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La guerra franco-indiana: venti di guerra a Fort Necessity

A cura di Pietro Costantini

La guerra franco-indiana. Speciale a puntate: 1) Venti di guerra: Fort Necessity 2) La battaglia di Monongahela 3) La battaglia di Lake George 4) La battaglia di Sideling Hill 5) La battaglia di Fort Oswego 6) La conquista di Fort William Henry 7) Le due battaglie delle “Snowshoes” 8) La guerra in Acadia e le deportazioni 9) La spedizione di Forbes 10) Le due battaglie di Fort Carillon 11) La battaglia di Fort Niagara 12) La presa di Quebec 13) Il raid contro St Francis 14) La battaglia di Sainte-Foy 15) La caduta di Montreal e la pace di Parigi

Nel periodo compreso tra il 1713 e il 1744, mentre perdurava un lungo periodo di tregua tra Francia e Inghilterra nel Nord America, la Confederazione Irochese ammetteva i Tuscarora come sesto membro, anche se in posizione subordinata, e avanzava le sue pretese di dominio sul cosiddetto Ohio Country, considerando i villaggi, ivi presenti, dei Delaware, Shawnee e Mingo (gruppi di Seneca e Cayuga fuori della Confederazione) come nazioni indiane politicamente dipendenti dalla Confederazione. Inoltre, ampliava i propri contatti diretti con le colonie inglesi al di là di New York e della Pennsylvania. Ma proprio questa crescita di influenza della Lega Irochese doveva segnare l’inizio del suo lungo declino: l’orgoglio e l’avidità irochesi portarono infatti ad errori nelle relazioni diplomatiche e ad un aumento del potere europeo sul Nord Est.
Nel 1742 i rappresentanti della Confederazione confermarono solennemente la precedente vendita alla famiglia Penn (la famiglia fondatrice della colonia proprietaria della Pennsylvania) dei territori Delaware nella parte orientale della colonia, il famigerato e fraudolento “Walking Purchase”.
Nonostante i Delaware, assai impoveriti, fossero così ridotti a emigrare, questa frode cementò l’alleanza tra Irochesi e Pennsylvania, che riconobbe la Confederazione come l’unico agente con il diritto di vendere terre indiane all’interno della colonia.
Il Walking Purchase, però si sarebbe dimostrato decisivo in un altro senso, perché i Delaware, cullando un forte senso di rabbia impotente, se ne andarono in Ohio presso gli amici Shawnee, altro gruppo frodato delle terre dalla politica irochese, sempre più lontano da un efficace controllo politico-militare irochese.
Il trattato di Lancaster del 1744, negoziato tra rappresentanti irochesi e Pennsylvania, Virginia e Maryland, mentre in apparenza segnava il punto più alto della potenza irochese nel trattare con i coloni inglesi, in realtà cedeva tutte le pretese irochesi sulle terre entro i confini del Maryland e della Virginia e anche sulle terre dell’Ohio Country, dato che il decreto reale della Virginia le assegnava, tra l’altro, un confine occidentale sull’Oceano Pacifico.
Nel 1745 la Camera dei Borghesi (House of Burgesses) della Virginia aveva assegnato quasi un terzo di milione di acri sull’Ohio a un gruppo di una ventina di speculatori terrieri dell’area di Northern Neck (tra i fiumi Rappahannock e Potomac), che in seguito prese il nome di Ohio Company of Virginia, che intendeva vendere poderi a coloni. La King George’s War ritardò la speculazione che si intendeva fare sull’Ohio Country, il cui sviluppo fu rallentato meno dalle manovre politiche irochesi e molto di più da quelle rivali dei divergenti interessi della Virginia, Pensilvanya e Canada francese. I commercianti della Pennsylvania, nella decade 1730, avevano semplicemente seguito i loro clienti Shawnee e Delaware nello spostamento dei villaggi dalla valle del Susquehanna all’Ohio Country. La caduta di Louisburg e la chiusura del fiume San Lorenzo alle merci francesi rappresentarono una pacchia per i commercianti della Pennsylvania, che offrivano merci inglesi migliori e più a buon mercato di quelle francesi e che espansero il loro aggressivo commercio a occidente, fino ai lontani Miami e Wyandot che, fino a quel momento, avevano commerciato solo con i Francesi. George Croghan e i suoi associati costruirono un grande forte commerciale nella capitale della confederazione Miami a Pickawillany sul Grand Miami River, nell’attuale parte occidentale dello stato dell’Ohio.


