini, intenti al raccolto del grano nei campi, furono colti di sorpresa e otto rimasero uccisi. Il bestiame venne macellato sul posto dagli attaccanti, il grano distrutto e alcuni edifici incendiati. I sopravvissuti si raggrupparono dentro il forte, con nelle orecchie i colpi di fucile, le urla degli attaccanti e i lamenti del bestiame.
Nel frattempo, Hadley aveva effettivamente inviato truppe a Northfield e una colonna di 38 soldati al comando del capitano Robert Beers era in viaggio. Quando i soldati arrivarono a quattro miglia da Northfield, decisero di fermarsi per la notte e la mattina presto del giorno dopo continuarono il viaggio a piedi, lasciando una guardia armata per i cavalli. Improvvisamente scattò un’imboscata: vennero uccisi 22 soldati, compreso il capitano Beers. I sopravvissuti tornarono a Hadley per dare l’allarme e il 5 settembre una missione di salvataggio composta da 100 soldati accorse a Northfield per accompagnare i coloni in salvo a Hadley. Con qualche protesta i coloni acconsentirono a lasciarsi alle spalle i campi e le bestie e a cercare la salvezza nel forte di Hadley. Dopo la loro partenza, gli Indiani incendiarono Northfield; Re Filippo usò il villaggio nei mesi successivi come punto d’incontro con le altre tribù del fiume Connecticut.
Verso la metà di settembre, il capitano Lathrop venne inviato, con 88 uomini, a Deerfield per approvvigionarsi di mais, grano ed altri generi alimentari. Ciò avveniva nello stesso momento in cui la compagnia del capitano Mosely, acquartierata a Deerfield, intendeva inseguire il nemico indiano. Ma il 10 del mese (definito il giorno fatidico, il più cupo che mai abbia intristito il New England), la compagnia di Lathrop fu attaccata dagli Indiani, che avevano scelto un posto molto vantaggioso per il loro proposito, sapendo che gli Inglesi sarebbero passati proprio in quel punto. Il luogo si trovava nei pressi del villaggio ora chiamato Muddy Brook, nella parte meridionale di Deerfield, dove la strada ancor oggi attraversa un piccolo ruscello, costeggiata da uno stretto pantano.
Qui gli Indiani, in gran numero, si erano posizionati per un’imboscata; Lathrop era appena giunto sul posto, che gli Indiani scatenarono sulla colonna un fuoco intenso e distruttivo, quindi corsero fuori con furia per ingaggiare il corpo a corpo. I ranghi degli Inglesi si scompigliarono, le truppe sparpagliate vennero attaccate ovunque. Quelli che sopravvissero al primo assalto affrontarono il nemico in lotte individuali, cercando di vendere la pelle il più cara possibile. Cercando il riparo di un albero, ciascuno sceglieva un obiettivo, e la tremenda battaglia divenne ora una gara di abilità nel mirare giusto, azione da cui dipendevano la propria vita o la morte. Ma la soverchiante superiorità in numero degli Indiani non lasciava spazio alle speranze per gli Inglesi: rimasero tagliati fuori da ogni possibilità di ritirata, finché vennero distrutti quasi tutti. I morti, i feriti, i moribondi coprivano il terreno in ogni direzione. Del centinaio di uomini, compresi i conduttori dei carri, solo sette o otto sfuggirono alla strage. I feriti vennero massacrati senza pietà. La compagnia era formata da giovani scelti, “il fior fiore della contea di Essex, nessuno dei quali si vergognava di parlare col nemico per la strada”. Diciotto uomini erano di Deerfield.


Battaglia di Muddy Brook (ribattezzata Bloody Brook dopo lo scontro)

Il capitano Mosely, trovandosi alla distanza di sole quattro o cinque miglia, udì le scariche di fucileria ed arguì quale ne fosse la causa. Con una rapida marcia in soccorso di Lathrop, giunse sul posto alla fine della battaglia, quando trovò gli Indiani che spogliavano e straziavano i morti. Subito le sue truppe avanzarono in ordine compatto e irruppero fra le schiere nemiche, caricando avanti e indietro e abbattendo chiunque si trovasse alla portata del suo fucile. Dopo molte ore di strenua lotta, costrinse gli Indiani a fuggire rifugiandosi nelle zone più remote della foresta. Le sue perdite ammontarono a due morti e undici feriti. Ad ogni modo il villaggio di Deerfield venne evacuato.
Fino a questo momento, gli Indiani della zona di Springfield si erano mantenuti amichevoli verso gli Inglesi, rifiutando gli appelli di Filippo di cooperare con lui contro la popolazione bianca. In particolare, gli indiani Mawaga (della tribù Pocomtuc) erano stati molto accomodanti con i coloni di Springfield, fin dal loro primo incontro, avvenuto nel 1635 a Roxbury, Massachusetts. Allo stesso modo, gli abitanti di Springfield – conformi ai comportamenti di amichevole commercio raccomandati dal fondatore dell’insediamento, Wiliam Pynchon – erano stati in buoni rapporti con i Nativi della zona. Diversamente dagli insediamenti immediatamente a sud di Springfield – come Hartford, Connecticut, che aveva combattuto nelle guerre con i Pequot e trattato spesso i Nativi da nemici – durante i suoi primi 39 anni d’esistenza Springfield non aveva mai subito un’incursione indiana. Fino al 1675 era molto facile vedere dei Nativi camminare per le strade di Springfield, visitando i coloni inglesi ed entrando nel commercio locale.


Ancora una stampa sulla battaglia di Muddy Brook

L’armonia finì nell’ottobre 1675, quando lo stesso Filippo andò in visita ai Mawaga di Springfield, presso la loro fortificazione cui oggi corrisponde Longhill Street, nella zona sud. Dopo questo incontro, centinaia di indiani Mawaga si spostarono verso l’area di Sprinfield oggi nota come “la palizzata di Filippo”. Qui si dice che Filippo abbia incitato i Mawaga alla rivolta contro i coloni inglesi di Springfield e a bruciare la città dalle fondamenta. Ormai Filippo aveva in pugno le città del nord, e i Mawaga erano attentamente controllati dagli Inglesi, che supponevano che tutti gli Indiani potessero schierarsi al suo fianco, visto che la sua causa sembrava prevalere. I sospetti che erano sorti su di loro furono confermati. Wampanoag e Mawaga avevano predisposto un piano d’azione per distruggere il villaggio inglese. Questo piano, però, venne rivelato da un Indiano di Windsor, di nome Toto: i coloni di Springfield ebbero a malapena il tempo di rifugiarsi nei loro fortini.
Nonostante l’allarme sull’avanzata indiana, 45 delle 60 abitazioni di Springfield vennero incendiate e rase al suolo, e così fu anche per il raccolto e i mulini, che appartenevano al capo del villaggio, John Pynchon. La maggior parte della città divenne rovine fumanti e la maggior parte degli abitanti pensava di abbandonarla completamente. Quest’idea venne respinta e gli abitanti di Springfield resistettero sotto assedio per tutto l’inverno del 1675. In quell’inverno, il fortino del capitano Miles Morgan divenne la postazione difensiva di Springfield. Molti dei cittadini sopravvissuti vissero là per tutto il periodo dell’attacco a Springfield. Col favore delle tenebre, Morgan mandò uno dei suoi servitori indiani ad Hadley, dove permanevano le truppe della Colonia di Massachusetts Bay sotto il comando del maggiore Samuel Appleton, per avvertirlo della brutta situazione in cui versava Springfield. Allora gli armati marciarono sulla cittadina e ruppero l’assedio.
La sicurezza di Filippo e dei suoi Indiani adesso era enormemente incrementata dai successi ottenuti. Il successivo obiettivo cui miravano era il quartier generale dei Bianchi, con la speranza di distruggere Hatfield, Hadley e Northampton come avevano fatto con Springfield. Ma questo piano fallì. Il capitano Appleton, con una compagnia, si trovava ad Hadley, mentre i capitani Mosely e Poole, con due compagnie, erano ad Hatfield; inoltre il maggiore Treat era appena tornato a Northampton per rinforzare la difesa dell’insediamento. Contro tali comandanti, era impossibile per gli Indiani vincere una battaglia in campo aperto. In ogni caso il 19 ottobre 1675 gli uomini di Filippo fecero un audace tentativo, radunandosi in sette-ottocento su una collina che sovrastava Hatfield, attaccando la cittadina contemporaneamente da tutti i lati. Preventivamente avevano tagliato fuori diversi gruppi di coloniali che stavano pattugliando i boschi nelle vicinanze. Mentre Poole difendeva valorosamente un’estremità, con non minor vigore Mosely proteggeva il centro e Appleton, sopraggiunto con le sue truppe, manteneva l’altra estremità. Dopo una dura lotta gli Indiani furono respinti da tutti i punti.
Si sa che Filippo, dopo aver lasciato la frontiera occidentale del Massachusetts, si avvicinò al paese dei suoi alleati Narraganset. Il 2 novembre 1675 Josiah Winslow condusse un’armata composta da 1000 uomini delle milizie coloniali di Plymouth, Connecticut e Massachusetts Bay, compresi 150 guerrieri Pequot e Mohegan, con lo scopo di abbattere il potere di Filippo sulla tribù Narragansett, che viveva sulla Narragansett Bay. I Narragansett erano stati alleati degli Inglesi nella guerra contro i Pequot (1637-1638), e finora non si erano impegnati nella guerra con entusiasmo, ma pare avessero dato asilo a molti uomini, donne e bambini Wampanoag, e si diceva che parecchi guerrieri della tribù fossero stati visti partecipare alle incursioni dei Nativi contro i villaggi inglesi; non c’erano dubbi che avevano intenzione di intervenire ed era nei piani di Filippo di spingerli all’intervento diretto.


I Coloni non si fidavano dei Narragansett, temendo che in primavera la tribù avrebbe aderito alla causa di Re Filippo, cosa che causava grande preoccupazione, vista la dislocazione dei Narragansett sul territorio. La decisione che si prese fu di colpire preventivamente i Narragansett prima di una loro presumibile rivolta. La milizia che marciò nel freddo inverno intorno alla Narragansett Bay trovò e diede alle fiamme molti villaggi Narragensett già abbandonati.

