Le grandi pianure


Nativi (Paiute) impegnati nel “Gioco dei Quattro Bastoncini”

Guerra e gioco d’azzardo sono legati anche alle tradizioni di caccia (intesa come sfida e intimamente legata alla sopravvivenza) che richiedono l’invocazione di poteri spirituali affinché arrechino successo. In un racconto di caccia, il capo di tutti i bisonti sfida un uomo ad una corsa in cui, se vincerà, potrà, potrà riconquistare la propria moglie, Donna Bisonte, ma, in caso di sconfitta, perderà la vita. Sebbene il capo dei bisonti abbia l’aiuto degli animali più veloci della terra e della maggior parte degli uccelli e delle altre creature, l’uomo vince grazie all’intervento della gazza, dell’aquila e del falco: tutti animali carnivori associati alla guerra. Presso quasi tutte le tribù delle Pianure, antiche tradizioni associano un rituale di caccia per il richiamo del bisonte con il gioco del cerchio: una sfida tra due guerrieri di rilievo, sostenuti dai canti dei loro compagni di squadra. Un piccolo cerchio, inizialmente costituito da una struttura di legno flessibile (come il salice), con una pelle di bisonte tesa in mezzo, veniva fatto rotolare lungo una pista segnata da entrambi i lati da un tronco, e i giocatori cercavano di trapassarlo con paletti simili a frecce. Quando una squadra otteneva un punto, intonava i “canti della Danza del Cane Pazzo”, canti di coraggio e dedizione al sentiero di guerra. Dato che a tali canti potevano far ricorso solo valorosi e provati guerrieri nel culmine della battaglia, essi indicano il fervore del gioco e sottolineano la sua importanza, paragonabile ad un atto di guerra. Questa associazione fra gioco e guerra era rilevabile in molte competizioni. L’avversario era concepito come nemico e il gioco come guerra; una squadra si impegnava, come poteva fare un drappello di guerrieri, per ottenere la vittoria, ma il “combattimento” avveniva essenzialmente tra due individui; venivano invocate le potenze spirituali, spesso le medesime che estendevano la loro influenza sulla guerra e sulla caccia. Gli aspetti materiali di questo genere di sfide (un uomo poteva anche giocarsi tutto e rimanere senza risorse) costituivano solo una piccola parte della posta in gioco: in realtà i contendenti mettevano pubblicamente in palio il proprio orgoglio e la propria abilità. Per ottenere buoni risultati in guerra e a caccia era possibile rivolgersi alle forze metafisiche che influenzavano il successo nel gioco d’azzardo. In ognuna di queste attività il successo era essenzialmente legato al principale obiettivo del guerriero: la garanzia di sopravvivenza per mezzo del dominio delle forze a lui opposte.


Amuleto di “Medicina del Cavallo” Assiniboine – 1860 circa

La guerra era quindi parte di un sistema più vasto: era lotta per preservare l’esistenza di un individuo, di una famiglia, di una comunità o tribù, e veniva espressa in termini di superamento di una sfida. Questa filosofia regolava il rapporto tra gli uomini e l’ambiente e permeava l’intero tessuto sociale. I guerrieri più valorosi divenivano uomini di prestigio, ma anche altre azioni disinteressate ottenevano riconoscimento e onore. Il coraggio veniva esaltato nei racconti, o rivelato in particolari simbolici di abiti, emblemi, pitture del viso e del corpo, e in canti e danze. Tutto ciò contribuiva a creare i segni distintivi delle società dei guerrieri. Sebbene le società, come corpi collettivi, avessero un impegno limitato nei combattimenti, era essenzialmente entro il loro contesto che la reputazione di guerriero poteva ricevere riconoscimento, mentre l’appartenenza e il rango determinavano sempre particolari modelli di comportamento individuale durante periodi di conflitti. Tutte le società avevano solitamente un numero indefinito di membri, e un numero ristretto di “ufficiali” che dirigevano e facevano fronte agli impegni; essi venivano eletti grazie a un coraggio e a un’audacia eccezionali. L’affiliazione aveva luogo sia in base all’età sia per iniziazione. Un esempio del primo caso, noto come “divisione per età”, è riscontrabile tra i Piegan della confederazione dei Piedi Neri. I Piccioni erano la società che annoverava i più giovani, ragazzi che non avevano ancora aderito ad organizzazioni di guerrieri: erano “uomini senza potere”, solitamente di età attorno ai quattordici anni. Era all’interno di tale società che essi si preparavano alla maturità e ai doveri del guerriero, che si conformavano alle regole e alle sanzioni che governavano l’appartenenza alla stessa e la condotta in guerra. Con l’acquisizione del potere, che di solito si otteneva per mezzo di visioni, essi divenivano “uomini che vanno alla guerra”, membri delle Zanzare. Se comprovavano la loro abilità durante un conflitto, ottenevano il diritto a far parte dei Valorosi, o “guerrieri sottoposti a tutte le prove”. Questa società era molto potente, formata da guerrieri affermati, attivi e ricchi d’esperienza, e costituiva la principale forza della tribù.