Villaggio dei Miami – stampa del XIX secolo

I Francesi non potevano restare indifferenti a questa presenza, ben sapendo che commercio e alleanze andavano a braccetto. Nel giugno 1749 il capitano Pierre Joseph de Céleron de Blainville, un ufficiale assai esperto di relazioni indiane, partì da Montreal con più di 200 Canadiens e circa 30 Indiani per reclamare, per diritto di scoperta nel 17° secolo (con La Salle), l’Ohio Country, raccogliere informazioni sull’influenza inglese nella zona e impressionare gli Indiani con la dimostrazione della capacità militare francese di inviare soldati nel cuore del loro territorio. In generale gli Indiani si mostrarono freddi, ma la cosa peggiore fu la vista delle numerose canoe e delle carovane di cavalli da carico zeppi di pellicce dei mercanti della Pennsylvania. Persino i leali Wyandot erano attirati dalla sirena inglese. I Francesi compresero che solo posti commerciali permanenti in Ohio e un costante flusso di merci con i sussidi di stato per mantenere bassi i prezzi potevano competere con le merci inglesi, straordinariamente a buon mercato, e tenere così gli Indiani lontani dagli Inglesi. Nello stesso anno, il 1749, i Virginiani dell’Ohio Company lanciavano la loro invasione commerciale costruendo un magazzino fortificato in pietra alla confluenza tra Wills Creek e il braccio settentrionale del Potomac, dove ora sta la cittadina di Cumberland, Maryland. La Ohio Company intendeva vendere le terre ai coloni contadini e rifornirli delle merci, ma al momento preferiva capitalizzare i vantaggi del trasporto fluviale, via Potomac, Youghiogheny e Monongahela, su quello terrestre delle carovane di cavalli, più lento e costoso, per fare le scarpe ai concorrenti della Pennsylvania. Christopher Gist, geometra, commerciante, guida e agente diplomatico dell’Ohio Company, con l’aiuto di George Croghan (nominalmente agente della Pennsylvania ma, dopo la bancarotta, agente di sé stesso) nella primavera del 1752 organizzò una conferenza nella capitale indiana di Logstown, un insediamento multietnico di Shawnee, Delaware e Mingo e quartier generale di Tenaghrisson, detto Half King (Mezzo Re), per via della sua funzione di rappresentante degli interessi della Confederazione irochese in Ohio e filo-britannico. In questa conferenza l’Half King fu riconosciuto da Croghan e Gist come il portavoce degli interessi irochesi nella regione e, grazie anche all’aiuto di non meno di 2000 sterline in regali, l’Half King concesse all’Ohio Company di poter costruire un forte alla confluenza dei fiumi Allegheny e Monongahela (attuale Pittsburg), un luogo strategico della valle dell’Ohio, che aveva anche la funzione di rinforzare la presenza inglese e, con essa, la vacillante influenza dell’Half King e degli interessi irochesi presso le tribù tributarie Delaware, Shawnee e Mingo.


Scultura rappresentante Tenaghrisson

Il fatto che la Confederazione irochese ratificasse questi accordi testimonia la debolezza della sua presenza nella regione. Nel frattempo i Francesi non restavano inerti; nel giugno 1752 un gruppo di 180 Chippewa, 30 Ottawa e 30 soldati francesi partiva da Detroit, al comando di un ufficiale mezzo francese e mezzo ottawa, Charles-Michel Mouet de Langlade, attaccava la capitale dei Miami, Pickawillany, accettava la resa dei pochi commercianti inglesi del forte di Croghan e ripagava il “tradimento” del capo Memeskia, noto come “La Demoiselle” e “Old Briton”, bollendolo e mangiandolo. Il gruppo torturò a morte e mangiò anche uno dei mercanti inglesi, affermando che questo era il destino di quelli che osavano sfidarli; poi se ne tornò a Detroit con un eccellente bottino di merci e schiavi. Il raid di Langlade sgombrò la regione dai Pennsylvaniani: anche se i Miami chiesero aiuto alla Pennsylvania e alla Virginia, la seconda non vide l’urgenza di reagire alla fortunata caduta del forte dei rivali commerciali e l’assemblea della Pennsylvania, dominata dai quaccheri, si rifiutò di lasciarsi impegolare in una possibile guerra. I Miami così tornarono quietamente sotto l’influenza francese. La Ohio Company of Virginia, intanto, costruiva il Red Stone Fort, il primo posto permanente nell’Ohio e rendeva il raid di Langlade solo una mezza vittoria. In realtà i Francesi avevano sempre male interpretato le azioni britanniche, dando loro credito di una assai maggiore cooperazione e organizzazione di quanto non avvenisse in realtà: gli speculatori terrieri virginiani e i commercianti pennsylvaniani non avevano mai costituito due braccia di una stessa tenaglia d’invasione, ma al contrario due gruppi ferocemente rivali nel commercio con gli Indiani, dove ciascuno aveva fatto del suo meglio per scatenare gli Indiani contro la colonia rivale. Oltre agli interessi dei privati, i governi di Virginia e Pennsylvania erano rivali nel reclamare le terre dell’ovest, con pretese in competizione sulle terre presso le Forks del fiume Ohio nelle loro carte coloniali costitutivi. Oltre a ciò gruppi di speculatori rivali all’interno della stessa Virginia (la Loyal Company contro la Ohio Company) avevano ritardato l’invasione dell’Ohio. I Francesi non riconobbero la reale natura delle incursioni inglesi, né che, con la fuga dei mercanti pennsylvaniani, i Virginiani potevano essere fermati più con la diplomazia che con le armi, oppure che offrire merci a buon prezzo agli indiani dell’Ohio, invece che minacciarli con forti permanenti, avrebbe mantenuto la loro alleanza in modo migliore.