Il 15 dicembre i guerrieri Narraganset attaccarono una vicina guarnigione, nota come “Bull’s Garrison” e massacrarono almeno 15 persone di nazionalità inglese. Una di queste, un ragazzo di 15 anni di nome James Eldred, scampò alla strage con una fuga tormentata, che incluse anche il lancio di un tomahawk che lo sfiorò e l’incontro ravvicinato con un guerriero Narraganset.
Filippo si era grandemente fortificato a South Kingston, in Rhode Island.
I Narraganset invece si erano asserragliati sulla posizione sopraelevata di una grande palude, la Great Swamp. Qui avevano eretto circa 500 wigwams costruiti in modo particolarmente robusto, in cui fu depositata un’abbondante scorta di provviste. Si suppone che almeno tremila persone avessero preso dimora in questo villaggio per l’inverno. L’armata destinata ad attaccare questa postazione, a causa di una grande nevicata e dell’infierire di un freddo intenso, sprecò molto tempo nel cercare di raggiungere il forte. Il 19 dicembre gli Inglesi arrivarono sul posto, grazie alle informazioni di una guida nativa, Indian Peter. I coloniali riuscirono a raggiungere il forte perché un improvviso calo della temperatura aveva fatto ghiacciare la palude, rendendo possibile l’assalto.


Incontro fra i Narragansett e il teologo Roger Williams (nel 1637) – stampa

A causa dell’assoluta mancanza di approvvigionamenti degli assediati, sarebbe stato indispensabile un attacco immediato. Nessun Inglese, comunque, era a conoscenza di questa situazione ed era assai piccola la probabilità che gli attaccanti avrebbero potuto tentare qualcosa contro l’accampamento.
C’era solo un punto dove la fortificazione poteva essere attaccata con una qualche possibilità di successo, ed questo era rinforzato da un ulteriore fortino posto proprio di fronte all’ingresso. Il tutto era protetto da alte palizzate e un enorme ammasso di tronchi d’albero lo circondava da tutti i lati. Tra il forte e lo spazio antistante vi era un canale pieno d’acqua, che si sarebbe potuto attraversare solo passando su un grande tronco d’albero che era gettato tra le due rive. Il posto aveva l’aspetto di un forte formidabile, che presentava enormi difficoltà di avvicinamento. Avvicinandosi al punto, i soldati inglesi, cercando di passare sul tronco d’albero in fila indiana (il solo modo possibile), furono subito presi d’infilata dal fuoco nemico. E sempre altri, condotti dai loro comandanti, prendevano il posto dei caduti. Anche questi subivano lo stesso fuoco spaventoso, con gli stessi effetti fatali.
I tentativi furono ripetuti, finché sei capitani e un gran numero di uomini caddero uccisi. Ci fu uno stallo momentaneo, di ritiro di fronte alla morte certa. Comunque per la precisione, il capitano Mosely riuscì ad entrare nel forte, con un piccolo gruppo di uomini. Cominciò una lotta terribile. Mentre questi combattevano corpo a corpo con gli Indiani, un considerevole numero di loro commilitoni fece irruzione nel forte. Gli assalitori non avevano la forza sufficiente a scacciare il nemico dalla fortificazione principale, ma il capitano Church, che stava operando in aiuto a Winslow, alla testa di un reparto di volontari, aveva nel frattempo aggirato il forte e raggiunto la palude sul retro, da dove aprì un fuoco distruttivo sulla parte posteriore del forte, in cui stava un gruppo di retroguardia indiano. Attaccati così da diverse direzioni, i guerrieri alla fine furono costretti a ritirarsi e a rifugiarsi nella foresta.
Le logge degli Indiani, contro il parere di alcuni ufficiali che pensavano sarebbe stato meglio che i soldati sfiniti e feriti fossero lì alloggiati per riposare un po’ di tempo, vennero incendiate. In pochi momenti ogni cosa all’interno del forte fu avvolta dalle fiamme e si verificarono scene d’orrore. Parecchie centinaia di Indiani cospargevano il terreno da ogni parte: circa trecento infelici fra donne e bambini per sfuggire alle fiamme correvano in ogni direzione lanciando urla lamentose; molti dei feriti, come pure i vecchi senza aiuto, furono visti bruciare vivi, aggiungendo all’orrore della scena le loro grida d’agonia. Da informazioni acquisite in seguito da un capo Narraganset, venne accertato che nel forte perirono almeno settecento guerrieri, più altri trecento che morirono in seguito alle ferite riportate.


La battaglia nella palude di Great Swamp – stampa

Dopo la distruzione del luogo, al tramonto Winslow cominciò la marcia verso Pettyquamscott in mezzo a una tempesta di neve, portandosi dietro la maggior parte dei morti e dei feriti, giungendo a destinazione poco dopo mezzanotte. Molti, vittime di ferite probabilmente non mortali, sopraffatti dal freddo morirono nella marcia; il giorno dopo in 34 vennero sepolti in una fossa comune. Molti erano rimasti gravemente assiderati e in quasi quattrocento talmente invalidati da risultare inabili al servizio. Il numero totale di morti e feriti fu di circa duecento.
Molti guerrieri con le loro famiglie riuscirono a rifugiarsi nella palude ghiacciata, ma morirono a centinaia per le ferite e le rigide condizioni climatiche. Trascorso un inverno con scarsità cibo e di rifugi, i sopravvissuti della tribù Narraganset furono costretti alla quasi neutralità, anche se qualcuno tentò di continuare la guerra unendosi alle forze di Filippo.
Nel gennaio del nuovo anno, il 1676, Filippo compì un viaggio nel territorio dei Mohawks, per cercare di assicurarsi la loro alleanza contro gli Inglesi, ma non ottenne alcun risultato.
Il 27 gennaio 1676 i Narraganset, infuriati contro gli Inglesi, attaccarono Pawtuxet, nel Rhode Island. Allora l’esercito di Winslow si mise all’inseguimento dei Narraganset, solo per subire una serie di attacchi improvvisi, finendo per rimanere senza vettovaglie e doversi cibare dei propri cavalli. Il 3 febbraio Winslow desistette e rimandò gli uomini alle loro sedi, ponendo fine ad un inseguimento passato alla storia come “la marcia della fame”. Nel frattempo Filippo si era portato a New York, per cercare di attirare i Mahican alla sua causa, venendo ricevuto con tutti gli onori nel loro villaggio di Schaghticoke, a nord di Albany. Pare che riuscisse a reclutare un considerevole numero di guerrieri Mahican, variabile da 400 a 2100. Sebbene il governatore di New York, Andros, fosse generalmente in buoni rapporti con le tribù native, temeva che la guerra del New England si sarebbe estesa alla sua colonia. Di conseguenza incoraggiò i Mohawk, tradizionali nemici dei Wampanoag, ed altre tribù, ad attaccare Filippo. I Mohawk attaccarono in febbraio, uccidendo circa 500 guerrieri di Filippo. Questi sopravvisse alla battaglia e tornò nel New England.


La Guardia del Massachusetts, fondata nel 1637

La cittadina di Lancaster aveva subito un’incursione indiana nell’agosto del 1675. Si era trattato di poco più che una scorreria. Nel febbraio 1676 l’assalto si ripeté, più terribile e sanguinoso. Si era nel pieno dell’inverno e la maggior parte delle truppe coloniali, esauste dopo l’ultima campagna, si trovavano nelle loro case o nei quartieri invernali. Qualche casa era stata fortificata, ma la gente non vigilava molto, supponendo che l’inclemenza del tempo avrebbe tenuto calmi gli Indiani fino all’avvento della prossima primavera. In questo fecero un grande errore. I Nativi che vivevano in città, in numero di una trentina famiglie, per un totale di 150 – 180 persone, erano ora alleati di Filippo. Grazie alla loro conoscenza dei luoghi e dei sentieri, gli Indiani poterono organizzare un piano d’attacco.
La sera del 9 febbraio la gente si ritirò per il riposo, lasciando forse qualcuno di sentinella. E’ certo che, nella prima mattinata del 10, Re Filippo, seguito da 1500 guerrieri Wampanoag, Narragnaset e Nipmuc, lanciò un attacco feroce contro Lancaster. Il paese fu investito da punti differenti, dei quali solo tre si conoscono con certezza: il primo era Wattoquoddoc, dove vennero uccisi Richard Wheeler, possessore di un fortino, e Jonas e John Fairbanks; il secondo punto di aggressione fu la fortificazione di Prescott, non lontano dal vecchio mulino, dove fu ucciso Ephraim Sawyer, mentre Henry Farrar, un certo Ball e sua moglie vennero trucidati più lontano; l’attacco principale venne portato all’abitazione del reverendo Rowlandson, la casa fortificata più centrale, vulnerabile da un solo lato. Qui si erano rifugiate molte persone del vicinato in cerca di protezione, mentre altre erano andate in altre case fortificate o si erano rifugiate nei boschi e nelle paludi. I guerrieri avevano divelto le assi del ponte per prevenire la fuga da quella parte. C’erano almeno 42 persone, giovani e vecchie, maschi e femmine, nella casa di Rowlandson. La casa era difesa sul davanti (che guardava a sud) e sui due lati, mentre non c’era copertura sul retro, poiché da quella parte non c’erano aperture.
Quando si scatenò l’attacco, la casa venne difesa per più di due ore con valore e determinazione. Gli Indiani, dopo parecchi tentativi inutili di incendiare la costruzione, riempirono un carro con materiale combustibile e si avvicinarono dal lato posteriore, indifeso. In questo modo la casa fu in breve avvolta dalle fiamme. Secondo la ricostruzione successiva della signora Mary Rowlandson, moglie del reverendo, «gli Indiani si erano fermati nella vicinanze della casa per circa due ore, prima di appiccare il fuoco. Il nemico, da dietro il granaio, dalle alture o da ogni riparo non perdeva occasione per sparare sui difensori, se solo si avvicinavano alle finestre. Le pallottole sembravano grandinare». Presto un uomo venne ferito, poi un altro e un altro ancora. Un coraggioso si avventurò fuori e spense le fiamme dal materiale contenuto nel carro, ma ormai il fuoco si era trasmesso alla casa. I combattenti lo avevano sopra la testa, e «i sanguinari pagani erano pronti a colpire chiunque avesse messo fuori la testa». Le donne e i bambini erano fuori di sé; la signora Rowlandson ricorda: «presi i miei figli e una delle mie sorelle per cercare di uscire all’aperto; ma appena raggiungemmo la porta e facemmo capolino, gli Indiani aprirono un fuoco così intenso che le pallottole crepitavano sulla casa, come se qualcuno ci tirasse mucchi di pietre con le mani, per cui fummo costretti a tornare indietro». I loro sei robusti cani, altre volte sempre coraggiosi e pronti ad aggredire un nemico, avevano perso tutto lo spirito e non si mossero.
Il fuoco sul retro aumentava di intensità, per cui tutti furono costretti ad uscire all’aperto, dove gli Indiani li aspettavano, ansiosi di sparare su di loro. Subito il fratello del reverendo, Thomas Rowlandson, che già era stato colpito al collo quando era ancora nella casa, cadde ucciso al suolo, dopo di che il nemico urlante si precipitò su di lui e gli strappò di dosso gli abiti. Una pallottola attraversò il fianco della signora Rowlandson, e colpì al ventre sua figlia di sei anni, dopo esserle passata attraverso una mano. Il figlio di una sua sorella, moglie di Henry Kerley, riportò la rottura di una gamba quando gli Indiani lo colpirono sulla testa.


