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La vecchia frontiera

A cura di Domenico Rizzi

L’avventura inglese nel continente nordamericano iniziò in maniera tanto strana quanto rocambolesca, quasi guidata dalla mano invisibile di una mente che avesse già tracciato il futuro dell’America. I Pellirosse avevano avuto presagi dell’arrivo degli uomini bianchi provenienti dalla “grande acqua” dell’Oceano Atlantico, ma l’uomo che doveva creare la prima colonia rischiò di non vedere neppure la posa della prima pietra.
John Smith (1580-1631) barbuto ventisettenne di Willoughby, nel Lincolnshire, già protagonista di mille imprese sui campi di battaglia d’Ungheria e di Russia, prigioniero dei Turchi ai quali era sfuggito grazie al fascino esercitato – così sosteneva – su un bella principessa, giunse in vista della Chesapeake Bay in catene, per avere sobillato l’equipaggio, rendendosi colpevole di ammutinamento.
Difatti il capitano Cristopher Newport – che comandava le tre navi “Susan Constant”, “Discovery” e “Godspeed”, con 143 uomini a bordo – lo aveva fatto mettere ai ferri, con la promessa di impiccarlo al primo albero incontrato dopo l’approdo.
Invece, la busta sigillata che conteneva gli ordini del re Giacomo I invitava il responsabile della spedizione ad affidargli a sbarco avvenuto, in virtù della sua riconosciuta esperienza militare, il comando delle truppe di terra. Ovviamente Newport non avrebbe potuto contravvenire ad un ordine del suo sovrano, ma questa fu anche la sua fortuna, perché Smith si dimostrò subito all’altezza dell’incarico conferitogli.
Il luogo adatto alla fondazione della colonia venne deciso il 14 maggio 1607 da un altro ufficiale, Edward M. Wingfield. Per il primo insediamento britannico, battezzato Jamestown in onore di re Giacomo, si profilarono tempi difficili, con difficoltà che a volte parvero insormontabili. Le tribù algonchine della zona, che facevano parte di una confederazione detta dei Powhatan con a capo il “gran cacicco” Wahunsonacock, attuarono azioni di guerriglia contro i nuovi arrivati, il villaggio rimase spesso a corto di provviste e lo stesso Smith ne combinò un’altra delle sue, impossessandosi di un idolo dei Potomac. Per vendicarsi, questi lo catturarono nel mese di dicembre mentre si aggirava nei pressi del fiume Chickahominy e lo condussero al cospetto del loro capo supremo. A questo punto la storia lasciò il posto alla leggenda, perché il capitano inglese fu salvato in extremis da una fanciulla mentre gli Algonchini stavano per decapitarlo.

La ragazza era Matoaka, soprannominata Pocahontas e una delle decine di figli che Wahunsonacock aveva generato con le sue innumerevoli concubine. Benchè avesse soltanto 12 anni, sapeva di essere una delle predilette da suo padre e reclamò per sé quell’uomo, che come tutti gli Inglesi non possedeva la bellezza degli Indiani e puzzava al pari degli altri uomini bianchi. Così, almeno, la vicenda fu raccontata dallo stesso Smith, sebbene non vi siano mai state conferme di una tale versione dei fatti. Di lì a poco Pocahontas divenne certamente la sua amante e la cosa non deve sorprendere, perché le squaw pellirosse a quell’età erano già da marito ed anche moltissime donne bianche si sposavano a 14 o 15 anni.
In seguito Smith lasciò la colonia per tornare in Gran Bretagna – ufficialmente dopo un incidente accadutogli mentre si trovava a bordo della propria canoa, dove esplose casuallmente un barilotto di polvere – e poco dopo il capitano Samuel Argall di Jamestown fece imprigionare la ragazza, tenendola come ostaggio, finchè nel 1613 sir John Rolfe non la sposò, conducendola alla corte d’Inghilterra. Gli Inglesi avevano ormai ottenuto il loro scopo di impossessarsi della Virginia e il matrimonio sarebbe servito a cementare l’alleanza con gli Algonchini, ricalcando una politica che Jacques Cartier aveva già avviato nella parte del Canada occupato dai Francesi.
La bella principessa si sarebbe spenta a Gravesend, sulle rive del Tamigi, il 21 marzo 1617 a soli 21 anni, per una polmonite o forse a causa del vaiolo. L’anno successivo, con la morte di Wahunsonacock, gli Indiani si sollevarono e il 22 marzo 1622 distrussero Jamestown per ordine di Opechancanough, fratellastro del defunto cacicco, trucidando 347 persone e prendendo 20 donne bianche prigioniere. La guerriglia proseguì ad intermittenza per un ventennio, provocando una seconda parziale distruzione di Jamestown, ma si risolse infine a favore degli Europei.