Indiani dell’Ohio – dipinto di Mary Louise Holt

Il nuovo governatore, il marchese de Duquesne, arrivò con istruzioni che ben si accordavano con il suo temperamento di ufficiale di marina che preferiva l’azione alle parole. Duquesne ordinò alla Milizia canadese, 165 compagnie di oltre 11.000 uomini, di esercitarsi ogni settimana e diede disposizioni per la costruzione di una serie di forti per stabilire una presenza francese permanente nell’Ohio Country. Tra il 1753 e il 1754 erano già in piedi o in costruzione un forte a Presque Isle, uno sulla Rivière aux Boeufs, Fort Mechault nel villaggio Delaware di Venango, e infine uno alle Forks del fiume Ohio. Il sito di quest’ultimo forte, Fort Duquesne, si trovava proprio dove la Ohio Company of Virginia aveva deciso di stabilire la sua postazione fortificata e questo fatto in seguito creò più collaborazione tra le rissose colonie britanniche di quanto esse sarebbero riuscite a fare di loro iniziativa.
A Londra le attività francesi nell’Ohio Country erano da tempo nel mirino dei membri del Consiglio Privato della Corona, quel gruppo di una trentina di personaggi di corte e ministri che consigliavano il re e agivano come capi dei principali uffici esecutivi, legislativi ed ecclesiastici (cioè l’equivalente settecentesco del governo, prima della separazione netta dei poteri nelle moderne democrazie). Il duca di Newcastle era a capo del Dipartimento settentrionale, responsabile dei rapporti con l’Europa protestante e la Russia, il duca di Bedford, a capo del Dipartimento meridionale, era responsabile dei rapporti con l’Europa cattolica e l’Impero Ottomano e il conte di Halifax, primo commissario dei Lord Commissari del Commercio e Piantagioni, comunemente detto Board of Trade, era a capo della commissione dei supervisori dell’amministrazione delle colonie americane e del commercio imperiale in genere. Nonostante le rivalità interne, essi ritenevano che la maggiore minaccia agli interessi inglesi era e sarebbe sempre stata la Francia. Lo temevano a maggior ragione dopo l’infausto (per gli Inglesi) esito europeo della Guerra di Successione austriaca (King George’s War in America), che al tavolo della pace aveva visto vanificare la presa di Louisburg in Canada e un rovesciamento della tradizionale alleanza inglese con l’Austria, che si avvicinava alla Francia, dopo l’appoggio inglese alla conquista della Slesia da parte della Prussia.


Le truppe inglesi sbarcano a Louisburg

Halifax inviò alle colonie l’ordine di fare uno sforzo unificato per mantenere l’alleanza con gli Irochesi, e in particolare i Mohawk, infuriati dalle manovre di certi speculatori, e di cercare di bloccare i Francesi nell’Ohio. È in questo contesto coloniale e internazionale che il governatore della Virginia, Dinwiddie cominciò a muoversi e a organizzare la sua politica sulla frontiera. Dinwiddie, però, era uno scozzese prudente, già in rotta di collisione con la Camera dei Borghesi, l’assemblea coloniale che gestiva i cordoni della borsa, per via della questione del “pistole fee” (la Pistole fee era una specie tassa di registro fondiario del valore di una pistola – moneta spagnola, equivalente a circa 16 scellini -, che i Borghesi si rifiutavano da tempo di approvare in quanto ritenuta lesiva del diritto dei coloni liberi proprietari di terra di essere protetti contro tassazione arbitraria). Dato che la disputa era diventata una questione costituzionale sui diritti dei sudditi, Dindwiddie non poteva certo chiedere ai Borghesi di finanziare una spedizione militare per impedire la “infiltrazione” francese nell’Ohio. Decise perciò di inviare un emissario nella regione ad avvisare i francesi che Re Giorgio II desiderava che essi desistessero dal costruire forti e si ritirassero da quelli già costruiti.
Il governatore della Virginia Dindwiddie scelse per la missione un improbabile candidato, il maggiore George Washington, ignorante tanto della diplomazia che della lingua francese, un inesperto giovane di 21 anni, che però aveva stretti rapporti con la Ohio Company, aveva la robustezza fisica per intraprendere il difficile viaggio ed era ansioso di andare. Washington era entrato da poco in possesso di un notevole patrimonio, per via della morte del padre e del fratellastro più anziano, nella regione di Northern Neck e, di conseguenza, aveva ottenuto una certa importanza sociale, anche se suo padre non faceva parte delle grandi famiglie virginiane. I rapporti di Washington con la più grande delle famiglie di Northern Neck, i Fairfax, gli avevano assicurato una certa competenza come agrimensore a sostegno della sua carriera di speculatore terriero e due modesti pubblici uffici, come agrimensore della contea di Culpeper e come aiutante generale nella milizia. Data la natura precaria della sua istruzione, compresa quella militare, la gran parte di ciò che Washington sapeva erano le conoscenze di un autodidatta che, nonostante la voglia di migliorarsi, restava sempre un parvenu poco istruito. Nonostante la valentia fisica, Washington era perciò insicuro socialmente e ansioso di affermarsi.