Il raid contro Lancaster – incisione (Boston 1771)

«Così – continua il racconto – noi fummo scannati da questi pagani senza pietà, mentre ce ne stavamo stupefatti con il sangue che ci scorreva sui piedi. La mia sorella più vecchia era ancora nella casa, osservando questa vista infelice, con questi infedeli che trascinavano le madri da una parte e i figli dall’altra, qualcuno sguazzando nel proprio sangue. Il figlio più grande le comunicò che l’altro figlio William era morto, al che lei disse:” Signore, fammi morire con loro”. Non aveva ancora finito di dirlo, che venne colpita da una pallottola, cadendo morta sulla soglia. Poi gli Indiani ci afferrarono, spingendo me da una parte e i bambini dall’altra. Di tutti gli occupanti della casa, solo uno, Ephraim Roper, riuscì a fuggire. Dodici furono uccisi, qualcuno a colpi di fucile, qualcuno trapassato con la lancia e altri colpiti alla testa con l’accetta. Uno fu colpito alla testa, denudato e trascinato avanti e indietro. Denudati furono anche tutti i morti, da una compagnia di malvagi, che ruggivano, gridavano, cantavano e insultavano come se avessero voluto strapparci il cuore dal petto».
Tutti i resoconti parlano del grande valore dei difensori. Uno scrittore riferisce che ben otto uomini sacrificarono la vita nel tentativo di salvare la signora Rowlandson. I dati reali affermano che dieci o dodici uomini, con donne e bambini, si erano rifugiati nella guarnigione con la famiglia Rowlandson e che tutti gli uomini perirono, con una sola eccezione. Gli altri vennero messi a morte sul posto o vennero tenuti in vita per la tortura. La moglie di Ephraim Roper fu uccisa in un tentativo di fuga; Mary Rowlandson e un’altra sua sorella (signora Drew) furono prese prigioniere, come la moglie di Abraham Joslin e un’altra ventina fra donne e bambini, allo scopo di ottenere un riscatto.
La battaglia era finita. Non è noto quanti Indiani rimasero uccisi, ma si suppone fossero molti, ed anche i feriti. I restanti, che erano numerosi, cominciarono subito a saccheggiare le case, privare i morti degli abiti. Fu portato via anche tutto il bestiame che era possibile.


La cattura di Mary Rowlandson in un famoso dipinto

Mary Rowlandson era ferita, e portava in braccio suo figlio, a sua volta ferito. Il bambino morì il 18 febbraio e venne sepolto su una collinetta dagli Indiani. Di sua sorella si prese cura uno dei guerrieri, dal quale apprese che suo figlio era prigioniero in un altro accampamento. Le fu permesso di vedere i suoi bambini e le fu pure consegnata una Bibbia, quando chiese di averla. Dopo molti altri spostamenti con gli Indiani, il 2 maggio 1676 Mary venne infine riscattata per la somma di 20 sterline a Redemption Rock.
Temendo l’arrivo di truppe da Marlborough, dopo il massacro gli Indiani si mossero prima di notte verso la sommità della George Hill. Qui passarono le ore dell’oscurità in festeggiamenti selvaggi: i prigionieri vennero tenuti svegli dai canti e dalle grida dei vincitori; e, secondo il racconto di uno scrittore, anche dai lamenti di alcune delle vittime, moribonde. Ai tronchi che erano stati presi dalle case vennero legati gli uomini presi prigionieri e poi venne appiccato il fuoco. Quando Rowlandson, il capitano Kerley e Drew, tutti cognati fra loro, che erano andati in cerca di aiuti presso le autorità di Boston, tornarono a Lancaster, si presentò ai loro occhi una scena orribile. Le loro abitazioni erano state date alle fiamme. Trovarono la moglie di uno di loro bruciata fra le rovine, mentre quelle degli altri due erano nelle mani degli Indiani, e certamente stavano facendo un viaggio disagevole nella foresta nel mezzo dell’inverno, entrambe patendo la fame o sopravvivendo cibandosi delle frattaglie più disgustose, separate una dall’altra, e con nessun’altra prospettiva che la morte o una prigionia senza speranza…


Mary Rowlandson – stampa

I sopravvissuti rientrarono, trovando riparo in due vicine case fortificate, con ciò che avevano potuto recuperare in provviste, grano e bestiame. Essi mandarono una petizione al governatore e al consiglio del Massachusetts, richiedendo che “una forza di uomini con carri dovrebbe essere comandata per Lancaster, per rimuovere il nemico da una posizione per lui sicura…La nostra condizione è veramente deplorevole per la nostra incapacità di sopravvivere: poiché non lo possiamo scacciare, il nemico ci ha circondato; (ed è deplorevole) per la necessità di aiuti e di bestiame, la maggior parte del quale è stata portata via dai barbari pagani; e per la debolezza derivante dalla necessità di cibo. La popolazione della città è quasi tutta fuggita, ma noi, in questa prigione, non abbiamo cibo sufficiente per un mese, essendo le nostre provviste quasi tutte esaurite. Noi siamo addolorati di lasciare questo posto. I pianti delle nostre donne aumentano oltre l’immaginabile; che non riempiono solo le nostre orecchie, ma rendono i nostri cuori pieni di pena”. Questa supplica fu inviata da coloro che avevano occupato la casa fortificata sul lato est del North River. I coloni che si erano rifugiati nella casa sul lato opposto aggiunsero: ”Noi siamo nella stessa sofferenza, e allo stesso modo desideriamo la vostra compassione e le vostre cure paterne, poiché abbiamo vedove e molti bambini senza padre”.
Essendo la posizione considerata indifendibile, vennero inviate truppe con carri per trasportare questi rifugiati, con le loro restanti proprietà mobili, nelle città dell’est, dove vennero accolti in casa di amici e conoscenti. Gli Indiani, che sembrava si fossero nascosti nelle vicinanze, uscirono dai loro nascondigli e incendiarono gli edifici che erano ancora in piedi: con l’eccezione della chiesa e di un edificio, quando cessarono l’opera di distruzione non rimase altro che fumo e rovine annerite in quella che era stata una valle amena. I coloni si ritirarono sotto la protezione dei soldati e l’insediamento venne abbandonato. Per uno o due anni la città rimase senza un solo abitante bianco.
All’incirca nello stesso periodo accadde un altro incidente a Pawtuxet River, nel Rhode Island. Il capitano Pierce, di Scituate, con cinquanta uomini e venti Indiani di Cap Code, attraversò il fiume, imbattendosi in una banda di Indiani piuttosto numerosa. Rendendosi conto che il loro numero avrebbe reso senza speranza un attacco contro di loro, egli si ritirò, prendendo posizione in modo da essere protetto dalle rive del fiume. In questa situazione la compagnia non poteva essere al sicuro per molto tempo. Una parte degli Indiani attraversò il fiume e attaccò i soldati dalla riva opposta, mentre gli altri li circondarono dal alto del fiume dove avevano cercato riparo, aprendo si di loro un fuoco micidiale. Circondati in maniera così efficace, per i soldati non vi era possibilità di fuga e non avevano altra scelta se non di vendere la vita al prezzo più caro possibile. E questo venne effettivamente fatto: prima che quegli sfortunati fossero tutti spazzati via, si dice che più di un centinaio di Indiani fossero caduti per il disperato valore degli Inglesi. Gli Indiani cristiani di Cape Cod nella circostanza mostrarono la loro fedeltà e il loro coraggio, oltre che la loro abilità; uno di essi fu d’aiuto nella fuga all’unico Inglese sopravvissuto. Quattro di loro riuscirono a sganciarsi dallo scontro. Il primo, che si chiamava Amos, dopo che il capitano Pierce venne messo fuori combattimento da una ferita, non lo volle lasciare da solo finché ci fu una possibilità di essergli utile, caricando parecchie volte il suo fucile e sparando. Alla fine, per salvare sé stesso, pensò astutamente di dipingersi la faccia di nero, come i nemici avevano fatto sul loro viso. Così mascherato corse contro di loro e simulò di unirsi a loro nel combattimento; al momento opportuno riuscì a fuggire nei boschi.


