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Eroe nell’ombra

A cura di Domenico Rizzi

Speciale a puntate: 1) John Wayne, un gigante del cinema western 2) La lunga gavetta di John Wayne 3) John Wayne: la ripresa del western 4) John Wyane, attore ormai affermato 5) Altri film di John Wayne 6) Strada aperta per John Wayne 7) Il meglio di John Wayne 8) Strade diverse 9) Alamo, un trionfo a caro prezzo 10) Uomo d’azione 11) Eroe nell’ombra 12) Gli anni del cambiamento 13) Il lento declino 14) La solitudine dell’eroe

Se qualcuno poteva ancora dubitare dello spessore artistico di Wayne, con “L’uomo che uccise Liberty Valance” John Ford dissipava ogni residua perplessità. La filmografia del regista aveva ormai imboccato il fatidico viale del tramonto e quest’opera equivaleva al suo testamento spirituale, seguita due anni dopo dal più modesto “Il grande sentiero” che mostrerà di avere perso ormai lo smalto dei film migliori.
“The Man Who Shot Liberty Valance” scaturisce da una short story di Dorothy M. Johnson, (“Un uomo chiamato Cavallo” e “The Bloody Bozeman”) ma il soggetto viene scritto da James Warner Bellah, lo stesso autore di “War Party” (“I cavalieri del Nord-Ovest”).
Il film si snoda attraverso il racconto che l’anziano senatore Ransom Stoddard fa ad giornalista del “Shinbone Star”, giornale di una piccola città del West, di come si giunse alla pacificazione della Frontiera ed alla sua elezione al Congresso.
Il parlamentare è tornato a Shinbone per prendere parte ai funerali dell’amico Tom Doniphon, un ranchero al quale portò via la fidanzata e sottrasse la gloria di avere ucciso il pistolero Liberty Valance, assurgendo ad eroe e iniziando una promettente carriera politica a Washington.
Ford adotta, nei riguardi del vecchio West, lo stesso giudizio critico che appartenne già a scrittori come Owen Wister, Max Brand e Frank Gruber, tutti fortemente prevenuti nei riguardi dei “piedi teneri” dell’Est. Il cowboy Doniphon deve cedere il passo e rinunciare alla fidanzata, che forse non avrebbe sposato mai, di fronte all’uomo di legge della costa atlantica, il quale sostituisce i codici alle pistole facili e alla logica delle faide. Come estrema rivalsa nei suoi confronti, però, il regista gongola sulla smacco finale subito da Stoddard, al quale la moglie rivela di essere sempre stata innamorata di Tom. Il treno che riparte verso la capitale degli Stati Uniti, si lascia alle spalle un ricordo del passato e un servo nero rimasto senza padrone – Pompey, interpretato dall’eccezionale caratterista Woody Strode – trasportando un vincitore che in realtà è uno sconfitto. Ma è la fine del mito del West, che nella visione fordiana non può essere accolta con la gioiosa speranza presente ne “Il gigante”, diretto da George Stevens nel 1956. Il tramonto della Frontiera equivale alla fine degli uomini veri e Ford sembra guardare perfino alla morte di Liberty Valance come ad un punto di non ritorno dell’intera epopea.
Il regista si accinse a girare questa pellicola dopo l’esperienza del malinconico “Cavalcarono insieme”, un’altra anticipazione dell’imminente scomparsa della Frontiera, sebbene fosse un’opera da lui detestata.
La realizzazione del nuovo film non fu impresa facile per l’arcigno americo-irlandese, che dovette sostenere un lungo braccio di ferro con la Paramount, accettando alla fine di sobbarcarsi la metà delle spese.