George Washington all’età di 21 anni

Washington partì da Williamsburg, Virginia nel 1753 per l’Ohio; a Fredricksburg si unì al suo amico Jacob Van Braam, un olandese che gli aveva insegnato l’arte della spada e che sapeva più o meno il francese. A Wills Creek egli assunse l’agente della Ohio Company, Christopher Gist, per guidarli nella valle, più quattro “uomini dei boschi” del luogo come cacciatori, cavallai e guardie del corpo. Alle Forks dell’Ohio apprese che i Francesi si stavano dando un sacco di da fare e che gli Indiani non erano affatto ansiosi di aiutare gli Inglesi. A Logstown, capitale multietnica di Delaware, Shawnee e Mingo, Washington e Gist non riuscirono a convincere i capi a fornire loro una scorta numerosa che li accompagnasse dai Francesi e, quando partirono per Fort LeBoeuf il 30 novembre, solo Tanaghrisson – l’Half King – e 30 Mingo si unirono a loro. Nel complesso la spedizione, che doveva intimidire i Francesi e mostrare la solidità dei rapporti anglo-indiani, era ben lungi dall’essere impressionante.
A Fort LeBoeuf, infatti, i Francesi furono assai educati e assai poco intimoriti e Washington dimostrò tutta la sua inesperienza scrivendo nel suo rapporto che il comandante, il cinquantaduenne capitano Jacques Lagardeur de Saint-Pierre, uno stagionato e tosto veterano temprato nei più duri forti di frontiera, era un “anziano gentiluomo dall’aria militare”. Washington però si rese conto, dalle dimensioni del forte, dalle oltre 220 canoe e dalla risposta di Lagardeur per Dindwiddie, che i Francesi non avevano la minima intenzione di andarsene. Oltre a ciò, l’Half King decise di restare a conferire con Lagardeur: così, un mese dopo aver sofferto e quasi perso la vita in due occasioni sulla via del ritorno, Washington si recò a Willimsburg per recare la risposta francese a Dindwiddie, che gli chiese un resoconto per la pubblicazione e si affrettò a convocare il consiglio provinciale, assai più malleabile della camera dei Borghesi, per conferire. Dato che i Francesi si rifiutavano di “desistere” dal costruire forti e non intendevano evacuare l’Ohio, fu il ragionamento del governatore al consiglio provinciale, commettevano una “ostilità”, un atto che rientrava all’interno delle istruzioni di Londra secondo la sua interpretazione. Era così suo dovere procedere a cacciarli o almeno a impedirne l’ulteriore espansione con la forza delle armi.


In verde il viaggio di Washington verso gli insediamenti francesi

Con il consenso del consiglio provinciale, Dindwiddie provvide a ordinare l’arruolamento di una milizia di 200 uomini, che doveva procedere al comando di Washington, ora promosso tenente colonnello, verso le Forks dell’Ohio e difendere gli interessi della Virginia da ulteriori avanzate francesi. Inoltre, Dindwiddie inviò brevetti militari ai commercianti indiani e agli agenti dell’Ohio Company nella regione dell’Ohio (William Trent, cognato ed ex socio di Croghan, ora factor dell’Ohio Company, divenne capitano della milizia, John Fraser, il cui forte era stato distrutto dai Francesi a Venango, divenne suo tenente e Edward Ward, un altro profugo dalla Pennsylvania come gli altri due e fratellastro di Croghan, divenne l’alfiere della compagnia), dando così il via ufficiale alla costruzione del forte in pietra alle Forks. Infine, il governatore notificò ai colleghi governatori da Massachusetts Bay alla South Carolina la crisi alla frontiera e chiese loro di prepararsi ad appoggiare la Virginia. Solo allora, a cose fatte, Dindwiddie convocò in sessione speciale la Camera dei Borghesi e chiese il denaro necessario per pagare il tutto. Di fronte al fatto compiuto i Borghesi si dimostrarono patriottici e stanziarono diecimila sterline, ma solo dopo aver approvato codicilli che garantivano loro un rigido controllo su tutte le spese. I legislatori non erano così stupidi da dimenticare che la minaccia alla loro autorità, e forse perfino ai loro diritti di cittadini inglesi, non veniva tanto dai Francesi, quanto dal rubicondo governatore scozzese e l’ultima cosa che volevano era dargli carta bianca per cominciare una guerra che, per quanto ne sapevano, non era altro che un pretesto per espandere le prerogative del governatore mentre questi e i suoi amici dell’Ohio Company si arricchivano a spese del denaro pubblico. La milizia di Trent giunse il 17 febbraio 1754 alle Forks dell’Ohio per costruire il forte, con grande sollievo di Tanaghrisson, che pose il primo tronco a cemento della sua amicizia, mentre giungeva voce che un grosso contingente francese aspettava solo il disgelo di primavera per prendere possesso delle Forks.