Scontro di Pawtuxet River

Un altro di questi Indiani, che era inseguito da un nemico, trovò riparo dietro una grande roccia. Vedeva che l’avversario impugnava il fucile sul lato opposto, pronto a fare fuoco appena lui si fosse mostrato. Si salvò solo con uno stratagemma. Issando con cura il suo cappello su un lungo ramo, al nemico che stava in agguato sembrò una persona che si esponeva ad un colpo di fucile. Una pallottola attraversò istantaneamente il cappello, ma un’altra venne restituita in cambio e colpì la testa del nemico. Fu così che l’Indiano cristiano, grazie alla sua prontezza, trovò il modo di sfuggire al pericolo incombente. Un simile, sottile, stratagemma fu usato da un altro di questi Indiani, che era inseguito mentre cercava di attraversare il fiume. Mentre si nascondeva dietro un monticello di terra sollevata dalle radici di un albero, fu visto da un Indiano nemico, che si mise in attesa prevedendo che ben presto sarebbe stato obbligato a cambiare posizione. Ma invece di muoversi, l’Indiano di Cape Cod, facendo un buco attraverso il suo riparo provvisorio, si preparò una conveniente feritoia e sparò al nemico prima che questi si rendesse conto dell’artificio. Il quarto di questi Indiani di Cape Cod che riuscirono a fuggire, ottenne il suo obiettivo fingendo di inseguire un Inglese agitando la sua accetta sopra la testa. La geniale trovata, naturalmente, riuscì a salvare nello stesso tempo anche l’uomo bianco.
Il 21 febbraio 1676 Medfield venne attaccata all’alba da una banda di Indiani comandati da Re Filippo. Quasi metà delle case e dei granai sulla riva orientale del fiume vennero incendiati. Diciassette furono le vittime. Gli Indiani si ritirarono oltre il ponte Great Bridge, che diedero alle fiamme, dopo di che fecero dei festeggiamenti. Sul posto esiste tutt’oggi un gruppo di alberi chiamati “gli alberi di Re Filippo”.


Gli stratagemmi degli Indiani cristiani – stampe

Il 25 febbraio fu la volta di Weymouth, che ebbe otto case date alle fiamme. La cittadina venne attaccata altre due volte, l’ultima nell’aprile dello stesso anno. Il 12 marzo 1676 undici Indiani Nipmuc assaltarono la casa di William Clark, a Plymouth, uccidendo sua moglie e suo figlio ancora poppante, e colpendo alla testa un altro figlio dell’età di otto anni, lasciandolo per morto. Nella casa di Clark in quel momento era presente un’altra famiglia, che venne completamente distrutta dagli Indiani. In totale quel giorno vennero uccise undici persone sotto lo stesso tetto; dopo di che gli Indiani incendiarono la casa.
I giorni 2, 9 e 13 marzo la cittadina di Groton subì tre incursioni, che provocarono la completa distruzione di tutti gli edifici ad eccezione delle case fortificate. Analogamente subirono perdite umane Springfield, Northampton, Warwick, Rehobot e Providence. Il 10 marzo ci fu un primo attacco a Sudbury.
La domenica 26 marzo 1676 venne parzialmente distrutta Marlborough. La popolazione cercò rifugio nelle fortificazioni. Il fumo che saliva dalle case in fiamme e il crepitare degli spari avevano attirato l’attenzione degli uomini di Sudbury, e venti di loro marciarono verso Marlborough a portare aiuto. Arrivarono sani e salvi ad una delle fortificazioni, unendosi al capitano Brocklebank; quindi con altri venti uomini raccolti nelle altre case fortificate si misero in marcia protetti dalle tenebre, mentre gli Indiani stavano dormendo, stanchi dei lunghi combattimenti e non aspettandosi un attacco dai Bianchi, poiché il loro numero ammontava a trecento guerrieri. Guidato dalla luce dei fuochi dell’accampamento, Brocklebank e i suoi armati scoprirono il nemico prima dell’alba. Prendendo posizione nel massimo silenzio, ad un segnale aprirono il fuoco sugli Indiani che, destati improvvisamente dal loro sonno, vennero talmente colti di sorpresa che non riuscirono ad opporre che una debole resistenza e quindi fuggirono. Pare che riportassero trenta feriti, dei quali quattordici morirono successivamente. Uno dei deceduti fu Netus, un capo dei Nipmuc. Probabilmente questo scontro aveva prevenuto un attacco su Sudbury lo stesso giorno.
La domenica mattina del 26 marzo 1676, dopo aver ricevuto notizia che una spedizione degli Indiani si trovava nelle vicinanze della Blackstone House, a Cumberland (Rhode Island), il capitano Michael Pierce partì da Rehoboth alla testa di una compagnia di 63 Inglesi e 20 Wampanoagh cristiani alleati. Giunta nei pressi di un burrone vicino alla località di Attleborough Gore, sul fiume Blackstone, la compagnia subì un’imboscata da parte di un numero di guerrieri Narragansett compreso fra 500 e 700, guidati dal sachem Canonchet.
Canonchet – scultura in bronzo di Jud Hartmann
Gli Inglesi allora arretrarono riattraversando il fiume per allestire una difesa sulla riva occidentale (che oggi fa parte della città di Central Falls), ma furono attaccati da un altro gruppo di circa 300 guerrieri. Pierce dispose i suoi uomini in circolo ed essi continuarono a combattere per circa due ore, mentre man mano il loro numero diminuiva, finché non rimasero in molto pochi. Pierce fu ucciso quasi all’inizio della battaglia. Qualcuno dei Wampanoag riuscì a fuggire fingendosi un partecipante all’attacco. Nove Inglesi vennero catturati e portati in un punto di Cumberland, detto poi Nine Men’s Misery, dove subirono la tortura fino alla morte. Un reparto di soccorso arrivò troppo tardi e trovò solo i corpi dei nove, che provvide a bruciare.
Lo stesso giorno subì un attacco anche Longmeadow, più lontana verso sud ovest: due abitanti vennero uccisi e quattro presi prigionieri.
Il 27 marzo i Narragansett incendiarono Providence, distruggendo tra le altre la casa di Roger Williams. In tutto il New England gli indiani distrussero città, razziando anche i sobborghi di Boston. Nonostante i successi riportati nella campagna condotta contro gli Inglesi, alla fine di marzo malattie, fame, battaglie perse e la carenza di polvere da sparo portarono al collasso dei Nativi.
Il Connecticut, non essendo direttamente esposto alle incursioni dei Nativi, mandò molte compagnie di volontari in aiuto delle colonie sorelle, in aggiunta alle truppe richieste come quota di partecipazione alla guerra. Queste truppe di volontari erano raccolte principalmente dalle città di New London, Norwich e Stonington, unitamente a gruppi di Indiani amici. Quindi gruppi d’assalto del Connecticut composti da coloni e da indiani alleati, come Pequot e Mohegan, entrarono nel Rhode Island uccidendo molti degli ormai indeboliti Narragansett.
Il 27 marzo una spedizione di queste truppe, comandata dai capitani Dennison e Avery, penetrò nel territorio dei Narraganset. Lungo il cammino si imbatterono nelle tracce di un folto gruppo di Indiani e si posero all’inseguimento. Gli Indiani, alla vista degli Inglesi, si sparpagliarono in tutte le direzioni. Si scoprì che si trattava di un gruppo comandato dal sachem Canonchet. Questi intraprese una fuga solitaria e, vista la sua velocità a piedi, contava di sfuggire agli inseguitori. Ma, nell’attraversare un fiume, cadde accidentalmente in acqua e bagnò il fucile. Venne presto raggiunto da un guerriero Pequot, al quale si arrese immediatamente. Un giovane Inglese, sopravvenuto nel frattempo, cominciò a porre varie domande al capo il quale, seccato di essere apostrofato in tal modo, gli rispose con disprezzo: «Tu sei un bambino, non capisci le cose della guerra; fa venire il tuo capitano: risponderò a lui». Canonchet fu portato a Stonongton e, dopo una specie di processo, condannato alla pena capitale. Egli chiese di essere giustiziato da Uncas, capo sachem dei Mohegan. Uncas e due sachem Pequot lo giustiziarono alla maniera indiana. Effettivamente gli era stata presentata un’alternativa: continuare a vivere se avesse fatto pace con gli Inglesi. Indignato, aveva rifiutato e, dando dimostrazione del suo spirito indomabile, quando la sentenza venne pronunciata affermò che “preferiva dover morire prima che il suo cuore si ammorbidisse o arrivare a dire qualcosa di disonorevole di sé stesso”. Gli Inglesi trattarono Canonchet da traditore, ed il suo corpo fu squartato.
I coloni erano sempre in preda al terrore; molti di quelli che abitavano lungo la frontiera avevano abbandonato le loro case, cercando rifugio nelle zone più fittamente abitate o nelle città della costa. Il giorno 1 aprile 1676 Filippo radunò i suoi guerrieri nei pressi di Marlborough e di Sudbury.
Donna colono – stampa
La guarnigione di Marlborough, composta da 50 uomini, era comandata dal capitano Samuel Brocklebank. Venne mandata una relazione a Boston, riferendo che gli Indiani si erano avvicinati, verosimilmente per creare guai. A rinforzo partirono immediatamente da Boston il capitano Samuel Wadsworth con il tenente Sharp, con più di cinquanta uomini. Marciando speditamente essi raggiunsero la guarnigione nella notte del 20 aprile, senza aver visto il nemico, sebbene questi avesse già ucciso parecchi degli abitanti. Dalla cima della collina di Nobscot Filippo poteva avere una visione completa della valle e pianificare le modalità del suo attacco. Silenziosamente, furtivamente, i suoi guerrieri attraversarono la foresta, prendendo posizione per le operazioni del giorno seguente. Nel villaggio la gente sonnecchiava, temendo quello che sarebbe accaduto il giorno seguente, senza sapere che Wadsworth stava arrivando in soccorso. In città c’erano verosimilmente un centinaio di uomini e ragazzi in grado di maneggiare le armi, mentre si dice che Filippo avesse da mille a millecinquecento guerrieri da mettere in campo. Tutte le case fortificate si trovavano sulla parte ovest del fiume; altre case erano state rinforzate per difesa.
Di primo mattino Filippo diede il segnale dell’attacco. Le case abbandonate dei sobborghi vennero tutte rase al suolo, dopo di che si rivolsero contro le fortificazioni. Nelle più rinforzate avevano cercato rifugio le donne e i bambini, mentre i loro uomini combattevano. Queste donne, che sapevano modellare le pallottole e, se necessario, caricare un fucile e sparare, furono essenziali nell’opera di difesa.
La fortificazione di Haynes fu assalita violentemente; da un poggio sul retro della casa gli Indiani aprirono un fuoco terrificante. Un carro riempito di tessuti venne dato alle fiamme, ma si rovesciò mentre rotolava giù dalla collina; un fienile stava per incendiarsi, quando un fortunato cambiamento nella direzione del vento salvò la casa dall’andare in fumo. Vedendo segni di stanchezza nel nemico, gli assediati si spinsero fuori dalla casa, respingendo gli Indiani verso posizioni più arretrate e coperte. Combattere allo scoperto non era mai stato nelle preferenze degli Indiani, e quest’occasione non fece eccezione. I guerrieri di Filippo vennero dispersi in ogni dove. Presso ciascuna casa fortificata si verificò la stessa storia: una strenua difesa, seguita dalla cacciata degli assedianti. Gli Inglesi ebbero due morti, mentre gli Indiani patirono molte perdite.
Edward Cowell, partito da Brookfield con una compagnia di diciotto uomini a cavallo, lasciò Marlborough passando per un’altra strada rispetto a quella presa dal capitano Wadsworth. Cowell venne attaccato da una spedizione indiana che sopravanzava grandemente in numero le sue esigue forze, ed ebbe quattro uomini uccisi, uno ferito e cinque cavalli fuori combattimento. Gli Indiani avrebbero potuto facilmente uccidere o catturare l’intera compagnia di Cowell, ma per qualche ragione non lo fecero, ritirandosi dal luogo della battaglia per portare un attacco contro gli uomini di Wadsworth. Quando Cowell si accorse che il nemico era scomparso alla sua vista e udì le scariche di fucileria contro le truppe di Wadsworth, tornò sulla scena del combattimento, dove bruciò i resti dei suoi caduti e li seppellì in tombe senza nome.
Il mattino del 20 aprile, il più numeroso gruppo di Indiani che fosse mai apparso fino a quel tempo aveva attaccato Sudbury e, prima che si potesse organizzare una qualche opposizione, aveva dato alle fiamme parecchi edifici, che furono rasi al suolo. Gli abitanti reagirono e difesero bravamente le loro case; vennero presto raggiunti da alcuni soldati da Watertown, così gli Indiani furono costretti a retrocedere senza causare, per quel giorno, ulteriori danni alla città. Nell’udire dell’attacco a Sudbury, alcuni abitanti di Concord si precipitarono in soccorso. Avvicinandosi a una casa fortificata, scoprirono che c’erano alcuni Indiani nel pressi e cominciarono ad inseguirli. La loro fuga si dimostrò essere solo un’esca e i cittadini di Concord, undici in tutto, si trovarono circondati da ogni parte. Pur combattendo allo stremo, furono tutti uccisi tranne uno.
Lasciando a Marlborough gli uomini che erano troppo esausti a causa della marcia del giorno prima, Wadsworth li sostituì con altrettanti soldati della compagnia del capitano Brocklebank; poi, accompagnato dallo stesso Brocklebank, si avviò per la spedizione fatale. Per diverse miglia non fu avvistato nessun nemico, mentre il rumore della sparatoria era sempre più distinto.
A un miglio e mezzo dalla città, cinquecento Indiani stavano in agguato sulle colline. Quando Wadsworth arrivò sul posto, gli Indiani distaccarono un gruppo dei loro, che arrivarono sulle tracce degli Inglesi, furono scoperti e finsero di fuggire per la paura. Wadsworth, dimostrando grande mancanza di cautela, cominciò subito l’inseguimento e, di conseguenza, cadde in un’imboscata. Gli Indiani attaccarono con molto coraggio, erano terribili avversari che facevano sì che sembrava che i boschi si muovessero. Il fuoco sugli Inglesi era terrificante, ma i soldati erano irriducibili e alla fine riuscirono a raggiungere la sommità della Green Hill, da dove per ore tennero a bada i “diavoli rossi”.