Membri della Società dei Cani-Valorosi Blackfoot

I membri dei Valorosi, o Cani-valorosi, imitavano le abitudini dei cani: abbandonavano l’accampamento quando tutti se n’erano andati, come si suppone faccia questo animale, e viaggiavano lentamente così da arrivare per ultimi. Spiegazione mitica, in realtà, di una funzione pratica svolta durante gli spostamenti: rimanendo dietro al corpo principale del gruppo o della tribù, essi si esponevano ad un maggior pericolo, e ottemperavano al dovere di difendere le retrovie. Durante gli spostamenti le comunità erano molto vulnerabili e quindi ogni membro prometteva di comportarsi coraggiosamente: “un Cane-Valoroso deve sempre affrontare il nemico, non importa quanto sia temibile…non può indietreggiare, a meno che uno dei suoi parenti non lo spinga indietro come un cane”.
I Valorosi erano superati dai Cani-Pazzi, guerrieri di tale rilievo che spesso sono noti come “capi”, ma ancora più potenti erano le Volpi-Cucciole. Durante le parate pubbliche marciavano come un gruppo di guerrieri, ma nelle loro danza saltavano da un lato all’altro, perché “la volpe non va mai diritto. Pare guidata dalla coda”. Presentato come caratteristica delle volpi, in effetti tale movimento veniva tipicamente impiegato durante l’attacco diretto al nemico perché rendeva meno precisa la sua mira e quindi, mostrandolo pubblicamente, i guerrieri comprovavano di aver compiuto in guerra questa azione pericolosa.
Uomini più anziani facevano parte dei Tori, il più alto rango dal quale si sostiene fossero provenuti tutti i copricapi di guerra, mentre le donne potevano appartenere alla Matoki, o Società del Bisonte. Mentre le danze e le cerimonie dei maschi ponevano l’accento sulla guerra, quelle della Matoki erano rappresentazioni di battute al bisonte e la loro danza avveniva entro una recinzione alla base di un piskun.


Copricapo “di rango” di Società Guerriera Blackfoot

I Crow e gli Cheyenne avevano società guerriere per molti aspetti simili a quelle dei Piedi Neri, ma in genere l’appartenenza non dipendeva dall’età. Tutte le società potevano considerarsi alla pari, e quindi tra esse si sviluppava una rivalità maggiore rispetto a quella possibile in un sistema dipendente dall’età, con i suoi gradi gerarchici e la sostituzione degli aderenti. L’umiliazione, in guerra, agiva come elemento di coesione entro la tribù e la società. Veniva inferta a colui che aveva compiuto azioni codarde e ciò spronava i guerrieri ad essere più audaci sia per il riconoscimento individuale, sia perché le loro imprese influivano anche sulla posizione degli altri membri. Vi era competizione fra le varie società, e il pericolo della derisione in caso di inadempimento dei compiti stimolava tutti a combattere più duramente contro un nemico comune. Tale minaccia era molto concreta, e sia le testimonianze storiche sia le tradizioni orali sostengono che piccoli gruppi, strutturati come società, quando i loro membri non mostravano il coraggio che ci si attendeva, erano a volte costretti a sciogliersi a causa dell’umiliazione subita.
Altri gruppi molto potenti si estinguevano probabilmente perché i loro membri erano troppo intrepidi. Fra i Cani-Pazzi dei Piedi Neri vigeva una massima: “Non è cosa buona divenire anziani: è meglio morire giovani, combattendo coraggiosamente in battaglia”; e i più intrepidi di tutti i guerrieri Cheyenne furono i Soldati-Cane. Se si tiene conto che le loro imprese si informavano a questo spirito, non deve sorprendere che probabilmente alcune società scomparissero perché tutti i loro aderenti venivano uccisi.
Per molti versi, la temerarietà era l’ideale del guerriero, perché la maggior parte delle società includeva membri dai quali “ci si attendeva che morissero in difesa della tribù”, anche se costoro rappresentavano l’eccezione ed erano più idealizzati che emulati dalla maggioranza dei guerrieri.