Washington e Gist ispezionano l’Ohio Country

Nel frattempo Delaware, Shawnee e Mingo mostravano, con la loro indifferenza, quanto la posizione dell’Half King fosse debole. Quanto fosse seria la situazione provocata dall’indifferenza indiana fu presto chiaro quando i miliziani che costruivano il forte cominciarono a scarseggiare di cibo e i Delaware, che abitavano nelle vicinanze, si rifiutarono di andare a caccia per nutrire i Virginiani, nonostante questi offrissero buone somme di denaro. Così i miliziani furono costretti a inviare un gruppo al comando di Trent a rifornirsi oltre le montagne mentre gli altri sopravvivevano con farina e mais indiano. Il forte era quasi finito quando arrivò notizia che i Francesi erano in arrivo. I Virginiani avevano appena attaccato il cancello al forte quando si avvicinò una forza di almeno 500 Francesi su canoe e piroghe, che trasportavano 18 cannoni. Lagardeur, intanto, era stato sostituito come comandante dell’Ohio dal capitano Claude-Pierre Pécaudy, signore di Contrecoeur, un altro duro veterano di frontiera. Sapendo della costruzione del forte alle Forks si era mosso velocemente e ora non era disposto a negoziare: convocò il comandante inglese, che al momento era l’alfiere Ward (dato che il tenente Fraser era al suo trading post e aveva fatto sapere che, data la paga del re, non aveva intenzione di muoversi di corsa e lasciar perdere gli affari). Contrecoeur informò Ward che poteva scegliere tra la resa immediata e l’attacco al forte: Ward considerò realisticamente la situazione, negoziò di potersene andare indisturbato con i suoi miliziani, che avrebbero mantenuti intatti i loro possedimenti e l’onore, e accettò la resa. L’Half King fece una sfuriata contro gli Inglesi che lo lasciavano solo, ma Contrecoeur lo ignorò, osservò la penosa palizzata del forte inglese e decise di costruire al suo posto un forte degno del nome del suo comandante, il marchese Duquesne. Il massiccio forte in pietra con pianta a stella, con quattro bastioni, fossato e terreno da parata centrale, posto di guardia, quartieri degli ufficiali, magazzini, ospedale, botteghe del fornaio e del fabbro, pozzo interno e un paio di latrine, otto cannoni cui se ne aggiunsero altri in seguito e baracche esterne per 200 soldatiera l’installazione militare più impressionante dell’interno del continente americano, a parte Detroit e Niagara, e la sua vista dichiarava apertamente che i Francesi erano là per restare.


Fort Duquesne (ricostruzione)

Intanto Washington stava ancora faticando su per il pendio orientale degli Allegheny, marciando verso il magazzino fortificato di Wills Creek. Non aveva potuto lasciare Alexandria, Virginia, prima del 2 aprile, e non era riuscito ad arruolare i 200 uomini come doveva. Quando la notizia della resa di Ward lo raggiunse, il Reggimento della Virginia di Washington era composto da meno di 160 uomini senza addestramento, scarsamente equipaggiati, con poche provviste e malamente vestiti. La sola ragione per cui i membri di questa banda di poveracci si era arruolata era la promessa di Washington che, al termine del servizio, essi avrebbero ricevuto delle terre nei pressi del forte che andavano a difendere, dato che la paga di 10 pence al giorno, poco più di un terzo del salario di un bracciante, non era proprio attraente. Neanche gli ufficiali era contenti del loro salario, ma Dindwiddie avevano risposto che potevano pensarci prima.
Tuttavia la paga scarsa era solo una dimensione di una spedizione preparata con pochi fondi e ancor meno comprensione di cosa significava lanciare una spedizione militare nei boschi dell’interno. In realtà la Virginia non aveva organizzato una spedizione militare in proprio fin dal 17° secolo e non c’era nessuno a cui chiedere. Le conseguenze di questo dilettantismo sarebbero state presto chiare. Non solo il Reggimento della Virginia era troppo scarso e male in arnese per spaventare i Francesi, figurarsi se poteva cacciarli, ma le altre colonie, dal Massachusetts alla South Carolina, erano lente a rispondere alle richieste di aiuto e, nonostante gli appelli, né i Catawba né i Cherokee avevano mostrato intenzione di arruolarsi. A peggiorare le cose, gli imperi inglese e francese erano in pace, ma le direttive da Londra, erano un chiaro invito a cominciare una guerra. Un comandante più maturo avrebbe tergiversato, aspettando rinforzi e raccogliendo migliori informazioni. Washington decise di avanzare. Ampliando la strada per far passare i carri, Washington faceva solo tre miglia al giorno e attirava l’attenzione di qualsiasi esploratore di Contrecoeur, che conosceva passo per passo il suo percorso. Il Francese però non osava attaccare per primo, dato che i suoi ordini gli proibivano di attaccare senza provocazione.