L’attacco a Sudbury – stampa

Dopo ore di combattimento e molti guerrieri caduti, gli Indiani divennero ancora più furenti e decisero di ricorrere ad un altro stratagemma. In questo ebbero completo successo: incendiarono il bosco sopravvento agli Inglesi. Il fuoco, a causa del vento e della secchezza dell’erba e dell’altra vegetazione, si estese con grande rapidità. Gli Inglesi furono scacciati dalla furia delle fiamme dalla loro posizione vantaggiosa e rimasero così esposti ai tomahawks degli Indiani. In quella giornata, solo 14 Inglesi riuscirono a fuggire e sopravvissero.
Nel frattempo stavano giungendo rinforzi: Cowell si era mosso silenziosamente e con cautela attraverso i boschi, tenendosi sempre al coperto: aveva solo poche miglia da percorrere per raggiungere la riva est del fiume; vi giunse solo nel tardo pomeriggio. Unendosi agli uomini di Watertown e ai soldati a cavallo del capitano Prentice, respinse gli Indiani al di là del fiume e portò soccorso ai sopravvissuti delle truppe di Wadsworth che avevano cercato rifugio in un vecchio mulino. L’allarme raggiunse rapidamente Watertown e il capitano Hugh Mason inviò la sua compagnia di circa 40 uomini, che si mise subito in marcia. Raggiunto il distretto ad est di Sudbury, i soldati si imbatterono nella gente che combatteva casa per casa con gli Indiani. Con l’aiuto degli uomini di Mason i coloni, lentamente ma tenacemente, costrinsero gli Indiani a indietreggiare lungo la strada rialzata e a riattraversare il ponte verso la riva ovest del fiume.


L’imboscata agli uomini di Wadsworth – stampa

Le cascate di Peskeompscut, nome indiano per il posto che oggi è Turners Falls, era stato a lungo il luogo preferito per la pesca delle locali tribù di Nativi. Qui lo stretto corso del fiume Connecticut precipita per 13-14 metri, per poi proseguire il suo corso verso l’Oceano Atlantico. Nel maggio del 1676 gruppi di guerrieri, donne, bambini e vecchi si radunarono qui per la cattura e i preparativi per la conservazione del pesce. Mesi di guerra contro gli Inglesi avevano esaurito le loro riserve di cibo. Mentre alcuni pescavano, altri discesero il fiume verso i campi abbandonati di Deerfield per piantarvi dei semi. Con un po’ di fortuna riuscirono ad effettuare un raccolto in tarda estate. I guerrieri organizzarono la cattura di bestiame nei vicini insediamenti inglesi. Nella notte del 13 maggio un gruppo di guerrieri fece un’incursione su Hatfield, razziando parecchio bestiame e portandolo al loro accampamento presso le cascate. I coloni però erano decisi a riappropriarsi dei loro animali. Si cercarono volontari per attaccare le tribù a Peskeompscut, raccogliendo adesioni fino a Springfield, che era molto più a sud; si unì alla spedizione anche un gruppo di soldati della guarnigione locale. Il 18 maggio, 150 fra uomini e ragazzi, condotti dal capitano William Turner, oltrepassarono Bloody Brook e i sobborghi di Deerfield, dove attraversarono l’omonimo fiume. Quindi attraversarono circa due miglia di una fitta foresta, attraversarono il Green River e quindi scalarono il monte Adams, a circa un miglio dalle cascate. Il mattino dopo. Prima dell’alba, lasciati indietro i cavalli, i coloniali si trovarono in posizione su un pendio che dominava l’accampamento indiano. E, come accade spesso in battaglia, la fortuna ebbe un ruolo importante nel dramma che si andava a compiere. La tribù riunita aveva banchettato con il pesce fresco e il bestiame catturato. Gli Indiani non avevano posizionato sentinelle, né inviato esploratori, e stavano ancora dormendo quando la spedizione di Hatfield strisciò verso i wigwams. Quando i 150 uomini si trovarono a contatto con i wigwams, il capitano Turner fece il segnale prestabilito e i fucili vennero spinti direttamente dentro i wigwams e fecero fuoco.


L’attacco di Peskeompscut

Molti dei Nativi furono uccisi immediatamente, altri si tuffarono nel fiume Connecticut solo per essere travolti dalle cascate e annegarono. L’attacco dei coloniali fu spietato, cercando nell’accampamento, e uccidendo, uomini, donne e vecchi. Non venne risparmiato nessuno. Vennero installate due fucine per riparare i fucili e fabbricare munizioni. Queste vennero poi distrutte e due sostegni di piombo gettati nel fiume. Il fragore dell’attacco aveva messo in allarme gli altri gruppi di Nativi che erano accampati lungo il fiume. Uno di questi gruppi attraversò il fiume a valle delle cascate e prese posizione sulla pista che portava a Deerfield. A quanto pare il capitano Turner non aveva pensato molto a proteggere la sua ritirata. Il suo attacco aveva avuto successo: forse parecchie centinaia di Indiani erano stati abbattuti, contro la perdita di una sola vita inglese. Nel frattempo le altre tribù si avvicinavano sempre più. Occorreva ritirarsi, ma lungo quale percorso?

Le truppe di Hatfield si erano divise in piccoli gruppi, alcuni percorrendo una strada, altrettanti scegliendo un sentiero diverso che doveva portare al luogo dove erano stati lasciati i cavalli. Pochi uomini fortunati riuscirono a raggiungere i cavalli appena prima che i guerrieri riuscissero a prenderli. Altri coloni furono costretti a dirigersi verso casa a piedi. I guerrieri seguivano gli Inglesi, ormai nel panico, infliggendo perdite ogni volta che era possibile. Il capitano Turner venne ucciso mentre cercava di attraversare il Green River. Dei 150 partecipanti, almeno 40 furono uccisi nella ritirata. Alcuni viaggiarono separati dal corpo principale del gruppo e cercarono di trovare da soli la strada; pochi ci riuscirono, mentre molti altri non tornarono. Il corpo del capitano Turner venne trovato circa un mese dopo e venne arso sulla riva del fiume, vicino al posto dove era stato rinvenuto.
Comunque, da questo momento i coloni cominciarono a prendere il sopravvento. Le città sul fiume Connecticut controllavano i loro raccolti limitando l’estensione della terra coltivata e lavorando in folti gruppi armati per auto protezione. Springfield, Hatfield e Hadley furono fortificate e la loro milizia rinforzata, riuscendo a difendere il proprio territorio sebbene subisse diversi attacchi. Le città più piccole vennero abbandonate, in attesa di tempi migliori.