Il gigante

Il budget disponibile per “L’uomo che uccise Liberty Valance” raggiunse 3.200.000 dollari, un costo tutto sommato limitato se si considera che la storia, volutamente girata in bianco e nero, si svolge quasi interamente in interni, in un saloon, un ristorante e un ranch. Le uniche riprese esterne ebbero luogo a Conejo Ranch e Thousand Oaks, località situate a nord di Los Angeles. Invece il cast raccolse attori lungamente collaudati e adatti alla parte.
James Stewart (Ransom Stoddard) era il tipo ideale per impersonare l’avvocato che proviene dalla civiltà, dopo essere stato particolarmente convincente nel ruolo dell’odioso sceriffo Mc Cabe di “Cavalcarono insieme”. A Woody Strode (il capo comanche dello stesso film e il commovente sergente Rutledge de “I dannati e gli eroi”) si addiceva perfettamente la veste del fedele servitore di Doniphon, mentre Vera Miles – Laurie Jorgensen in “Sentieri selvaggi” – era praticamente l’unica protagonista femminile del film e il giornalista-ubriacone Edmond O’Brien subentrava al medico alcolizzato di “Ombre rosse”.
Il ruolo del cattivo venne affidato a Lee Marvin, il Liberty Valance al servizio dei grossi allevatori, coadiuvato da un Lee Van Cleef (Reese) mai assurto fino a quel momento a parti di primo piano (traguardo che raggiungerà con Sergio Leone tre anni dopo) e ad un altro caratterista di successo, Strother Martin (Floyd).
La figura principale doveva essere, ancora una volta, quella di John Wayne, un attempato allevatore – aveva 54 anni, uno meno di Stewart – eternamente fidanzato con la più bella ragazza del paese, per la quale stava costruendo una nuova casa che non sarebbe mai riuscito a completare.
Il Duca era reduce da alcuni successi che avevano consolidato la sua fama a livello mondiale e si parlava di lui non come di “un attore del western”, ma dell’“attore” per eccellenza.
Nonostante le difficoltà incontrate al botteghino con “La battaglia di Alamo”, la sua granitica immagine non era stata neppure intaccata, né venivano messe in discussione le sue qualità di interprete e regista. Ford credeva ciecamente in lui per costruire il suo necrologio della Frontiera: occorreva un uomo leale ed onesto, senza timore, orgoglioso e un po’ immodesto– “Liberty Valance è il miglior pistolero a sud del Pickett Weir…dopo di me!” – che riassumesse in sé questi valori insieme alla tipica ingenuità del personaggio dall’animo semplice.


La battaglia di Alamo

In questo film crepuscolare Wayne avrebbe dovuto condensare la caparbia determinazione del Ringo Kid del “Ombre rosse”, l’ostinazione del colonnello Marlowe di “Soldati a cavallo” e la rassegnata modestia del capitano Nathan Brittles ne “I cavalieri del Nord-Ovest”, spogliandosi della scorza di avventuriero xenofobo e sconfitto dell’Ethan Edwards di “Sentieri selvaggi”. In effetti John sarebbe riuscito ad attingere certe caratteristiche da ciascuno dei personaggi precedenti, ma senza raggiungere la “cattiveria” – sebbene solo apparente – di Ethan, né la capacità distruttiva di Marlowe. Alla fine, anziché esplodere dopo l’evidenza di avere perduto Hallie per sempre, ha una reazione autolesionistica, provocando danni in un saloon e incendiando la propria casa in costruzione.
Poiché dal racconto fatto da Stoddard al giornalista non si conosce come si sia svolta la sua vita negli anni successivi all’uccisione di Valance, è presumibile che l’uomo sia precipitato in un abisso fatto di sbornie colossali, di qualche rissa e di dolorose notti di rimpianti. Se in “I cavalieri del Nord-Ovest” Ford getta l’ancora di salvezza al suo protagonista – il capitano Brittles, un pensionato che non ha più nessuno al mondo, richiamato in servizio dall’esercito con la promozione a tenente colonnello – in “L’uomo che uccise Liberty Valance” non può esservi alcun salvataggio in extremis, per il semplice fatto che questo film rappresenta la fine del West e dei suoi eroi.
Wayne-Doniphon si spegnerà da solo, intontito dall’alcool e da ricordi sempre più sbiaditi, dopo avere assistito passivamente al tramonto dei propri sogni. Per certi aspetti, non è difficile ravvisare in lui la classica figura del cavaliere solitario che tende a svanire nel nulla: questa volta, però, senza scomparire malinconicamente all’orizzonte, ma rimanendo a guardare il suo futuro che se ne va per sempre lontano a bordo di un treno.
Sebbene nelle intenzioni di Ford il Duca dovesse occupare un’assoluta centralità della trama, il suo svolgimento fa emergere prepotentemente la figura di Stewart, che conquista dapprima la fiducia della gente di Shinbone e poi il cuore di Hallie, per “uccidere” infine il truce Valance, simbolo dello strapotere feudale degli allevatori di bestiame.
La successione degli eventi è quindi logica e naturale e aderisce perfettamente al solco della storia, che ha già assegnato il ruolo di perdente ai Valance e ai Doniphon, portandone altre come Stoddard al trionfo. Ma Ford, che è nato nel Maine, sulla costa atlantica, è troppo innamorato della gente del West per consentire che essa venga umiliata e medita una stoccata fra le righe. Mentre il treno riporta i coniugi Stoddard nell’Est, Hallie confida al marito: “Le mie radici sono qui, e anche il mio cuore”, confessione che Ransom accoglie con evidente disappunto. Hallie è dunque rimasta innamorata del burbero Tom? Senza ombra di dubbio, perché alla domanda se la frase pronunciata da Vera Miles equivalesse ad una dichiarazione d’amore verso Wayne, il regista rispose: “Beh, volevamo che fosse così.” (Peter Bogdanovich, “Il cinema secondo John Ford”, Parma, 1990, p. 95).
Infine, per rendere più labile il confine fra storia e leggenda, Ford lascia allo spettatore il dubbio su chi sia stato veramente l’uccisore di Valance.
Nel racconto della Johnson – nel quale Stoddard si chiama Ransome Foster e Doniphon è Bert Barricune – il cowboy ormai rassegnato confida al suo rivale: “Liberty non l’hai ammazzato tu!”. Alla sorpresa mostrata da Foster (Stoddard nel film) chiarisce: “Liberty sparò una volta. Tu sparasti una volta, sbagliando il bersaglio. Io ho sparato una volta sola, ma di solito non sbaglio. Non ho neppure intenzione di riscuotere la taglia. Hallie disapprova la violenza.” (Dorothy Marie Johnson, “The Man Who Shot Liberty Valance”, 1949).


