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Uomo d’azione

A cura di Domenico Rizzi

Speciale a puntate: 1) John Wayne, un gigante del cinema western 2) La lunga gavetta di John Wayne 3) John Wayne: la ripresa del western 4) John Wyane, attore ormai affermato 5) Altri film di John Wayne 6) Strada aperta per John Wayne 7) Il meglio di John Wayne 8) Strade diverse 9) Alamo, un trionfo a caro prezzo 10) Uomo d’azione 11) Eroe nell’ombra 12) Gli anni del cambiamento 13) Il lento declino 14) La solitudine dell’eroe

Dopo Alamo, John si impegnò in tre film nei quali poteva esprimere la sua spiccata propensione all’azione. A parte “Hatari” di Howard Hawks (1962) tratto dal romanzo di Harry Kurnitz, che si può considerare un lavoro abbastanza mediocre nonostante la sceneggiatura di Leigh Brackett – la partner femminile era l’italiana Elsa Martinelli – gli altri tre erano tipicamente western. “North to Alaska”, giunto in Italia nel 1961 come “Pugni, pupe e pepite”, era tratto dalla commedia sentimentale “Birthday Gift” di Ladislas Fodor, diretto da Henry Hathaway e dallo stesso Wayne come regista non accreditato e sceneggiato da John Lee Mahin, Martin Rackin e Claude Binyon.
La produzione era della 20th Century Fox, con cui il Duca aveva siglato un accordo che prevedeva altri due film. Il giornalista Ben Hecht, uno dei più prestigiosi scrittori di cinema, contribuì allo screenplay senza figurare ufficialmente. Le scene furono girate prevalentemente in California e soltanto in parte nell’area dello Yukon: la città di Nome venne ricostruita vicino alla spiaggia di Point Mogu e la capanna dei cercatori d’oro sul fiume Hot Creek, a Mammoth Mountain.
La storia, come recita il titolo originale – provvisoriamente era “La pista dello Yukon” – si svolge nell’estremo Nord, fra i cercatori dell’ultima corsa all’oro nel Klondike agli inizi del Novecento. E’ dunque un western di ambientazione crepuscolare, in cui i protagonisti si trovano ad affrontare un problema che ha afflitto i pionieri del West per decenni: quello di trovarsi una compagna. Nell’epoca in cui si svolge la vicenda, l’immenso territorio dell’Alaska – acquistato dalla Russia zarista nel 1867 – possedeva soltanto 65.000 abitanti, in prevalenza di sesso maschile. Spetta a Sam Mc Cord (John Wayne) procurare una fidanzata all’amico George Pratt (Stewart Granger) e la prescelta è la prostituta francese Michelle (Capucine) alla quale non piacerà l’idea di essere stata destinata a questo scopo. A complicare le cose subentrano i banditi di Frankie Canon (Ernie Kovacs) che intendono appopriarsi dell’oro scoperto da Pratt e l’innamoramento di Sam per la ragazza. Alla fine, quando Michelle ha già deciso di imbarcarsi per andarsene lontano, il protagonista dichiara apertamente a lei i suoi sentimenti.


Un’immagine tratta da “Pugni, pupe e pepite”