Mappa della guerra

Nello stesso tempo, dopo la disfatta alle cascate, quelli fra gli alleati di Filippo che erano stati da lui attratti nella guerra cominciarono ad accusarlo di essere l’autore delle loro sconfitte. Molti componenti delle varie tribù, infatti, si dispersero nelle varie direzioni. Gli Indiani di Deerfield furono tra i primi ad abbandonare la causa, e molti Nipmuck e Narraganset seguirono il loro esempio. Ma ancora, Filippo, sebbene non si fosse fatto vedere molto nel corso dell’inverno – e non si sa con precisione in che luogo ne abbia passato la maggior parte – non aveva intenzione di diminuire i tentativi di battere gli Inglesi. Nel mese di maggio 1676 si ritrovò a capo di una potente armata che occupava molte miglia nella direzione est – ovest della frontiera nord del Massachusetts. Un numero considerevole di guerrieri erano Narraganset, che devastavano in continuazione gli insediamenti inglesi.
Il giorno 30 maggio seicento guerrieri apparvero improvvisamente a Hatfield, invadendo la città. In brevissimo tempo incendiarono dodici abitazioni non fortificate e ne attaccarono molte che erano protette da palizzate. Gli abitanti si difesero bravamente. Nel mezzo della battaglia, mentre i cittadini si difendevano dall’attacco nelle loro abitazioni o nei posti di lavoro, un gruppo di 25 uomini provenienti da Hadley attraversò il fiume e si lanciò con animosità contro gli Indiani, aprendo un fuoco talmente micidiale che i Nativi furono costretti a ritirarsi. Presto l’intera spedizione indiana fu obbligata a tornare indietro, senza essere riuscita ad raggiungere lo scopo che si era prefissa, ossia la completa distruzione dell’intera città. Riuscirono invece a portare via un gran numero di pecore e di bovini.
Il Massachusetts e il Connecticut aumentarono le forze di difesa in questo settore del territorio, vista la determinazione dei Nativi nel devastare gli insediamenti lungo il fiume Connecticut.

Il successivo obiettivo degli attacchi indiani fu Hadley, che venne attaccata da circa settecento guerrieri indiani. Il capo di guerra dei Wampanoag usò uno stratagemma per attirare al nord il grosso delle truppe inglesi, così, essendo rimasti i coloni senza la protezione di soldati professionisti, il 12 giugno i Wampanoag si presentarono all’estremità meridionale della cittadina, avanzando poi casa per casa. Sebbene gli Indiani mostrassero la loro solita ferocia, furono contrastati e respinti nel combattimento sulle palizzate. Rinnovando gli attacchi in altri punti, sembrava che potessero impadronirsi del villaggio. Invece vennero tenuti in scacco e respinti poi nei boschi da una spedizione di soccorso giunta da Northampton, composta da uomini della milizia e alleati Mohegan. I Mohegan, di stirpe irochese, erano acerrimi nemici delle tribù algonchine del New England. Si dice che il merito del soccorso ai cittadini di Hadley sia da ascrivere a William Goffe. Questi era fuggito dall’Inghilterra perché accusato di partecipazione nel regicidio di Carlo I. La leggenda dice che, nel mezzo della confusione della battaglia, un uomo grigio di capelli e di aspetto venerabile, il cui abito era diverso da quello degli abitanti della città, apparve e assunse la direzione della difesa. Egli schierò la gente nel modo migliore, dimostrando di conoscere a fondo le migliori tattiche militari, la condusse alla battaglia e, con l’esempio e le incitazioni, portò un aiuto decisivo. Dopo la ritirata degli Indiani, non fu più visto e nulla più si seppe di lui in seguito. Poiché è noto che, a quel tempo, Goffe e suo suocero Whalley erano nascosti in casa di un certo Russel di Hadley, si è pensato che Goffe avesse lasciato il suo nascondiglio e, visto il pericolo in cui versava la città, si fosse lanciato nella mischia per contribuire alla sua salvezza.


Il “generale” Goffe respinge gli Indiani – stampa

I Mohawks di New York, tradizionali nemici di molte delle tribù in guerra, continuarono a fare incursioni contro gruppi isolati di Nativi algonchini nel Massachusetts, disperdendone e uccidendone molti. Le zone tradizionali di coltivazione e le aree di pesca in Massachusetts, Rhode Island e Connecticut erano continuamente attaccate da pattuglie miste di coloniali e Indiani loro alleati. Ogni campo coltivato che veniva trovato era subito distrutto. Le tribù riuscivano difficilmente a trovare posti dove coltivare per ricavare abbastanza cibo o a pescare abbastanza pesce in vista dell’inverno incombente. Molte delle tribù belligeranti si diressero a nord, verso il Maine, il New Hampshire, il Vermont e il Canada. Alcune si portarono molto ad ovest, per evitare i tradizionali nemici Irochesi.
Più tardi, nello stesso mese di giugno 1676, un gruppo di 250 Indiani fu messo in fuga presso Marlborough, Massachusetts. Gruppi armati misti di volontari coloniali e Indiani alleati continuarono ad attaccare, uccidere, catturare o disperdere bande di Narraganset, Nipmuc e Wampanoag quando questi tentavano di piantare delle colture o di tornare ai loro tradizionali luoghi di residenza. I coloni garantirono l’amnistia ai Nativi delle tribù che si fossero arrese o che, se catturate, dimostrassero di non aver partecipato al conflitto. Gli Indiani presi prigionieri che si sapeva avevano partecipato agli attacchi ai vari insediamenti, venivano impiccati o portati alle Bermude in schiavitù.
Gli Inglesi avevano cominciato a capire bene il metodo di combattimento degli Indiani e adesso li attaccavano ovunque potessero trovarli. Colsero di sorpresa diversi grandi gruppi di Nativi in luoghi differenti. Cominciava ad essere chiaro che Filippo e i vecchi guerrieri avevano ragione e i giovani, torto. Molti capi erano stati uccisi. Gli Indiani non avevano riserve di granturco. Gli Inglesi devastavano ogni campo che fosse coltivato. Alla fine gli Indiani avevano perso ogni speranza. In pratica stavano morendo di fame. Gli alleati di Metacomet cominciarono ad abbandonarlo. All’inizio di luglio, in oltre 400 si arresero ai coloniali, mentre Metacomet trovò rifugio ad Assowamset Swamp, a sud di Providence, vicino a dove la guerra era cominciata.
Il capo aveva capito che la causa degli Indiani era perduta. Egli voleva vedere ancora una volta la sua vecchia casa, il posto dove aveva vissuto per sessant’anni e che ora sentiva avrebbe perso per sempre. Ormai il suo villaggio era stato devastato dalla guerra, il suo wigwam distrutto, il suo campo di granturco calpestato, la sua famiglia portata lontano da lui e i suoi amici presi prigionieri. Sentiva che la guerra era sbagliata, i suoi giovani guerrieri erano stati troppo impulsivi nel cominciarla senza una preparazione adeguata. Guardava nel futuro e lo vedeva troppo scuro per lui. La guerra invero era vicina alla fine. I Wampanoag parlavano di arrendersi e Filippo sapeva che la resa avrebbe significato la sua morte. Ma rifiutava categoricamente anche solo di pensare alla resa. Adesso Filippo non era più sicuro in nessun posto, ma il suo carattere altezzoso non cedeva alle avversità. Sebbene fosse andato incontro a ingenti perdite, e fra queste anche quelle dei suoi guerrieri più esperti, nonostante ciò sembrava più ostile e determinato che mai.


Villaggio fortificato Wampanoag

In agosto il capitano Church fece un attacco contro il quartier generale di Filippo a Matapoiset, dove uccise o prese prigionieri circa 130 guerrieri. Lo stesso Filippo riuscì a fuggire con difficoltà. Fu così precipitosa la sua fuga, che fu costretto a lasciare indietro la sua cintura di wampum, che cadde nelle mani dei vincitori insieme a sua moglie e a suo figlio. Fu poi accertato che il figlio venne venduto come schiavo, insieme a un gruppo di seguaci di Metacomet catturati. La relazione che fece Church riporta questi particolari: la guida di Church lo aveva condotto in un punto dove giaceva un grosso tronco d’albero che il nemico aveva abbattuto e posizionato attraverso un fiume. Church era giunto sulla riva, ad un’estremità del tronco, quando si avvide che all’altra estremità, dalla parte delle radici e dall’altra parte del fiume, c’era un Indiano. Immediatamente prese la mira e lo avrebbe freddato di sicuro, se uno dei suoi Indiani non gli avesse gridato di non sparare, perché pensava che fosse uno dei suoi uomini. Sentendo ciò, l’Indiano che stava dalla parte delle radici, guardò da quella parte e l’Indiano di Church, vedendo il suo volto, comprese il suo errore: in quell’uomo aveva riconosciuto Filippo. Lo stesso Indiano allora fece fuoco, ma era troppo tardi. Filippo si allontanò immediatamente dalla sua posizione, balzò sull’argine dell’altra riva del fiume e si portò fuori vista. Subito Church si pose all’inseguimento, ma non fu in grado di capire che direzione avesse preso il fuggitivo, e riuscì solo a catturare alcuni dei suoi seguaci. Da quel momento, Filippo fu inseguito molto da vicino e senza tregua: non poteva sfuggire alla sua sorte. La maggior parte dei suoi seguaci lo aveva abbandonato e fu seguito di luogo in luogo, finché si ritrovò in un antico sito vicino a Pokanoket.
Nella versione più accreditata, le circostanze della morte di Filippo vengono così narrate: avendo egli messo a morte uno dei suoi uomini perché questi gli aveva consigliato la pace, il fratello di quest’uomo, che si chiamava Alderman e aveva paura di fare la stessa fine, lo abbandonò e si recò dal capitano Church a dargli un resoconto della situazione e offrendosi di accompagnarlo al campo di Filippo. Il sabato 12 agosto, di primo mattino, Church giunse alla palude dove Filippo era accampato e, prima di essere scoperto, circondò il luogo di armati, eccetto che in un piccolo passaggio. Ordinò poi al capitano Golding di irrompere nella palude, cosa che questi fece subito, ma fu scoperto mentre si stava avvicinando e, come sempre, Filippo fu il primo a fuggire. Ma nella corsa incappò in un Inglese e un Indiano che partecipavano all’imboscata. Il fucile dell’Inglese si inceppò, ma quello dell’Indiano, che era Alderman, colpì Filippo al cuore. La notizia fu subito comunicata dallo stesso Alderman al capitano Church, che però non le diede molta importanza, concentrato come era nell’intento di sconfiggere definitivamente il nemico. Uno dei capi principali di Filippo, Annawon, aveva condotto sessanta dei suoi guerrieri in salvo da quella situazione pericolosa e, quando gli Inglesi irruppero nella palude, non trovarono che pochi Indiani, subito uccisi o catturati. Con il grande capo erano caduti cinque dei suoi più fedeli seguaci. Alla fine dell’operazione, Church comunicò alla sue truppe la gradita notizia della morte di Filippo, al che l’intera armata proruppe in tre fragorosi “hurrà!”. Il corpo di Filippo fu sollevato dal posto ove si trovava, fu decapitato e gli furono amputate le mani , mentre il corpo venne squartato e lasciato insepolto, perché fosse divorato dagli animali selvatici. La testa di Metacomet venne portata a Plymouth ed esposta in cima a un palo per ben vent’anni.