Cheyenne Dog Soldier – dipinto di Ed Holmes

Alcuni guerrieri, dediti al sacrificio della vita in combattimento a causa di una perdita personale inconsolabile, si separavano dal resto della comunità, parlando e agendo “al contrario”: dicevano e facevano, cioè, l’opposto delle loro intenzioni. Il loro comportamento contrario faceva di loro forse i più audaci guerrieri delle Pianure poiché, anziché ritirarsi quando la sconfitta pareva inevitabile, essi combattevano ancora più disperatamente. I Guerrieri-Inversi, degli Cheyenne, ricevevano il sacro dovere di parlare e agire in tal modo in quanto divenivano Hohnuhk’e o Contrari, solo quando il Tuono, sotto le sembianze dell’Uccello del Tuono, appariva in sogno o in visione. Essi erano costantemente pronti a combattere, ma se il successo sembrava sicuro stavano solo a guardare; comunque, se i guerrieri venivano sconfitti, era loro dovere assalire il nemico e combattere fino alla morte o alla distruzione degli avversari. Si sosteneva che il loro contatto più diretto con le Sacre Potenze desse ai Contrari una purezza di pensiero e di azione solitamente negata agli altri uomini.
Un guerriero aveva indubbiamente un grandissimo incentivo a compiere imprese intrepide, in parte per il riconoscimento all’interno della società e in parte per l’orgoglio tribale; in effetti la reputazione della tribù come forza effettiva in grado di difendere i propri accampamenti e i territori di caccia si fondava sulle azioni individuali. Se al prestigio legato agli onori di guerra e alla necessità di dimostrare la forza tribale, garante della sopravvivenza, si somma il temperamento vivace dell’Indiano delle Pianure, nessuna meraviglia che gruppi di guerrieri fossero regolarmente alla ricerca di accampamenti nemici. La azioni di guerra non erano sempre e comunque vittoriose. Spesso si ritornava senza aver trovato l’accampamento nemico, o ci si ritirava perché gli avversari erano troppo forti per poter essere attaccati senza correre rischi, o perché la presenza del gruppo di guerrieri era stata prematuramente intercettata. Quando uno dei membri del gruppo rimaneva ucciso, la missione poteva essere abbandonata indipendentemente dalle cause della morte. Lo stesso poteva accadere per riportare un compagno ferito, anche senza aver ottenuto riconoscimenti di guerra.