Indiani Algonquin

Le tribù dei Potomac, Pamunkey, Mattaponi, Mausemond e Appomatock furono quasi annientate, l’anziano Opechancanough venne catturato a fatto morire nel 1644.

Guerre coloniali

Intanto 102 Padri Pellegrini, di religione puritana, erano sbarcati a Cape Cod fin dal 1620 e nel volgere di pochi anni la Nuova Inghilterra si popolò di molti nuovi arrivi, che costruirono villaggi e città. Nel 1650 gli abitanti di razza bianca presenti sulle sue coste erano oltre 50.000, un ventennio dopo superavano i 111.000. Nel frattempo, i Pellirosse, stimati in 840.000 nel XVII secolo, avevano già perso consistenza demografica a causa delle epidemie, delle guerre intestine e degli scontri con gli Europei. Gli Uroni – la cui popolazione oscillava fra 30 e 35.000 individui nei primi decenni del XVII secolo – erano stati decimati dal vaiolo e dal morbillo, oltre che dalle armi degli Irochesi e di qualche tribù algonchina; i Pequod avevano subito una durissima repressione guidata da John Mason e John Underhill perdendo oltre 1.000 componenti nel 1637: in un proditorio attacco dei Puritani al loro accampamento sul Mystic River, ne erano stati uccisi quasi 650 in una sola volta. Gelosi della potenza della tribù rivale, 200 Niantic e Narragansett non avevano esitato a schierarsi con la milizia territoriale di Mason e 70 Mohicani dei capi Uncas – quello vero, il cui nome sarebbe stato utilizzato da James F. Cooper per il suo celebre romanzo – e Wequash appoggiarono le truppe di Underhill, partecipando attivamente allo sterminio.
Nel 1675-76 un capo dei Wampanoag – Metacomet, soprannominato “Re Filippo” – coalizzò diverse tribù per scacciare gli Inglesi dal continente. Riuscì ad ucciderne 600, distruggendo 12 villaggi nel Connecticut e nel Rhode Island e razziando 8.000 capi di bestiame, ma la rivolta terminò con la sua morte e la sconfitta degli insorti.