L’uccisione di Re Filippo

Vi è un resoconto con cui un colono, che all’epoca dei fatti aveva sedici anni ed era nipote del capitano Benjamin Church, narra con parole sue la fine di Re Filippo. Forse questo personaggio narra in prima persona e col piglio del testimone oculare anche fatti riferitigli dallo zio o da altri partecipanti alla spedizione, ma il racconto è quanto meno indicativo della mentalità e dell’atmosfera che regnava tra i Bianchi dell’epoca.
«I mesi della caccia agli Indiani erano quelli estivi, perché il letto dei torrenti si prosciugava, le abbeverate erano punti obbligati lontanissimi l’uno dall’altro, ma ben noti agli esploratori e alle guide. Così era molto più facile tendere agguati agli Indiani assetati e sterminarli. Nel 1677 gli Indiani attaccarono e distrussero il villaggio di Sudbury e mio zio ricevette l’ordine di attaccarli al più presto. Avevo appena compiuto 16 anni e per la prima volta ebbi il permesso di accompagnare i cacciatori; mio padre per l’occasione mi regalò uno splendido moschetto inglese e una Bibbia solidamente rilegata in pelle grezza. Da allora il fucile e la Bibbia mi accompagnarono sempre in tutte le mie spedizioni di caccia agli Indiani. E mi salvarono anche la vita: essendo caduto prigioniero di una banda di Sauk dovetti donarli al capo in cambio della libertà.
«Partimmo con i carri carichi di vettovaglie e di munizioni all’inizio dell’estate. Mio zio comandava un piccolo esercito, composto da 120 regolari, da un gruppo di abitanti di Bridgewater arruolatisi di fresco e ansiosi di vendicare non so quale torto fatto loro dagli Indiani, e da 30 battitori indigeni. Questi ultimi avevano il compito di individuare le bande; e poi, sparando e facendo fracasso, di spingerle verso la linea dei soldati appostati.
Dopo circa due giorni di cammino, lasciammo finalmente le coltivazioni ed entrammo nella foresta…La suggestione intraducibile di quei luoghi tanto diversi da quelli che avevo sempre conosciuto, giunse perfino a farmi concepire il pensiero che nella foresta noi Bianchi fossimo estranei e nemici, non solo agli Indiani che ci apprestavamo a cacciare, ma agli alberi, ai cespugli, agli uccelli e agli animali, che per gli Indiani invece erano compagni e amici.
«Ma i soldati e i volontari procedevano allegri e di buon passo, e questo spettacolo valse a dissipare presto i miei sciocchi timori e i miei pensieri insensati. Al tramonto, mio zio ordinava la sosta per la notte e le guide accendevano grandi fuochi, attorno ai quali gli uomini consumavano la cena e passavano poi un buon quarto d’ora a chiacchierare, a ridere, a scherzare, a raccontare episodi e avventure ormai quasi leggendari. Vivere con quei veterani e ascoltare le loro storie mi emozionava a tal punto che poi, la notte, non riuscivo a dormire e trascorrevo le ore del riposo a rigirarmi nella coperta. Se mai un ragazzo ebbe una buona scuola per diventare un esperto cacciatore di Indiani, quel ragazzo fui io.
Colono pellegrino
Al terzo giorno, poiché ci stavamo avvicinando ai luoghi dove le nostre guide pensavano che si trovassero gli Indiani, cominciammo a camminare in silenzio e con crescenti precauzioni; durante la notte, mio zio proibì che si accendessero i falò, e dormimmo tutti al freddo, senza più canti, chiacchiere e risate. Al mattino del quinto giorno di caccia, il capitano Church, che stava all’avanguardia assieme alle sue guide indiane, raggiunse il corso di un torrente lungo il quale, secondo le segnalazioni, doveva essere accampata una banda di Indiani. Appena giunto in quel luogo, il capitano Church vide un selvaggio arrampicato su albero oltre il torrente; mio zio imbracciò il fucile e l’avrebbe certamente ucciso con la sua mira infallibile, se una delle guide non gli avesse gridato di non sparare, perché forse si trattava di uno dei nostri Indiani, mandato in avanscoperta. L’Indiano sull’albero, proprio in quel momento, si guardò attorno e fu allora che il capitano Church, vedendolo in faccia, si accorse dell’errore: quell’Indiano era infatti Filippo, il maledetto cinghiale inferocito al quale da tanti giorno stavamo dando la caccia. Mio zio fece fuoco ma, ahimé, in ritardo: Filippo si lasciò scivolare lungo il tronco dell’albero e fuggì fra i cespugli presso la sponda del torrente. Mio zio, alquanto contrariato dall’incidente, decise che era il momento di allargare la battuta. Dopo aver lasciato alcuni soldati a presidiare il margine della palude dove era scomparso Filippo, il capitano Church e il signor Lowland, che comandava i volontari di Bridgewater, si avvicinarono dall’altra parte, cercando di circondare la zona.
«Erano appena giunti in posizione, che un gruppo di Indiani uscì allo scoperto, correndo velocemente. Alla vista di mio zio, del signor Lowland e dei volontari, gli Indiani scapparono, raddoppiando la velocità. Il capitano Church gridò che se si fossero arresi subito sarebbero stati risparmiati, altrimenti li avrebbe fatti uccidere tutti, visto che erano completamente circondati da uomini armati. Alle parole di mio zio, molti Indiani alzarono le mani e si lasciarono disarmare dai volontari. Purtroppo uno dei nostri riconobbe un Indiano che gli aveva ucciso un parente egli sparò a bruciapelo, uccidendolo. I volontari, credendo che il colpo fosse stato sparato dagli Indiani, aprirono subito il fuoco e tutti gli Indiani caddero, crivellati di palle. L’uomo che aveva sparato il primo colpo venne duramente punito da mio zio, che gli tolse per tre giorni la sua razione di rum: giusto castigo per la sua imprudenza.
«Poco più tardi, mentre io e molti altri nelle nostre posizioni non avevamo ancora avuto l’occasione di scaricare il fucile e fremevamo d’impazienza, mio zio e due uomini che gli stavano sempre al fianco si scontrarono con tre Indiani, due dei quali si arresero subito. Il terzo, invece, un uomo grande e robusto, con una enorme pelle di serpente a sonagli sulla testa e un aspetto molto selvaggio, fuggì e scomparve nella palude. Mio zio lo inseguì personalmente per un lungo tratto; quando lo raggiunse, gli puntò il fucile nella schiena e tirò il grilletto. Il colpo purtroppo non partì, e allora l’Indiano si voltò precipitosamente e puntò a sua volta il fucile. Ma per fortuna neppure il suo fucile sparò, probabilmente perché, come quello di mio zio, aveva l’innesco inumidito dalla brina del mattino. L’Indiano, poco coraggiosamente, voltò le terga e ricominciò a scappare; ma un piede gli rimase imprigionato in una radice e cadde a terra. Chiese pietà, lamentandosi come un agnello e bestemmiando il nome di Dio con preghiere e invocazioni cattoliche, certo apprese dai nostri mortali nemici francesi; ma mio zio, naturalmente, non lo ritenne degno di pietà e gli scaricò il fucile nella nuca, fulminandolo. Il che, se ce ne fosse bisogno, dimostra che gli Indiani, così coraggiosi e crudeli sul campo di battaglia, quando si trovano in condizioni di inferiorità diventano vili e strepitano come animali feriti.
Militare pellegrino
Il capitano, guardandosi alle spalle, vide allora correre verso di lui Totosan, un Indiano che credeva di aver ucciso in uno scontro precedente. Ma l’Indiano era stato avvistato anche dagli uomini della seconda linea, che gli spararono, salvando così la vita del capitano, sebbene egli corresse ugualmente un grave pericolo per le pallottole dei suoi che gli passarono così vicine da sentirne il sibilo.
«Ma la caccia era appena cominciata, anche se il sole era già alto sull’orizzonte e alle postazioni cominciavamo a soffrire per il caldo e per i miasmi fetidi che salivano dalla palude. Comunque, era circa mezzogiorno quando mio zio tornò verso di noi con il signor Lowland. Ricordo quello he stava dicendo al signor Lowland: “Caro amico, ho disposto i tiratori in modo che ci siano poche probabilità che quel cane di Filippo ci sfugga!”
«Proprio in quel momento una pallottola fischiò sopra le nostre teste e subito dopo, più in basso e sulla destra, cominciò a crepitare la fucileria. Sapemmo più tardi che un buon gruppo di Indiani con le loro donne avevano cercato di rompere la nostra battuta da quella parte, ma che il capitano Golding e i suoi uomini, tutti veterani, avevano potuto uccidere tutti. Poco dopo un selvaggio seminudo fu visto correre lateralmente alla nostra posizione, seguito da un ragazzo di dieci o dodici anni. Ma i nostri lo aspettavano: quando i due furono bene a tiro, un soldato inglese sparò al selvaggio senza colpirlo; cadde invece, ucciso non so da chi, il ragazzo. Fu allora che una delle nostre guide, che apparteneva alla stessa tribù alla quale stavamo dando la caccia, gridò: “E’ Filippo!” Il soldato che aveva mancato il colpo ordinò allora alla guida di sparare, cosa che l’Indiano fece non senza qualche esitazione, ma certo con cura. Infatti Filippo cadde con una pallottola nel cuore e piombò con il volto in avanti nella melma della palude. Appena caduto, altri volontari gli scaricarono addosso il fucile sprecando preziose munizioni, cosa per la quale furono rimproverati sia da mio zio che dal signor Lowland.
«Il sole era ormai quasi al tramonto quando, preannunciati dalle loro grida caratteristiche e dal suono dei corni, comparvero i battitori che avevano spinto gli Indiani alle nostre posizioni. Per evitare che qualcuno di loro venisse ferito, mio zio ordinò allora di sospendere il fuoco. Più tardi, quando tutti gli uomini si raccolsero intorno a lui, il capitano Church diede la notizia della morte di Filippo, l’assassino sanguinario che gli Inglesi chiamavano a volte “Re Filippo”, essendo egli a capo di una tribù così importante e numerosa come i Wampanoag. Alla notizia l’intera compagnia lanciò un allegro hurrah di esultanza. Poi mio zio ordinò ad alcuni Indiani di togliere Filippo dalla palude, in modo che tutti potessero vederlo. Le guide, stridendo come corvi per l’allegrezza di quel cadavere, lo presero per i calzoni e lo trascinarono all’asciutto. Il capitano Church disse quindi che, poiché Filippo aveva ucciso tanti Inglesi, doveva essere abbandonato insepolto nella palude, cibo per gli uccelli rapaci e i rettili notturni; subito dopo chiamò un vecchio Indiano e gli ordinò di tagliargli la testa e di squartarlo. Il vecchio si accostò a Filippo brandendo la scure ma, prima di farlo a pezzi, pronunziò un piccolo discorso indirizzato a Filippo, dicendogli che era stato un grande uomo, che i Bianchi avevano temuto. Mio zio interruppe bruscamente il discorso e fece eseguire l’operazione da uno dei volontari di Bridgewater. Il volontario compì rapidamente il lavoro che gli era stato ordinato. La testa di Filippo e una delle sue mani, perforata da un proiettile, furono donate da mio zio a Alderman, la guida indiana che ci aveva condotti in quel luogo.
«Quanto a me, non avevo sparato un colpo, ma la delusione non fece che accrescere il mio desiderio di partecipare alle future battute che i nostri vicini avrebbero organizzato nei boschi per ripulirli da quei selvaggi nemici di ogni civiltà e tanto privi di ogni senso di umanità».