Nel complesso, “Pugni, pupe e pepite” è un film avventuroso, a volte chiassoso e divertente, pur rimanendo senza grosse pretese. Memorabili la scazzottata nel fango fra minatori e fuorilegge ed altre scene in cui eccelle lo spirito combattivo di Wayne. Dopo un film impegnato come “The Alamo”, il pubblico può gustarsi una spavalda esibizione del suo idolo, che non ha smesso del tutto la provocatoria performance del film precedente. Qui John è un uomo qualunque, inconsapevolmente alla ricerca di qualcuno che ne completi la vita randagia. Il lieto fine, le sequenze d’azione e la sottintesa comicità del copione contribuiscono a dare al film una discreta credibilità.
Lo stesso anno il Duca doveva sostenere un ruolo di maggior spessore, con un regista che aveva raggiunto la celebrità grazie all’indimenticato “Casablanca” del 1942, vincitore di 3 Oscar dopo essere stato designato per 8 nomination. Il film che Michael Curtiz si accingeva a girare – ancora una volta insieme a Wayne non accreditato – era infatti l’ultimo del celebre movie director ungherese, che morirà nell’aprile dell’anno successivo all’età di 76 anni. Tratto da un soggetto di Paul I. Wellman, “The Comancheros” (I Comanceros” in Italia) si avvale della sceneggiatura di James Edward Grant e Cliff Huffaker e dell’ottima fotografia di William H. Clothier. La colonna sonora, composta da Elmer Bernstein, risulterà uno dei fattori trainanti del film – prodotto da George Sherman e distribuito dalla 20th Century Fox – che dispone di un budget di 4.260.000 dollari.
Inizialmente la regia sarebbe dovuta toccare al bravo Budd Boetticher, che aveva appena finito di girare “L’albero della vendetta” e “La valle dei Mohicani”, ma questi rifiutò l’offerta.
Se come protagonista principale venne deciso fin dall’inizio Wayne – il capitano Jake Cutter dei Texas Ranger – più difficile fu giungere all’assegnazione della parte di sparring partner a Stuart Whitman. Lo scrittore Wellman, autore dell’opera nel 1952, avrebbe voluto Cary Grant, che però all’epoca in cui il film venne girato aveva 57 anni. La regia si sarebbe orientata volentieri sul mitico Gary Cooper nonostante i suoi 60 anni, se l’attore non fosse stato ormai in fin di vita (infatti morirà proprio nel 1961). Infine la scelta cadde sul trentatreenne Whitman che, oltre a possedere “la faccia giusta” per interpretare Paul Regret, era molto più giovane.
Il cast era completato dall’affascinante Ina Balin nel ruolo di Pilar, Lee Marvin nella breve ma eccezionale apparizione del trafficante Tally Crow, Nehemiah Persoff (Graile, capo dei Comancheros e padre di Pilar) Bruce Cabot (maggiore dei Ranger) Joan O’Brien (Melinda Marshall, amore inconfessato di Jake) Michael Ansara (Amelung, un Comanchero). John Wayne volle aggiungervi la partecipazione del figlio Patrick (il Ranger Tobe) e della figlioletta Aissa, oltre agli amici Jack Elam (un Comanchero) e Edgar Buchanan (il giudice Breen).
Le riprese esterne furono girate nello Stato dell’Utah, prevalentemente nella Moab Valley e a Sedona in Arizona.
L’intreccio appariva semplice e straordinariamente adatto alle qualità di John.
Il capitano Cutter arresta a bordo di un battello fluviale Paul Regret, un giocatore d’azzardo ricercato per omicidio. Lungo la strada per condurlo al suo comando, il prigioniero gli sfugge e l’ufficiale ritorna a mani vuote. I Ranger stanno indagando su una banda di trafficanti d’armi e Cutter si offre di prendere il posto di un mercante appena catturato, recandosi all’appuntamento con un certo Tally Crow sotto il falso nome di Ed Mc Bain, per fingere di trattare una partita di fucili destinati ai Comanche. Qui riesce a rintracciare e arrestare di nuovo Regret, che darà prova di eroismo durante un attacco indiano, guadagnandosi la fiducia del corpo dei Ranger. Successivamente Cutter e Regret si recano, sempre spacciandosi per trafficanti, nel campo dei Comancheros, fuorilegge bianchi e messicani capeggiati dal folle Graile che commerciano con la tribù dei Comanche. Fatti prigionieri, ottengono la liberazione grazie a Pilar, che oltre ad essere la figlia di Graile è innamorata di Regret. Il finale vede la distruzione dei Comancheros e dei loro alleati pellirosse e la “fuga d’amore” di Pilar e dell’ex giocatore, diretti verso il Messico per coronare il loro sogno.


Un’immagine tratta da “The Comancheros”