Uroni

Nel 1689 Francia e Inghilterra si scontrarono fra loro nella Guerra di Re Guglielmo, avvalendosi ciascuna dell’alleanza di molte tribù indiane. Le incursioni degli Irochesi, alleati britannici, causarono una carneficina nel villaggio di La Chine, dove 72 Francesi morirono e 120 furono catturati. L’inevitabile ritorsione, condotta soprattutto dagli Abenaki, portò devastazioni nell’ex colonia olandese di Schenectady, a Deerfield, Candlemas e Salmon Falls. Quando la guerra si concluse, nel 1697, alcune tribù indiane continuarono a rimanere in armi per accrescere il loro bottino, massacrando la popolazione civile come fecero gli stessi Abenaki ad Haverhill, nel Massachussets, dove trucidarono 27 persone catturandone altre 13. Hannah Dustin e Mary Corliss Neff, portate via prigioniere, si sarebbero vendicate uccidendo a colpi di tomahawk e mazze da guerra 11 Indiani – dei quali 9 erano donne e bambini – durante una notte di sosta sul fiume Contoocoock: la gente della Vecchia Frontiera, costretta a lottare per la sopravvivenza, mostrava di avere acquisito la stessa spietata mentalità dei Pellirosse.
Nelle aree molto più a sud, i Tuscarora di lingua irochese, sobillati dagli Spagnoli in North e South Carolina, si abbandonarono ad incursioni contro gli insediamenti inglesi, mentre i Francesi della Louisiana dovettero vedersela con i Natchez, aizzati dai loro vicini Chickasaw alleati della Gran Bretagna. Nel 1715 gli Yamassee, tribù muskogee sostenuta dai Catabwa-Sioux, uccisero oltre 380 Bianchi in una serie di razzie, continuando a costituire una minaccia costante fino al 1727, allorchè le armi delle milizie non spensero il loro ardore. Poi fu la volta della sottomissione dei Natchez, colpevoli del tremendo eccidio compiuto a Fort Rosalie, nel Mississippi, il 29 novembre 1729, dove furono scannate e scotennate 229 persone: 138 uomini, 35 donne e 56 bambini, ma si ritiene che il numero delle vittime, considerati i dispersi, sia stato ancor più elevato.
Appoggiati dai loro alleati indiani – circa 700 Choctaw – i Francesi attuarono una sanguinosa repressione in dicembre e nel gennaio 1730 sotto il comando di Jean Paul le Soeur e Henri de Louboey, uccidendo 80 Natchez, catturando una ventina di donne e liberando alcuni ostaggi presi a Fort Rosalie. I loro amici Choctaw fecero di meglio, ammazzando in un’incursione 100 Natchez e prendendone molti prigionieri. Alla fine gli Indiani arresisi all’offensiva furono 500, moltissimi dei quali furono deportati nelle piantagioni di Haiti come schiavi.
Neppure i conflitti anglo-francesi per il possesso delle colonie settentrionali accennavano ad estinguersi.


Natchez in battaglia

Nelle successive Guerra della Regina Anna (1702-1713) e Guerra di Re Giorgio (1744-1748) si ripeterono spesso le scene di violenza che avevano caratterizzato le precedenti ostilità. Spiccò fra gli altri il tremendo eccidio compiuto nel villaggio di Deerfield, Massachussets, già devastato in precedenza. L’azione, svoltasi il 29 febbraio 1704, venne condotta da 240 Algonchini di varie tribù affiancati da 48 soldati regolari francesi comandati dal capitano Jean Baptiste de Rouville e costò agli Inglesi la perdita di 56 persone e la cattura di altre 112. Di questi, 18 vennero trucidati o abbandonati in fin di vita durante la marcia verso il Canada, dove ne giunsero una novantina ancora vivi. Un certo numero di questi ostaggi, si calcola 53, furono poi riconsegnati per intercessione dello stesso Rouville.
Nella Guerra dei Sette Anni (1756-1763) gli Inglesi riuscirono ad avere finalmente ragione dei loro nemici, pagando però un elevato tributo di vittime umane ed un costo esorbitante per finanziare la campagna.
Durante questo conflitto avvenne il tragico massacro di Fort William Henry, una postazione situata sul Lago George nella provincia di New York, assediata dall’armata del marchese Louis Joseph de Montcalm. Dopo la resa sulla parola data dal nobile francese, gli Inglesi del tenente colonnello George Munro furono proditoriamente aggrediti il 9 agosto 1757 dagli Indiani che fiancheggiavano le truppe francesi. Vennero uccise 178 persone fra militari e civili, ma oltre 1.600 risultarono disperse: di queste, svariate centinaia erano finite nelle mani dei Pellirosse e soltanto una parte potè riacquistare la libertà per intercessione dei Francesi. Lo scrittore James Fenimore Cooper (1789-1851) avrebbe fatto di questo scontro il tema centrale del suo celeberrimo romanzo “L’ultimo dei Mohicani”, pubblicato nel 1826.