Cheyenne – dipinto di Frank McCarthy

Quando scoppiava un conflitto, esso era regolato da un elaborato codice di condotta, riconosciuto e rispettato da tutti i guerrieri e che accordava il successo personale in base al numero di “colpi” che potevano essere calcolati. Il “colpo” era la struttura portante di un sistema formale di onori di guerra progressivi che riflettevano il grado di audacia superato da un singolo; essi però non erano necessariamente relativi ad azioni di palese aggressione. Tra i Piedi Neri “giungere a cavallo, strappare il fucile dalle mani del nemico e fuggire senza ferimenti da ambo le parti è il massimo che si possa fare”, e i Crow riconoscevano che prendere uno scalpo non era impresa che meritasse particolare attenzione, perché esso poteva provenire dalla testa di un nemico morto e quindi ottenuto senza pericolo fisico. Il colpo propriamente detto era solo una delle imprese di tale gerarchia. Consisteva nell’azione pericolosa di toccare un avversario con la mano o con un oggetto tenuto nella mano, come ad esempio una speciale lancia rigata nota come “bastone da colpi”. Eseguito deliberatamente alla presenza di testimoni, il “colpo” era un onore di tale importanza che i guerrieri spesso cercavano di poter rivendicare colpi prima di impegnarsi nell’uccisione, nel ferimento o nel disarmo del loro antagonista. Probabilmente questa tradizione era in uso ancor prima dell’avvento del cavallo, in forma limitata e in connessione con i trofei di guerra. L’arrivo del cavallo può aver reso il “colpo” ancora più importante: un guerriero a cavallo che irrompe tra le forze nemiche solo per “toccare” un avversario può risultare incredibile alla luce della concezione europea della guerra; ma per un Indiano era impresa di coraggio spettacolare, di audacia, dimostrazione di una superiorità che non andava a colpire la vita dell’antagonista, ma la sua fiducia e il suo stato d’animo. La possibilità di contare una serie di colpi su un singolo nemico o di ottenere prestigio catturando il suo scudo, il cavallo, l’arma o l’emblema che simboleggiava aiuto spirituale, o di salvare un compagno caduto – tutte azioni che ricevevano i massimi onori di guerra – significava che, sebbene si combattesse a livello individuale, ognuno era pienamente consapevole di quanto avveniva altrove sul campo di battaglia. Ciò dava un centro al combattimento, e permetteva ai guerrieri di soccorrersi a vicenda; succedeva anche che vi fossero uomini che, dopo aver combattuto e ucciso un nemico, perdevano il diritto a rivendicare onori perché un compagno aveva formalmente toccato un nemico e contato i colpi proprio di fronte a loro.


Bastone da “colpi” appartenuto al capo Standing Alone (tribù Piedi Neri)

Presso i Sioux il sistema dei “colpi” assunse caratteristiche complesse. Fu sviluppata una graduatoria di punteggi, secondo la quale il primo uomo a toccare il nemico era premiato col primo colpo, o “colpo diretto”, ed il diritto a portare una penna d’aquila reale diritta sulla nuca. A chi toccava per secondo lo stesso nemico veniva concesso di portare una penna d’aquila inclinata a sinistra. Il terzo acquisiva il diritto di portare una penna d’aquila orizzontalmente, mentre il quarto e ultimo poteva portare una penna di poiana appesa verticalmente. Le ultime tre penne erano note come “penne del colpo”. Venivano riconosciuti come colpi il toccare un uomo, una donna o un bambino. Il diritto del colpo veniva riconosciuto a chi toccava il nemico, non a chi lo uccideva, a meno che non succedesse in un corpo a corpo. Per contare il colpo si poteva usare la mano, la lancia, l’arco o certi oggetti caratteristici della propria associazione guerriera, come le raganelle o le fruste. Per tutti i colpi bisognava avere dei testimoni e più tardi giurare. Disgrazia e disonore colpivano colui su cui avesse contato un colpo il nemico.
Venivano riconosciuti come colpi anche altre gesta audaci e bellicose. Uccidere un avversario in un combattimento corpo a corpo consentiva al vincitore di dipingere una mano rossa sul suo vestito o sul suo cavallo. Salvare un compagno in battaglia dava all’uomo il diritto di dipingere una croce sul suo costume, e se il salvatore portava al sicuro sul suo cavallo l’amico in pericolo, poteva portare una croce doppia. Si potevano indicare il colpi disegnando delle strisce verticali sui gambali; le strisce rosse indicavano che colui che le portava era stato ferito. Penne da colpo dipinte di rosso indicavano anch’esse delle ferite; le penne con tacche stavano a significare che era stato ferito il cavallo. Con colpi venivano premiati gli scout che avessero avvistato dei nemici: il simbolo di questa azione era una penna nera spaccata al centro ma con la punta intatta.