Villaggio dei Catawba

Contrecoeur decise alla fine di inviare l’alfiere Joseph Coulon de Villiers de Jumonville, rampollo di una distinta famiglia militare, con 35 uomini, una forza troppo piccola rispetto a quella di Washington per essere ritenuta aggressiva, che doveva accertare se i Virginiani fossero entrati in territorio francese e, nel caso, conferire con gli Inglesi e invitarli ad andarsene immediatamente. Washington, ovviamente, non sapeva niente delle intenzioni interlocutorie francesi. Il 24 maggio si era accampato a Great Meadows, una radura acquitrinosa dove aveva eretto una specie di forte, più che altro una baracca circondata da una palizzata e delle trincee, dato che aveva sentito al trading post di Gist della presenza di un gruppo di francesi. Preoccupato, Washington inviò 75 uomini a intercettare i Francesi e chiamò l’Half King in suo aiuto. Questi giunse con una trentina di Mingo e gli fece sapere di aver localizzato i Francesi e che i Virginiani avevano inviato parte degli uomini nella direzione opposta. Washington si accampò insieme Tenaghrisson. A questo punto la ricostruzione storica delle diverse fonti ci permette di sbrogliare l’accaduto, identificando anche chi mentì e perché.
Nel suo diario e nel resoconto che ne seguì Washington si limitò a dire che si scontrò con il gruppo di Jumonville, per circa 15 minuti, i suoi uccisero l’alfiere francese e altri nove, con nessun ferito e fecero 21 prigionieri, mentre gli Indiani scotennavano i morti e portavano via le armi. Nella confusione un Canadese riuscì a scappare e a raggiungere Fort Duquesne. Egli raccontò a Contrecoeur che gli Inglesi li avevano trovati e avevano sparato per primi, ma non gli Indiani. Jumonville aveva chiesto il cessate il fuoco. Cessati gli spari, l’alfiere aveva cominciato a leggere il messaggio dei Francesi; in quel momento il Canadese si era allontanato. Contrecoeur ricevette poi il resoconto da un messaggero di Tanaghrisson, che gli aveva detto mendacemente che Jumonville era stato ucciso da un palla in testa dagli Inglesi mentre leggeva il messaggio e che poi gli Inglesi avevano massacrato i suoi uomini prima che gli Indiani potessero impedirlo.


I miliziani coloniali attraversano il bosco

Il resoconto veritiero e accurato del massacro dei Francesi, però, ci viene dalla dichiarazione giurata al governatore della South Carolina di un Irlandese ventunenne analfabeta, appartenente al reggimento di Washington. Il soldato, John Shaw, con notevole istinto storico e investigativo, aveva raccolto le testimonianze dettagliate dei suoi commilitoni presenti allo scontro, cui lui non aveva partecipato, ed era andato sul posto a vedere di persona i resti dei caduti e il contesto fisico. In sostanza, dopo una notte di pioggia fitta, Washington, confuso e mezzo perso tra i boschi con una quarantina di miliziani, aveva seguito Tanaghrisson, l’Half King, fino al luogo dove era accampata la pattuglia francese, ora chiamato Jumonville Glen, ed era quasi inciampato addosso ai soldati francesi ancora intontiti dal sonno che si preparavano a far colazione ai piedi di un roccione. Non è chiaro se un Francese avesse dato l’allarme o un Virginiano avesse sparato subito per il panico, comunque i Virginiani lanciarono due salve di fucilate, mentre i Francesi ricambiavano qualche colpo sparso e si ritiravano tra gli alberi, dove però i Mingo di Tanaghrisson bloccavano loro la ritirata. Un ufficiale francese chiese il cessate il fuoco, dichiarando che l’alfiere Jumonville e altri 14 francesi erano feriti, uno era morto e cercando di far capire, tramite un interprete, che i Francesi venivano in pace a portare un messaggio scritto per gli Inglesi in cui si ingiungeva loro di ritirarsi dai possedimenti di re Luigi XV di Francia. Washington disse che avrebbe letto la lettera tramite il suo interprete e si apprestò a farlo. Intanto Tanaghrisson si avvicinò a Jumonville ferito, si accertò che non fosse inglese e gli disse: “Tu n’es pas ancore mort, mon père” (Non sei ancora morto, padre, poi alzò l’accetta, lo colpì alla testa finché non si spaccò, ficcò le mani nel cranio aperto di Jumonville, estrasse una manata di cervello e si strofinò le mani con la materia cerebrale. Mentre Washington restava paralizzato dallo shock, i Mingo si precipitarono a massacrare i Francesi feriti, finché Washington riuscì a riprendersi e a far formare dai Virginiani un cordone protettivo attorno ai 21 superstiti. Solo uno dei feriti fu salvato, mentre gli indiani scotennavano i 13 cadaveri, li denudavano, ne decapitavano uno, impalandone la testa su un bastone, e se ne andavano con il bottino.