Il massacro di Fort William Henry

Nel corso di questa guerra, era emersa tra le file inglesi la poderosa figura del maggiore Robert Rogers (1731-1795) un corpulento ufficiale nativo del Massachussets che aveva organizzato un battaglione di Queen’s Ranger, vestiti di casacche verdi per mimetizzarsi nelle foreste, addestrandoli a combattere senza obbedire rigidamente alle regole di condotta militari: il cinema lo avrebbe immortalato in una memorabile pellicola di King Vidor – “Nortwest Passage” (“Passaggio a Nord-Ovest”, 1940, dal popolare romanzo di Kenneth Roberts – interpretato da Spencer Tracy.
Terminato il conflitto, nel 1763 si abbattè nuovamente sui possedimenti inglesi la furia degli Indiani capeggiati da Pontiac (1720-1769) che riuscì a coalizzare 14 tribù, fra le quali gli Ottawa, gli Ojibwa, , i Miami, i Kickapoo, i Delaware e gli Shawnee. Ispirato dal sedicente profeta delaware Neolin, scatenò una violenta insurrezione, mobilitando circa 3.300 guerrieri di 18 tribù diverse. Durante il primo anno di guerra, distrusse parecchi villaggi e avamposti, trucidando 400 soldati e circa 1.800 civili, mentre centinaia di coloni fuggivano terrorizzati dalle loro case date alle fiamme, ma anche questa volta la Gran Bretagna si dimostrò più implacabile dei suoi nemici. Inoltre Pontiac venne tradito soprattutto dai propri alleati e ucciso il 20 aprile 1869 in un agguato a Cahokia, in Illinois, da alcuni membri della tribù dei Peoria, passata nel campo avversario.

La conquista americana

Nel frattempo le colonie avevano accresciuto la loro popolazione, ma in molti casi si trattava ancora di gente deportata perché aveva commesso qualche crimine nella terra d’origine. Parecchie donne misero piede nel nuovo continente perché costrette dalla giustizia britannica, che ne prevedeva, una volta giunte a destinazione, la vendita come schiave. Il noto film “Gli invincibili”, diretto da Cecil B. De Mille nel 1947, si ispirò ad una vicenda del genere, ricavata dal romanzo “Unconquered: a Novel of Pontiac Conspiracy” di Neil H. Swanson.
La vittoria inglese, che portò alla conquista del Canada sud-orientale con i suoi centri di Montrèal e Quebèc, innescò un’insanabile crisi fra la madre patria e i coloni americani, oppressi da una serie crescente di imposte applicate dalla Gran Bretagna per compensare l’enorme debito di guerra. La tensione, culminata nel dicembre 1773 con il boicottaggio del tè nel porto di Boston, diede luogo ad una serie di scontri che sfociarono presto in aperto conflitto. Gli Inglesi sottovalutarono inizialmente la capacità bellica degli insorti, guidati da un loro ex ufficiale – il piantatore virginiano George Washington (1732-1799) già colonnello della milizia territoriale nel conflitto precedente – che possedeva, nella sua estesa tenuta di Mount Vernon, 600 braccianti agricoli e 300 schiavi. Con grande superficialità, qualche generale della corona si limitò a definire gli Americani, appoggiati anche dall’armata francese del generale La Fayette, “un’accozzaglia di indisciplinati che combattevano senza onore”, contro la consuetudine militare del tempo, evitando gli scontri aperti e mirando ai comandanti delle formazioni nemiche. Alla fine l’Inghilterra pagò la sua presunzione con una serie di sconfitte, l’ultima delle quali subita a Yorktown nel 1781.