Così morì questo capo che, considerato un selvaggio non istruito, fu senza dubbio un grande, considerate le sue risorse intellettuali e l’influenza che esercitò tra la sua gente. Se fosse vissuto in qualunque altro luogo o nazione, così combattendo per il suo paese natio, sarebbe stato considerato illustre come tutti gli eroi di ogni latitudine. Venne ingiustamente biasimato dalla gente di Plymouth per aver iniziato la guerra. Gli Inglesi pensavano che si fosse accordato con le altre tribù del New England e di New York allo scopo di scacciarli da tutto il territorio, se solo avesse potuto. Per questo gli Inglesi combatterono in modo così disperato e alla fine della guerra rimossero ogni ricordo delle tribù dal New England. E’ fuori di dubbio che in ogni caso gli Indiani sarebbero stati costretti a cedere le loro terre, prima o poi e Filippo indubbiamente lo aveva capito, ma pensava che la cosa migliore fosse la pace e lo faceva presente ai suoi seguaci. Gli Inglesi non lo sapevano e il risultato fu che Metacomet fu ritenuto responsabile di una guerra cui si era opposto fin dall’inizio.
La testa di Metacomet portata a Plymouth
La Guerra di Re Filippo si era dimostrata di importanza molto seria per le giovani colonie. Costò loro un equivalente di mezzo milione di dollari attuali e le vite di più di 600 abitanti, uccisi in battaglia o per diretta conseguenza della guerra. Furono distrutte tredici città e incendiate 600 case; difficilmente si trovò nelle colonie una famiglia che non dovette piangere la morte di un congiunto. Si è calcolato venne ucciso circa un uomo ogni undici. Ma la guerra fu ancor più disastrosa per gli Indiani: un gran numero di essi cadde in battaglia; le loro abitazioni vennero distrutte e il loro paese conquistato. Della grande e potente tribù Narraganset rimasero un centinaio di guerrieri.
Dei tanti guerrieri di Re Filippo, che erano uomini rimarchevoli, Viene spesso ricordato il possente Annawon. Al momento della morte di Filippo, Annawon era fuggito con certo numero di guerrieri. Il luogo del suo nascondiglio venne rivelato, non molto tempo dopo, da un Indiano, che era stato catturato assieme a sua figlia. Il posto si trovava in una palude appena a sud est di Rehoboth. Avuta l’informazione, il capitano Church adottò un audace stratagemma per catturare Annawon. Alla testa di un piccolo gruppo, guidato dai suoi informatori, Church nella sera si avvicinò con cautela al bordo di un precipizio roccioso, sotto il quale stava accampato il capo ed esaminò con cura la situazione: gli Indiani che c’erano, le loro armi, la loro attività (si stavano preparando per il pasto) e le eventuali difese, tutto venne rilevato dal capitano Church; e in particolare il fatto che Annawon e suo figlio stavano riposando vicino alle armi. Quando apprese dalla sua guida che non c’era modo di entrare nell’accampamento senza essere visti, eccetto che dalla parte del precipizio, decise di cercare di raggiungere l’obiettivo per quella direzione. La guida indiana e la figlia, secondo il piano concertato, con dei cesti sulla schiena come se portassero delle provviste, discesero per il pendio mentre le loro ombre nascondevano Church e i suoi uomini, che scendevano dietro di loro. In questo modo, anche se con grande difficoltà, raggiunsero tutti il fondo senza mettere gli Indiani in allarme. Tra l’altro furono coperti dal rumore fatto da una squaw che pestava del mais essiccato dentro un mortaio, quindi anche il fruscio generato dai loro saltelli di roccia in roccia non venne notato. Church, con un’ascia in mano, saltò sulle armi passando al di sopra della testa del figlio di Annawon, che si coprì con una coperta e si appiattì al suolo. Il vecchio capo emise un grido: Howah!, con il significato di Benvenuto! Vedendo che non c’era via di scampo, si rassegnò al suo destino e si coricò sul suo giaciglio, mentre gli assalitori catturavano i suoi compagni.


La cattura di Annawon – stampa

Inglesi e Indiani mangiarono amichevolmente insieme, quindi Church si coricò per riposare, perché non aveva dormito nelle trentasei ore precedenti; ma aveva la mente troppo piena di preoccupazioni per ammettere di riposarsi, e dopo poco tempo si alzò. In un’occasione, nella notte, ebbe dei sospetti sulle intenzioni di Annawon, perché questi, dopo aver tentato invano di dormire, si era alzato e si era allontanato per un po’. Quando ritornò aveva qualcosa in mano che posò al suolo (nel frattempo Church si era preparato al peggio); cadendo sulle ginocchia davanti al suo catturatore, disse: «Gran capitano, tu hai ucciso Filippo e conquistato il suo paese, per cui credo che per me e i miei guerrieri questa sia stata l’ultima guerra contro gli Inglesi. Penso che la guerra sia finita come tu desideravi.» L’involto di Annawon consisteva di regali, principalmente molte cinture di wampum, lavorate in maniera curiosa, e una coperta rossa da indossare, l’abito di gala di Filippo. Diede questi oggetti a Church, esprimendo la sua soddisfazione per aver avuto l’opportunità di fargli questi omaggi. Il resto della notte passò in conversazione, con Annawon che fece un resoconto dei suoi successi nelle precedenti guerre indiane, nelle quali egli aveva per capo Massasoit, il padre di Filippo. Si dice che Annawon confessasse di aver posto a morte molti prigionieri inglesi e di non poter negare che gli stessi erano stati torturati. In queste circostanze, considerando l’esasperazione che provavano Inglesi, era difficile aspettarsi che potessero mostrare pietà per lui. Tuttavia Church non intendeva metterlo a morte e, con onestà, intercedette anche per lui; ma non molto tempo dopo, durante una sua assenza da Plymouth, il vecchio capo venne giustiziato.

Non è difficile trovare tra gli storici e gli studiosi frasi di denuncia ed esecrazione per la condotta di Flippo e dei suoi guerrieri, a volte eccessiva e selvaggia. Indubbiamente essi erano crudeli, erano effettivamente ancora uomini preistorici. Ma si deve ricordare che, se non possono essere scusati, ci sono circostanze attenuanti che si dovrebbero considerare quando si parla della loro barbarie. L’insegnamento del Cristianesimo non attecchì quasi mai presso di loro. Non inflissero agli Inglesi torture peggiori di quelle inferte ai prigionieri delle tribù loro nemiche. In aggiunta, essi combattevano per il loro paese: erano patrioti e vedevano nel progresso e nella prosperità degli Inglesi la caduta della potenza indiana, con l’annullamento dello stesso nome di Indiano. Essi erano fratelli, mariti, che vedevano chiaramente che presto le loro relazioni familiari sarebbero state spezzate e che non ci sarebbe stata eredità per i loro figli.