Ultimi momenti prima della battaglia di Jumonville Glen

La testimonianza resa a Contrecoeur da un disertore, un Irochese cattolico che era con gli Inglesi, spiega le parole di Tanaghrisson e ci fa comprendere che la sua azione era premeditata e a sangue freddo. Le parole del Mingo facevano parte del rituale diplomatico, che vedeva “Onontio”, il nome rituale del governatore della Nuova Francia, e quindi i suoi emissari, come “padre”, cioè il mediatore, che dà doni e crea alleanze tra i suoi “figli” indiani. Gli Inglesi, invece, erano invece chiamati “fratelli”, e quindi avevano un rapporto diverso, più paritario, agli occhi degli indiani. L’Half King aveva perciò ucciso a sangue freddo, letteralmente e metaforicamente, il padre e negato di conseguenza l’autorità francese. Aveva inoltre mandato un messaggero ai Francesi per dare la colpa del massacro agli Inglesi per suscitarne la sete di vendetta e scatenare una guerra, che doveva nei suoi progetti ripristinare la sua declinante influenza sulle tribù vassalle degli irochesi. Tanaghrisson era un prigioniero Catawba, una tribù della South Carolina, che era stato portato in Canada da piccolo, dopo aver visto mangiare suo padre dagli irochesi Seneca filo-francesi, e poi era riuscito a farsi strada fino a diventare l’emissario irochese nell’Ohio. Non aveva ucciso Jumonville per vendicare suo padre, accecato dalla sete di vendetta, come qualche storico ha ipotizzato, ma a sangue freddo per migliorare la sua posizione politica e quella della Confederazione irochese nella regione.
Quanto al perché Washington avesse omesso l’episodio quasi completamente è facilmente intuibile: per proteggere la sua fragile reputazione militare. D’altra parte, due settimane dopo l’episodio avrebbe scritto in una lettera che desiderava ardentemente essere messo sotto il comando di un “ufficiale esperto”. Ma la saga non è ancora finita. Il giorno dopo il massacro Washington tornò a Great Meadows dove compose il suo diario e delle lettere ufficiali accuratamente sterilizzati circa l’incidente e inviò i prigionieri francesi, descritti come “spie”, a Dindwiddie, insieme a una richiesta di rinforzi e rifornimenti.


Jumonville Glen: il punto in cui erano accampati i Francesi

Preoccupato per l’attacco franco-indiano che presto sarebbe seguito, Washington finì le fortificazioni che chiamò Fort Necessity, dato che la loro collocazione era in un luogo pessimo tatticamente per lasciarvi scorte di cibo e munizioni, come gli spiegò inutilmente l’Half King. Washington non aveva intenzione di usare Fort Necessity come roccaforte, ma di avanzare per attaccare Fort Duquesne, un’idea assurda data la situazione e la mancanza di informazioni. Il Virginiano aveva poche scorte e ne ricevette altrettanto poche, e il rinforzo di una delle compagnie indipendenti della South Carolina (il cui comandante, con brevetto del re, si rifiutava di prendere ordini da un semplice ufficiale della milizia), e un centinaio di soldati regolari inglesi con 40 buoi. Ogni speranza di attirare l’aiuto di Delaware, Shawnee e Mingo o di ottenere altre truppe era pressoché nulla. Un altro comandante più esperto si sarebbe ritirato. Washington avanzò, lasciando la compagnia indipendente della South Carolina a Fort Necessity di guarnigione. Tanaghrisson aveva provocato il massacro inutilmente perché, lungi dal migliorare la sua posizione, aveva dovuto ritirarsi, con la famiglia e pochi seguaci, presso il posto commerciale di George Croghan a Aughwick (ora Shirleysburg, Pennsylvania), dove morì il 4 ottobre successivo per una malattia che i suoi seguaci dichiararono di origine stregonesca (fu cioè avvelenato da qualcuno dei suoi molti nemici indiani, o dai suoi stessi padroni irochesi che lo trovavano ingombrante). Washington, intanto, aveva aperto una strada tra il forte di Gist e il Red Stone Fort, con grande fatica e gran perdita di carri e cavalli, quando venne a sapere di una consistente forza francese in arrivo da Fort Duquesne per cacciarlo dalla zona. Decise con i suoi ufficiali di ritirarsi e fece assai meglio di quanto non immaginasse, perché subito dopo la notizia della morte dell’alfiere Jumonville, Contrecoeur aveva ricevuto dal Canada un rinforzo di oltre mille uomini, comandati dal fratello maggiore dell’alfiere ucciso, capitano Louis Coulon de Villiers. Questi aveva ottenuto da Contrecoeur di poter guidare la spedizione punitiva contro Washington, e aveva organizzato un corpo di seicento regolari francesi e miliziani canadesi, oltre a un centinaio di alleati indiani. In sostanza era a capo della più formidabile forza militare nel raggio di mille miglia in ogni direzione e viaggiava leggero e veloce.