Il film è degno di nota sia per gli scenari quanto per l’intensità delle sequenze d’azione. Wayne sostiene una parte che sembra andargli su misura: quella dell’eroe positivo, un combattente un po’ misantropo sospinto da solidi ideali. Il soggetto si sviluppa nell’anno 1843, quando il Texas è ancora una repubblica indipendente presieduta da Sam Houston, che sta per essere annessa all’Unione. La guerra contro i razziatori comanche è giunta al suo culmine e vede impegnati soprattutto i reparti di Ranger, la polizia a cavallo sorta all’epoca dell’indipendenza dello Stato.
L’attore ha 54 anni ed è ancora nel pieno delle sue forze, sa stare a cavallo con maestria e si cimenta nella lotta con l’ardore di un giovane. Mentre Whitman gli sta perfettamente alla pari, Lee Marvin gli contende il primo piano per pochi minuti, che rimangono tuttavia indimenticabili. Il bandito Tally Crow, scotennato per errore dagli Indiani, fa un’apparizione a dir poco eccezionale nella camera d’albergo in cui alloggia Cutter sotto le mentite spoglie del trafficante Mc Bain. In un attimo scaccia a frustate due prostitute, stappa una bottiglia di whisky con un gesto che non ha eguali nella storia della filmografia western e si lascia andare ad una serie di eccessi che divertono e animano la trama in maniera del tutto originale.
Le esagerazioni di Curtiz e Wayne stanno soprattutto nella carneficina di Indiani e nelle armi impiegate dai Ranger per sconfiggerli. Infatti a quell’epoca non esistevano ancora i fucili a ripetizione che compaiono spesso nella pellicola. A parte ciò, “I Comancheros” è un autentico film western, che ha come sostrato il patriottismo texano già esaltato da “La battaglia di Alamo”. I Ranger rappresentati da Cutter combattono per pacificare la regione e renderla vivibile alla gente di buona volontà. Fra le righe si legge anche il progetto di annessione del Texas agli Stati Uniti d’America, che sarà poi la causa scatenante del conflitto contro il Messico due anni più tardi.
Gli Indiani sono sobillati dalla gentaglia messa insieme da Graile, che si è costruito un proprio feudo personale in una polverosa vallata, lucrando sulle proprie attività illecite, ma nel rispetto di una serie di regole che fanno sembrare il covo come uno stato autonomo.
La componente femminile si riassume specialmente nel ruolo di Pilar, una donna di mondo che alla fine sacrificherà le proprie ambizioni per amore del bel Regret e in quello di Melinda, la vedova che abita in una remota fattoria insieme alla figlia bambina interpretata da Aissa Wayne. Esse rappresentano due aspetti della donna del West: la pioniera laboriosa e discreta che si occupa della famiglia affrontando quotidianamente un’esistenza difficile e l’avventuriera sfrontata e audace, il cui punto debole rimane il sentimento.
In questo film Wayne dimostra di avere assimilato la filosofia di John Ford, per il quale i peccatori redenti possiedono la stessa dignità rispetto ai “buoni”. Come il fuorilegge Ringo Kid, la prostituta Dallas e il giocatore Hatfield di “Ombre rosse” e l’Ethan Edwards di “Sentieri selvaggi”, anche le ambigue figure di Regret e Pilar ritrovano la propria strada sotto gli occhi del bonario Cutter.
Il West venne conquistato anche da persone di questo genere, la cui moralità non poteva sicuramente essere presa come un esempio da imitare.


Un’immagine tratta da “How the West was won”

Nel 1962 il Duca fece due brevi comparse in altrettanti film, un western ed uno bellico. “La conquista del West” (“How the West Was Won”) primo esperimento western in cinerama di tre registi di nome – Ford, Hathaway, George Marshall, ai quali va aggiunto Richard Thorpe non accreditato – si proponeva di raffigurare, come dice il titolo stesso, la presa di possesso delle selvagge terre occidentali da parte degli Americani, narrando una serie di episodi collegati fra loro, tutti adattati da racconti dello scrittore Louis L’Amour: I fiumi, Le Grandi Pianure, La Guerra Civile, Le Ferrovie e I fuorilegge. Wayne ha una parte solo nel secondo, interpretando la figura storica del generale nordista William Tecumseh Sherman, mentre altri attori – Henry Fonda, James Stewart, Gregory Peck, Vera Miles, Carroll Baker – recitano ruoli di primo piano. Il film, della durata di 164 minuti, prodotto e distribuito dalla Metro Goldwin Mayer, rappresentò un trionfo per il western, ottenendo infatti 8 nomination e venne gratificato con 3 Oscar (migliore sceneggiatura a James R. Webb, miglior montaggio a Harold F. Kress e miglior sonoro a Franklin Milton) mentre il National Board of Review lo inserì nel 1963 come uno dei migliori 10 film. Realizzato con un budget di 15 milioni di dollari, ne ricavò 35 sul mercato USA e 50 dalla distribuzione mondiale all’inizio del 1970.
Per un genere già considerato declinante – nel 1962 vennero prodotti 19 western, contro 238 film drammatici e commedie, 82 d’avventura e 31 di fantascienza – fu un successo indiscutibile.
In questa carrellata sul West, Wayne ha poco risalto, interpretando una parte marginale nell’episodio di Ford sulla Guerra Civile, così come l’avrà lo stesso anno in un altro colossal, “The Longest Day” (“Il giorno più lungo”) nei panni del tenente colonnello americano Benjamin Vandervoot impegnato a preparare lo sbarco in Normandia. Ma quell’anno uscirà anche la pellicola che molti considerano il capolavoro assoluto di John Ford: “L’uomo che uccise Liberty Valance”, nel quale il grande John, come sparring partner di James Stewart, è in realtà il vero protagonista dell’avventura che conclude la parabola fordiana del West.
In seguito lavorerà con Hawks, Hathaway e Don Siegel cercando di ricalcare le orme di un passato che si allontanava sempre di più nel tempo. Per il Duca saranno gli anni della sua lotta contro il cancro, della contestazione per le sue idee politiche sul Vietnam e del trionfo con “Il Grinta”, fino al fatale declino, che reciterà anche sulle scene con “Il pistolero”, tramonto di un maestro della pistola che rifiuta di arrendersi ad un male strisciante.