The Man Who Shot Liberty Valance

Comunque, per chi non si accontenta della verità emersa dalle sequenze finali del film, che sembrano attribuire a Doniphon il merito di avere eliminato il pericoloso fuorilegge, le perplessità rimangono.
Valance è stato abbattuto dal Winchester di Doniphon nascosto nell’oscurità o da un colpo fortunato della pistola di Stoddard, che non sapeva sparare? Forse la figura di Wayne-Doniphon aggiunge alla propria stoica grandezza anche questa menzogna, per sollevare il nuovo fidanzato di Hallie da ogni scrupolo di coscienza e permettergli di intraprendere la propria carriera politica in una grande città. Il motivo per cui lo fa è naturalmente l’amore verso la donna, quando raccomanda a Stoddard : “Le hai insegnato a leggere e scrivere. Ora dalle qualcosa perchè che lei possa mettere a profitto i tuoi insegnamenti.”
Con questa interpretazione, drammatica e per nulla retorica, Wayne conclude il ciclo delle opere in cui ha recitato sotto la direzione di Ford. Stendendo il sipario sul suo West – la cui parabola non sarà comunque conclusa fino al 1964 – il regista immola anche il suo personaggio preferito.
L’uscita di scena di Tom Doniphon è anche quella di Ringo Kid (“Ombre rosse”) Nathan Brittles (“I cavalieri del Nord-Ovest”) e Ethan Edwards (“Sentieri selvaggi”). Nessuno avrebbe saputo farlo in maniera tanto emblematica quanto Wayne, la cui figura si staglia sulla scena con l’aspetto umile e maestoso di chi non deve nulla alla storia, ma al quale la storia deve molto e la leggenda la sua stessa esistenza. L’uomo che cede il passo al rivale abdicando al proprio futuro crea un mito che non si dissolverà mai.
Se William Wyler ne “Il grande paese” assegnava la palma del vincitore ad un “piede tenero” venuto da Baltimora – il saggio capitano di marina James Mc Kay, interpretato da Gregory Peck, che riesce ad avere ragione dell’ottusa intransigenza di due allevatori in conflitto – in “L’uomo che uccise Liberty Valance” non è tanto la ragione a prevalere, quanto la monolitica personalità di Wayne. Anche se, come vuole un cronista – “Qui siamo nel West, dove se la leggenda diventa realtà, stampi la leggenda” – sarà il nome di Stoddard ad essere tramandato ai posteri, come nella battuta di un capotreno nella sequenza finale del film – “Questo è niente per l’uomo che uccise Liberty Valance!” – Doniphon avrà la consolazione di legare il proprio ricordo alla storia come uno dei tanti esclusi che il revisionismo cercherà di riabilitare.
Lo fa lasciando anche un segno indelebile nel cuore di chi non ha mai smesso di amarlo.