Truppe regolari francesi in marcia – ricostruzione

La ritirata di Washington si era trasformata in un incubo, con gli uomini esausti e i Francesi vicini; una pioggia fitta e continua bagnava tutto, dalle tende alla polvere da sparo e aveva trasformato l’area di Fort Necessity in un acquitrino fangoso, con le trincee che assomigliavano più a fossi. Il giorno dello scontro gli Inglesi e i Coloniali abili erano solo 300. Washington aveva sperato di dare battaglia all’aperto sulla radura, ma de Villiers era un veterano esperto e disperse i suoi uomini nell’area collinosa intorno ai bordi della foresta, da dove poteva sparare impunemente senza essere visto e, al coperto dalla pioggia, riusciva a tenere asciutta la polvere da sparo. Nel giro di poche ore gli assediati di Fort Necessity, con la polvere da sparo bagnata e i fucili inutilizzabili, divennero bersagli senza difese e al cader della notte almeno un terzo dei difensori era morto o ferito. La disciplina si disintegrò e almeno metà degli uomini si ubriacò con le scorte di rum dopo aver sfondato la porta del magazzino, mentre Washington aveva del tutto perso il controllo dei suoi e poteva solo aspettarsi un massacro da parte dei Francesi. Invece proprio da loro venne il sollievo. Alle otto della mattina dopo venne un invito a negoziare da de Villiers: l’emissario di Washington, il capitano Van Braam, l’olandese che capiva il Francese, sapeva che non avevano speranze e fu piacevolmente sorpreso quando i Francesi gli offrirono la possibilità di ritirarsi dal campo di battaglia con onore, dato che de Villiers riteneva di aver sufficientemente vendicato suo fratello e i suoi compagni assassinati. In cambio egli avrebbe redatto gli articoli della capitolazione che promettevano che gli Inglesi se ne sarebbero andati dall’Ohio con la promessa di non tornare per un anno, di rimpatriare i prigionieri che avevano preso, di lasciare due ostaggi a Fort Duquesne come garanzia. Se gli Inglesi firmavano potevano andarsene con le loro proprietà personali, le armi e le bandiere, altrimenti potevano star sicuri che sarebbero stati distrutti. Van Braam tornò con il documento scritto da de Villiers, bagnato dalla pioggia e un resoconto dell’offerta francese: Washington evidentemente non capì e firmò il documento che, tra l’altro, fissava su Washington stesso la responsabilità dell’ “assassinio” di Jumonville. Nessuno comprese l’esistenza di questa ammissione né il valore che aveva in mano francese, né perché i Francesi preferissero negoziare invece di massacrare facilmente gli avversari. Infatti, Washington e i suoi ufficiali non sapevano che de Villiers era assai scarso di provviste e quasi senza munizioni, che temeva che Fort Necessity potesse ricevere rinforzi e che dubitava di poter prendere prigionieri di guerra in tempo di pace tra Francia e Inghilterra (come aveva fatto Washington).


Attacco franco-indiano – ricostruzione

Van Braam e Robert Stobo (cui dobbiamo un disegno di Fort Duquesne, ora distrutto) si offrirono come ostaggi e pochi minuti dopo mezzanotte Washington firmò la resa. La mattina dopo, il 4 luglio 1754, gli esausti sconfitti cominciarono la ritirata, dopo aver perso 30 uomini e avere avuto 70 feriti in maggioranza gravi. I Franco-Indiani avevano avuto tre soli morti e un certo numero di feriti in gran parte leggeri. Gli avviliti sopravvissuti si accorsero che gli alleati indiani dei francesi non erano i soliti Ottawa o Wyandot, ma quei Delaware, Shawnee e Mingo che i Virginiani consideravano i “loro” indiani. Il 9 luglio Washington giunse a Wills Creek dove cominciò a redigere il bollettino della sconfitta per Dindwiddie, mentre i suoi soldati cominciavano a disertare e continuarono a farlo a piccoli gruppi per i successivi due mesi. Lo stesso Washington riconobbe che chi non aveva ancora disertato, scalzo e mezzo nudo, non lo aveva ancora fatto per semplice incapacità fisica. I Francesi trionfanti si fermarono solo il tempo di distruggere Fort Necessity (oggi ricostruito per i turisti, nell’area originale, ma che ora si trova in Pennsylvania, dato che i Virginiani dovettero poi cedere quella zona) e marciarono verso le Forks dell’Ohio.


Fort Necessity in una ricostruzione “murale” ad Alexandria (Pennsylvania)

Per il 6 luglio i Francesi avevano bruciato le ultime vestigia dell’occupazione inglese nell’Ohio Country, il forte commerciale di Gist e il Red Stone Fort. Coulon de Villiers e i suoi entrarono a Fort Duquesne salutati da colpi di cannone e salve di moschetto, come degli eroi. Il marchese de Duquesne dalla Nuova Francia ordinò alle guarnigioni nell’Ohio di assumere una posizione direttamente difensiva e si assicurò che il commercio francese, sussidiato da Parigi, mantenesse gli Indiani della regione nella sua orbita. Prima di dare le dimissioni e tornare al suo posto in marina, Duquesne ricevette una delegazione di Irochesi dalla loro capitale Onondaga: questi si affrettarono a sbugiardare l’Half King Tanaghrisson e a rattoppare le relazioni con il loro “padre” Onontio.
A Williamsburg, Virginia, Dindwiddie ricevette le tetre notizie del fallimento della sua spedizione e, contemplando malinconicamente le dimissioni, si affrettò a inviare rapporto a Londra. Non poteva sapere che le deprimenti notizie della caduta di Fort Necessity avrebbero galvanizzato il partito più aggressivamente antifrancese nel governo e fornito munizioni al suo arsenale politico.
Così, quasi a dimostrare vera la teoria del caos, data la situazione internazionale e i rapporti di potere tra i vari imperi, un governatore trafficone, un ufficiale coloniale ambizioso e inesperto, un capo indiano in declino, un insignificante massacro nei boschi e la successiva scaramuccia di Fort Necessity, avrebbero fornito il sassolino che avrebbe scatenato la valanga di una guerra mondiale l’anno successivo.