Dalla dichiarazione del 4 luglio 1776 nascevano gli Stati Uniti d’America, che contavano 3 milioni e mezzo di abitanti e possedevano già 757.000 schiavi africani (un numero che superava già di un terzo quello degli stessi Pellirosse) importati nelle Americhe fin dai primissimi anni del XVII secolo quand’era sorta Jamestown. Il loro destino fu segnato dallo stesso trattato di pace firmato con la Gran Bretagna, che consentiva agli Americani di spingersi fino al fiume Mississippi, esercitandovi la schiavitù soprattutto nelle regioni agricole del Sud. Intanto, gli Indiani erano costretti ad arretrare continuamente dinanzi all’avanzata dei nuovi padroni.
Le guerre più cruente scoppiarono proprio fra i coloni che si dirigevano verso il West di quei tempi e le tribù dei Miami, dei Creek, degli Shawnee e dei Seminole.
Gli Indiani, dopo una serie di successi ottenuti sul campo contro le truppe e le milizie degli Stati Uniti – il più eclatante fu conseguito da Piccola Tartaruga il 4 novembre 1791 sul fiume Wabash, nell’Ohio, contro il generale Arthur Saint Clair, che perse più di 900 uomini – furono pesantemente sconfitti e costretti ad accettare la pace. Purtroppo per loro, non poterono cullarsi a lungo sulla vittoria, perdendo una serie di combattimenti successivi, fra i quali vi fu Fallen Timbers (Ohio) vinta dalle truppe del generale “Crazy” Anthony Wayne il il 20 agosto 1794.
L’anno dopo a Greenville gli sconfitti dovettero vendere vaste porzioni dei loro territori – fra cui la regione in cui sorgono Chicago e Detroit – dietro un modesto indennizzo di 20.000 dollari.
Uno dei combattenti per la causa indipendentista era stato Daniel Boone (1734-1820) che divenne in seguito il simbolo del frontiersman americano. Figlio di gente quacchera, temerario, ansioso di esplorare nuove regioni, si spinse sempre più verso occidente, fondando insieme ad una trentina di compagni la città di Boonesborough, lungo il fiume Kentucky, assalita dagli Shawnee di Pesce Nero nell’aprile 1777. Catturato nel gennaio successivo dagli stessi Indiani, diventò amico del condottiero pellerossa, nonostante gli avesse ucciso un figlio nel maggio precedente. Quando seppe però che Pesce Nero intendeva assalire di nuovo Boonesborough, Daniel fuggì, percorrendo 160 miglia attraverso la foresta per avvisare gli occupanti del pericolo. Dal 1799 Boone si trasferì nel Missouri, dove rimase fino alla morte, che lo raggiunse all’età di 85 anni.

Tecumseh, Aquila Rossa e Falco Nero

L’uomo che cercò di risollevare i popoli amerindi dalla triste condizione in cui stavano precipitando fu Tecumseh (1768-1813) un capo della tribù dei Shawnee che accarezzò l’ambizioso progetto di mettere insieme diverse tribù per contrastare l’avanzata degli Americani. Per fare ciò si assicurò l’alleanza degli Inglesi del Canada, i quali lo rifornirono di armi e polvere da sparo promettendogli un appoggio militare che non gli avrebbero mai dato. Il suo sogno di creare uno Stato interamente indiano a sud dei Grandi Laghi si infranse il 7 novembre 1811, quando in sua assenza le truppe del generale William Henry Harrison circondarono la “capitale” pellerossa Tippecanoe, nell’Indiana, sorprendendo le sue forze temporaneamente affidate al fratello Tenskwatawa, che ostentava immeritatamente le proprie doti di “Profeta”. Nonostante le perdite contenute – una settantina di guerrieri – gli Indiani della coalizione si dispersero e il loro grande villaggio finì completamente distrutto. A Tecumseh, fortemente demoralizzato ma non ancora rassegnato del tutto, non rimase che prendere parte alla Guerra Anglo-Americana del 1812-14, combattendo dalla parte britannica con il grado di generale di brigata. Una pallottola nemica pose fine ai suoi giorni il 5 ottobre 1813 vicino al fiume Thames, mentre affrontava proprio le truppe di Harrison, che diventerà presidente degli Stati Uniti nel 1841.
Una nuova insurrezione guidata dal mezzosangue Aquila Rossa (William Weatherford) alla testa dei Creek – una parte dei quali aveva già dato appoggio a Tecumseh – portò nell’agosto 1813 alla distruzione di Fort Mims, nei pressi della città di Mobile, dove 367 persone furono uccise e 150 catturate: a dispetto di quanto mostrato da molti film western, nessun altro attacco indiano ad una postazione sarebbe stato più sanguinoso negli anni a seguire. Tuttavia, la rivolta non ebbe miglior fortuna delle precedenti e si concluse tragicamente a Horseshoe Bend (Alabama) il 27 marzo 1814, dove i Creek persero 857 uomini. In precedenza, gli Americani li avevano sbaragliati e messi in fuga in una serie di battaglie a Tallassahatchee e Talladega: a quest’ultima, dov’erano stati uccisi 186 guerrieri, aveva partecipato anche Davy Crockett (1786-1836) in qualità di ufficiale della milizia del Tennessee.


