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La casa sul fiume del vento

IMMAGINE COPERTINAUna guida di carovane che si reca inconsapevolmente ad un appuntamento con il destino, una giovanissima schiava fuggita dalle piantagioni del Mississippi mentre sta per finire la guerra, una prigioniera dei Cheyenne che tenta di rifarsi una vita fra i Bianchi, una ragazza debosciata che si concede ad un maniaco alcolizzato, una giovane fuorilegge inseguita dagli uomini della legge dopo una sanguinosa rapina, un timido contadino del Sud che deve tenere testa ad una scatenata Messicana in una ghost town del New Mexico…
Sono soltanto alcune delle tematiche che animano “La casa sul fiume del vento”, il nuovo libro di Domenico Rizzi, uno degli autori di Farwest.it.
Il libro contiene ben 7 lunghi racconti che spaziano in un’epoca compresa fra il 1853 e il 1929, nell’America dei pionieri, degli Indiani, degli schiavi, degli sceriffi e dei banditi. Per rendere più accessibile al lettore la terminologia usata nel testo, Rizzi si prende la briga di aggiungere in appendice un glossario dei termini e un elenco delle tribù indiane citate nel corso della narrazione, dando così vita ad un volume di oltre 300 pagine.
Giunto alla sua 22^ pubblicazione, l’autore riserva in quest’opera molte sorprese, pur rispettando le atmosfere tradizionali e un po’ crepuscolari del vecchio West.

Nell’intervista che segue, ci rivela alcuni segreti della sua nuova, avvincente avventura su carta stampata.

D. Dopo molte pubblicazioni di storia, sei passato sempre più alla narrativa, da “La montagna di fango”, a “Pianure lontane”, alla “Trilogia di Dunfield” (l’ultimo, “I segreti di Dunfield” pubblicato meno di un anno fa) trovando sempre nuove ispirazioni. Quali le ragioni del cambiamento?

R. Non si tratta di un vero e proprio cambiamento di gusti. Amo l’epopea del West in tutte le sue espressioni. Mi piace rievocarne la storia e lo farò in altre pubblicazioni successive, ma anche inventarne delle trame che a volte consentono meglio di esprimere i propri punti di vista. L’importante è mantenersi fedeli alla realtà del contesto, senza sconfinare in uno “spaghetti-book”.

D. Dunque non siamo in presenza di un libro di sfide e pistoleri…

R. Tutt’altro. Le sfide ovviamente non mancano, come nel racconto “Duello a Red Canyon”, così come sono presenti le vendette – “La figlia di Hopkins” – ma il libro si snoda su un sentiero molto diverso. Innanzitutto lo considero più completo di molte raccolte in circolazione, perché esplora tutte le tipologie di personaggi del West: il cacciatore di pellicce, il soldato sudista, l’esploratore, l’ufficiale di cavalleria, lo sceriffo, il capo indiano, il contadino, il giornalista…Secondariamente, ho dato a ciascun racconto un preciso inquadramento nel suo contesto storico, lasciando affiorare in sottofondo gli autentici avvenimenti dell’epoca.

D. Perché il suggestivo titolo “La casa sul fiume del vento”?

R. E’ il titolo del racconto di apertura, che si svolge lungo un torrente (non il Wind River, beninteso) in una vallata dell’Idaho al tempo della grande emigrazione verso l’Oregon. Il protagonista è lo stesso del racconto “Pianure lontane”, inserito nella raccolta omonima, che pubblicai nel 2009. E’ un Isaac Ellis che ha cambiato mestiere, trasformandosi da cacciatore di pellicce a guida di emigranti, ha quasi vent’anni in più e non si è ancora liberato dalle ombre del suo passato.