Tecumseh

A conti fatti, l’ennesima guerra aveva portato alla decimazione dei Creek, infrangendone per sempre la potenza militare così com’era avvenuto per i Miami. Le loro bande persero infatti 1.597 uomini, riportando un numero incalcolabile di feriti, dopo avere inflitto agli Americani 584 morti. Aquila Rossa e circa 200 seguaci riuscirono a fuggire e molti di essi raggiunsero i Seminole della Florida. Il condottiero morì il 24 marzo 1824 in Alabama, ormai in pace.
L’artefice di queste vittorie era un generale nato nel 1767 al confine fra le due Caroline, un uomo rozzo e attaccabrighe che aveva imparato a leggere e scrivere dalla propria madre dopo essere cresciuto in una log-cabin. Andrew Jackson, dotato di un carisma eccezionale e di metodi inflessibili, aveva guidato le proprie truppe in una serie ininterrotta di successi, ottenendo un anno dopo il più clamoroso a danno degli Inglesi. Infatti, alla testa di un esercito composto, oltre che da militari, da cacciatori di pellicce, pirati, contrabbandieri e Indiani respinse l’8 gennaio 1815, nelle paludi di New Orleans, l’armata scozzese del generale lord Edward Pakenham. Benchè la guerra fosse già terminata all’insaputa dei due schieramenti, gli Americani vinsero in maniera devastante, uccidendo 291 Inglesi fra cui 4 generali, ferendone 1.262 e catturandone quasi 500. Le perdite di Jackson furono invece irrisorie: 13 morti e 39 feriti. La sua capacità militare, nonostante la brutalità dimostrata in diverse occasioni e la qualifica di “uomo della Frontiera” – appellativo non gradito a tutte le persone dell’area civilizzata – lo condussero alla Casa Bianca nel 1829, dove sarebbe stato riconfermato per un ulteriore mandato, firmando l’ignobile Indian Removal Act approvato dal Congresso nel 1830.
In base a tale provvedimento, la maggior parte degli Indiani insediati ad oriente del Mississippi – ne erano stati censiti 97.000 – sarebbe stata trasferita nel Territorio Indiano dell’Oklahoma.
I 2.000 Sauk e Fox di Falco Nero, stanziati in alcune fertili vallate dell’Illinois, tentarono invano di scongiurare l’esproprio delle loro terre nell’estate 1832. Dopo alcune battaglie sostenute contro l’esercito e la milizia di Stato, gli Indiani in fuga si attestarono nei pressi della foce del torrente Bad Axe, dove l’1 e 2 agosto sostennero il confronto decisivo con le truppe del generale Henry Atkinson e del colonnello Henry Dodge, che li presero tra due fuochi. Al termine del combattimento, Falco Nero depose le armi dopo avere perso 150 contribali.

Osceola

L’esodo forzato verso occidente rappresentò una delle maggiori tragedie vissute dalle nazioni pellirosse del Nordamerica.
Dal 1831 al 1834 furono deportati 12.000 Choctaw e 14.600 Creek, ai quali seguirono circa 16.000 Cherokee e alcune migliaia di Shawnee, Delaware, Pottawatomie, Kickapoo, Ottawa, Miami, Seneca, Cayuga, Sauk e Fox e Seminole. Questi ultimi si opposero però strenuamente agli ordini governativi e una parte di essi si rintanò nelle paludi dell’Everglades, in Florida, sostenendo un’accanita resistenza contro le truppe americane.
Erano guidati da diversi leader di prestigio, sopra tutti la figura di Osceola, probabilmente un mezzosangue come Aquila Rossa, votato alla causa dei nativi. Le schermaglie dei Seminole – un tribù di lingua muskogee e di derivazione creek – erano iniziate appena dopo l’acquisto della Florida spagnola da parte degli Stati Uniti, nel 1819. Andrew Jackson ne era stato nominato governatore e con i suoi soliti sistemi intendeva pacificare la regione, aprendola alla colonizzazione.
Osceola, nato verso il 1803 sul fiume Tallapoosa, in Georgia, da una donna creek e da padre metà scozzese e metà indiano, aveva assunto un atteggiamento accomodante dopo avere contrastato Jackson per un certo periodo. L’incarico di deportare i Seminole in Oklahoma – territorio che non portava ancora questo nome – venne affidato nel 1832 al generale James Gadsden, il quale riuscì a convincere l’influente capo Emathla a firmare dietro un indennizzo di oltre 15.000 dollari.


Osceola durante la discussione di un trattato

Osceola si ribellò, dandosi alla macchia con alcune centinaia di seguaci, dopo avere fatto assassinare Emathla in un agguato nel mese di novembre 1835. La “guerra nelle paludi” – per gli Stati Uniti una sorta di anticipazione della futura campagna del Vietnam – si trasformò presto in tragedia per le truppe americane, che dovevano muoversi in una regione acquitrinosa, infestata di alligatori, da altri rettili velenosi e dalle zanzare che portavano la malaria.
Il 28 dicembre 1835 il maggiore Francis L. Dade, che comandava un reparto composto da 108 militari e guide e disponeva di un cannone, cadde in un’imboscata mentre procedeva alla volta di Fort King. L’ufficiale venne massacrato insieme a 103 dei suoi uomini. Si salvarono soltanto 3 militari e la guida afro-americana Luis Pacheco, catturato dagli Indiani ma da essi risparmiato per il colore della sua pelle, in quanto i Seminole avevano sempre dato ospitalità agli schiavi fuggiti dalle piantagioni del Sud. Qualcuno sospettò tuttavia che fosse stato lo stesso Pacheco ad attirare Dade nella trappola preparata dal capo-guerriero Micanopy, luogotenente di Osceola. Il regista Raoul Walsh realizzò nel 1951 su questa campagna negli acquitrini un film spettacolare e suggestivo dal titolo “Tamburi lontani”, affidando la parte di protagonista a Gary Cooper. Due anni dopo Budd Boetticher ricostruì a modo suo l’episodio del Massacro Dade in “Seminole”, interpretato da Rock Hudson e Anthony Quinn (Osceola).
La guerriglia proseguì per altri due anni, senza che l’esercito conseguisse i risultati sperati. Il generale Thomas Sidney Jesup chiese allora aiuto ad altre tribù e ottenne un rinforzo di 1.100 guerrieri: glielo fornirono Shawnee, Delaware, Kickapoo, Sauk e Fox e Choctaw. Il tradimento e le defezioni erano purtroppo comportamenti frequenti fra le tribù indiane: Metacomet e Pontiac erano stati abbandonati, traditi e uccisi da Pellirosse rinnegati e lo stesso Tecumseh aveva visto alcuni alleati e frange della sua stessa tribù passare dalla parte degli Americani. Tuttavia Jesup non riuscì a catturare i Seminole ribelli e dovette ricorrere ad uno stratagemma per aver ragione di Osceola. Imprigionato al termine di un pretestuoso colloquio di pace, il capo venne lasciato morire di malattia il 30 gennaio 1838 nel carcere di Fort Moultrie.
Circa 2.300 Seminole rastrellati al di fuori dell’Everglades vennero condotti in Oklahoma, ma 1.400 e più sarebbero rimasti liberi fino ai giorni nostri all’interno delle paludi che li avevano salvati. Il governo di Washington, dopo avere perso quasi 1.500 uomini e speso 20 milioni di dollari nel corso della lunga guerra, rinunciò a dar loro la caccia, ritenuta eccessivamente onerosa per le casse dello Stato.
Grazie alla loro ostinazione, i Seminole della Florida – che sono stati censiti in 4.000 componenti nel 2015 – rimangono ancor oggi l’unica tribù indiana che gli Stati Uniti non riuscirono mai a sconfiggere completamente.
Sbaragliati, dispersi e deportati i popoli pellirosse entro il 1840, salva qualche residua sacca di resistenza, mentre i pionieri si riversavano ormai verso il West – soprattutto diretti nel Texas e nell’Oregon prima del grande richiamo della corsa all’oro in California – gli Indiani li osservavano ancora con stupore e con una certa ammirazione, ignari che entro un decennio avrebbero dovuto rivolgere le armi contro di loro.
All’orizzonte si stava profilando l’ultima impari lotta fra una nazione di 23 milioni di abitanti e 150.000 Pellirosse delle pianure, delle montagne e dei deserti sud-occidentali.
Le loro imprese sarebbero diventate leggendarie, creando, dall’inizio del Novecento, la fortuna del cinema western.