D. Illustraci altre caratteristiche del tuo libro.

R. Beh, cominciamo col dire che protagoniste sono essenzialmente le donne, dalle tre misteriose ragazze del primo racconto alla scatenata donna-bandito dell’ultimo. Nessuna di esse assurge alla celebrità che la leggenda attribuì a Calamity Jane, Belle Starr, Fanny Kelly o Ann Eliza Webb, ma tutte hanno un peso notevole. Sono quasi sempre loro a condurre l’azione, anche quando sembri che siano gli uomini a farlo. Non è affatto vero che le donne, come incautamente sostennero sia John Ford che Budd Boetticher, avessero poco peso nella storia del West: infatti si smentirono entrambi dirigendo film in cui l’elemento femminile assurge a vero protagonista. Due esempi? “L’uomo che uccise Liberty Valance” di Ford e “La valle dei Mohicani” di Boetticher.

D. Quale di questi personaggi femminili ti è piaciuto maggiormente?

R. A parte la disinibita Glenda di “Duello a Red Canyon”, che ne combina di tutti i colori, mi affascinano tutte: la timida Abigail che non osa rivelare i propri sentimenti all’uomo di cui è invaghita, la schiava Rachel che, nonostante il colore della sua pelle, incontra l’amore di un Bianco, la scatenata messicana Maribel che finisce per ottenere il proprio scopo con uno scapolo impenitente…Poi la coraggiosa Linda, un’immigrata tedesca del Kansas finita nelle grinfie prima dei Kiowa e poi dei Cheyenne, la sprezzante Julia, figlia del disonesto giudice Hopkins e infine la spregiudicata Carrie, una ragazza del Sud divenuta amante di un fuorilegge, capace di lasciare un segno indelebile nella memoria di un adolescente.

D. Fra l’altro, quello che tu presenti è un West multietnico, nel quale l’autore sembra schierato a favore delle minoranze discriminate, come i Neri e i Pellirosse…

R. Certamente, ma senza perdere di vista il realismo e prestando maggiore attenzione alle singole situazioni che si creano. Quando si descrive una realtà, bisogna conoscerne tutte le sfaccettature per non scadere nella banalità o, peggio, nella demagogia. Una ragazza, nera, bianca o pellerossa, fa una scelta perché le piace quell’uomo, al di là delle differenze razziali o di ceto sociale. Una di esse viene perfino affascinata da un criminale, che di fronte a lei diventa un uomo disarmato.

D. Per l’appunto, quel Keith Farrell di “La figlia di Hopkins” è un delinquente che ha ucciso a sangue freddo e compiuto senza scrupoli un’opera di distruzione. Rammenta un po’ il Will Munny del film “Gli spietati” del caro Eastwood.

R. Farrell è un uomo che ha subito una condanna ingiusta, maturando dentro di sé il proposito di un’atroce vendetta. Eppure, non ha smarrito del tutto la propria umanità, né i sentimenti che un uomo prova di fronte ad una donna. Il personaggio è stato concepito così e al riguardo io la penso esattamente come Clint Eastwood.

D. Vale a dire?

R. Il grande Clint disse, rispondendo a certe critiche nei confronti di questo Munny che aveva addirittura distrutto un treno con donne e bambini a bordo: “Se qualcuno tocca i miei personaggi, gli sparo nella schiena!”

D. Passiamo ad un argomento curioso: prima di “Brokeback Mountain” non comparivano, se non raramente, personaggi gay nella letteratura e nel cinema western. Tu ce ne hai messo uno nel racconto “Accadde a Clear Creek”.

R. Beh, vi sono, magari soltanto allusivamente, dei personaggi di quel genere nel cinema: basti ricordare “Ultima notte a Warlock” di Edward Dmytryck, che sottintende un feeling tra Henry Fonda e Anthony Quinn, oppure in “Dead Man” di Jim Jarmush, con la presenza di un travestito, benché abbia una parte marginale. Il western italiano è stato molto più esplicito con “Se sei vivo, spara” di Giulio Questi, che venne addirittura sequestrato per gli eccessi di violenza che mostrava. L’unico personaggio gay del mio libro è una figura di secondo piano, un giovane costretto a diventare amante di un criminale mentre si trovavano entrambi in carcere. Dunque, non è così per sua libera scelta, ma sono state le circostanze a farne una vittima della prevaricazione. E’ probabile che anche nel West si creassero situazioni del genere, soprattutto nei penitenziari, dove era rinchiusa gente di ogni risma. Fra gli Indiani, raccontano diverse testimonianze, vi erano di questi soggetti, guardati con timore e rispetto dai contribali, che credevano fossero posseduti da uno spirito.

D. Tornando invece alle donne, quella Julia Hopkins cresciuta fra gli agi, dimostra un coraggio fuori dal comune.

R. Forse è questa ragazza che mi piace più di tutte le altre, anche perché non rivela subito all’uomo una sua esperienza passata, mostrandosi fino all’ultimo orgogliosa e sprezzante, così come sarà determinata nei confronti di suo padre quando dovrà fare una scelta.

D. La più allegra appare invece quella Maria Isabèl del racconto “Accadde a Clear Creek”. Perché una Messicana e non una “gringa”?

R. E’ stata una scelta intenzionale: volevo una donna dal carattere latino, tanto sfacciata e provocatrice nel comportamento, quanto capace di tirare fuori le unghie come una tigre in caso di pericolo. Poi è noto che la gente latina, come i Messicani, possedevano maggior brio e sfrontatezza rispetto ai loro confinanti. Forse è la reazione del diseredato che lotta per la sopravvivenza di fronte ad un modello di società molto più organizzato e, se vogliamo, più deprimente. Ricordiamo che a quell’epoca in molte città, Cinesi e Messicani dovevano formare dei quartieri separati dal resto dell’agglomerato urbano, come ho scritto nel mio libro “O.K. Corral 1881”a proposito di Tombstone.

D. A differenza di altri libri di impronta western, il sesso è una componente molto forte nelle tue storie. In qualche racconto, come “La strada perduta”, diventa addirittura il leit motiv della vicenda.

R. Anche se credo che nel West la gente avesse meno tempo di oggi da dedicare a quest’aspetto, i rapporti sessuali erano abbastanza frequenti anche al di fuori del vincolo matrimoniale, così come erano numerosi gli incesti famigliari. Nonostante l’ostentata morale vittoriana e i vari divieti, ciò avveniva anche fra persone giovanissime. Fra i Pellirosse una donna diventava da marito a 14 anni e fra i Bianchi molto spesso accadeva la stessa cosa. L’esperienza di Martin Abbott nel racconto che hai citato è comune a migliaia di adolescenti che si trovano alle prese con una donna più adulta. Soltanto che in questo caso si sviluppa in condizioni molto particolari.

D. Due dei tuoi racconti – “La strada perduta” e “Il marchio di Linda” – segnano il passaggio dal West della storia a quello della leggenda, decantato dalla letteratura delle dime novels e dal cinema. Mi pare che ci sia in entrambi una vena nostalgica, per qualcosa che non esiste più.

R. E’ proprio così. Il giornalista che intervista Linda Metzger nel 1929, facendosi raccontare la sua vita tormentata sempre in bilico fra la società pellerossa e quella dei Bianchi, testimonia di un mondo che da quel momento in poi vivrà solamente nelle pagine dei giornali o dei libri. Questa deformazione raggiunge l’apice in “La strada perduta”, in cui Carrie Ballard diventa l’eroina negativa delle dime novels pubblicate dopo la fine della Prima Guerra Mondiale. C’è del rimpianto, ovviamente. E’ il mondo dell’avventura che scompare, cedendo il posto alla società industrializzata che cancellerà i personaggi reali per sostituirli con degli improbabili miti.

D. Nel tuo ultimo racconto, un treno va in direzione opposta, muovendosi verso l’Est e lasciandosi dietro la prateria, i cavalli e i cowboy.

R. Esisteva forse un modo migliore per ritrarre degnamente la fine di un sogno? Il progresso ha invaso il West e gli uomini avventurosi, romantici e solitari hanno ceduto il posto agli imprenditori e agli affaristi, fra i quali si trovano anche persone senza scrupoli. La storia ha compiuto il suo corso e la leggenda si riassume nell’immagine di un cavaliere che vaga ormai senza mèta, con il ricordo di una notte indimenticabile.