Capo Oglala Sioux Orso Toro con penne da “colpi”- dipinto di A. J. Miller

E’ certo che presso i Sioux venivano concessi dei colpi per il furto di cavalli. La spinta a razziare cavalli era quindi doppia, perché il razziatore non solo arricchiva le sue gesta guerriere, ma acquisiva anche maggior ricchezza materiale. In questo caso la ricerca dell’audacia non era fine a sé stessa, in quanto l’audacia era anche un mezzo. Gli zoccoli di cavallo dipinti su una penna da colpi o sui gambali o su uno dei propri cavalli, indicavano il numero dei cavalli razziati; ogni zoccolo era dipinto col colere del cavallo rubato. Un uomo dimostrava la sua abilità e ricchezza portando un lazo e un paio di mocassini in miniatura appesi alla cintura, per indicare che aveva catturato almeno dieci cavalli; portava solo il lazo quando i cavalli presi erano meno di dieci.
I simboli dei colpi variavano fra le varie divisioni dei Sioux, e capitava quindi che qualcuno avesse dei segni distintivi personalizzati. Per esempio, Aquila-alta-Spennacchiata portava un piccolo coltello di legno dipinto di rosso, legato all’estremità di un bastone da passeggio. A questo coltello era appesa una ciocca di crine di cavallo ad indicare i Pawnee che aveva ucciso.
L’incentivo agli onori militari in sé – cioè il credito accordato all’audacia – suggerisce che queste imprese possano essere state istituzionalizzate in realtà come meccanismo per evitare che qualcuno si tirasse indietro in situazioni di estremo pericolo. Tutti questi elementi: l’enfatizzazione del valore e della forza d’animo; l’emulazione; il credito accordato in maggior misura al toccare piuttosto che all’uccidere; la reputazione conquistata da coloro che, nelle battaglie, arrivavano al punto di fissarsi a terra con un paletto (e che tuttavia avevano ampie garanzie di salvezza grazie all’alto onore accordato a chi li salvava), tutti segni del rapporto del guerriero con l’esibizionismo e l’importanza della guerra, dimostrano che molti di questi popoli divennero letteralmente vittime di un modello culturale che era andato ben al di là della resistenza naturale. E’ verosimile che essi abbiano esaltato l’audacia e si siano presi gioco del pericolo per nasconderne la naturale, umana, paura innata.


“Colori di guerra” – dipinto di Don Oelze

In molti racconti di guerra i comportamenti, le imprese e le convinzioni peculiari del guerriero delle Pianure ricevevano omaggio continuo. Venivano narrati alla presenza dei bambini, e le giovani generazioni venivano incoraggiate a emulare le imprese degli “eroi”, poiché più questi obiettivi venivano tenacemente perseguiti a livello individuale, e più grande si faceva la reputazione tribale, la quale agiva da forza deterrente verso l’esterno e accresceva la capacità di garantire la sicurezza di tutti.
Un’impresa di guerra veniva in genere intrapresa dal leader, che solitamente aveva motivazioni personali e cercava di raccogliere il maggior consenso possibile tra i guerrieri della tribù; per spedizioni che, invece coinvolgevano un gran numero di persone, egli poteva essere eletto dal consiglio di guerra. Dato che il numero dei sostenitori dipendeva quasi interamente dalla reputazione e dalla popolarità individuali, l’entità dei gruppi di guerrieri variava quasi indefinitamente. Ovviamente la coesione era totale nel caso di una mobilitazione generale: la guerra nazionale, di conquista o difensiva, coinvolgeva tutti indistintamente gli uomini della tribù. Ad esempio questo avvenne per i Sioux quando, verso il 1775, scacciarono i Kiowa dalla loro roccaforte delle Black Hills, paradiso di caccia che ritenevano degno di conquista, tanto che da allora lo chiamarono affettuosamente “riserva di carne”. Oppure quando, nell’estate 1873, si lanciarono con determinazione contro i Pawnee che erano venuti a cacciare nel loro dominio sulle rive del fiume Platte: restarono uccisi circa duecento nemici fra uomini, donne e bambini.


“Hoka Hey!” – dipinto di Frank McCarthy

Per adempiere alla propria funzione, il leader richiedeva approvazione spirituale, conseguita con la ricerca e l’ottenimento di una visione che garantiva la sicurezza degli uomini di cui si era assunto la responsabilità, e di cui sarebbe stato chiamato a rispondere. Poiché la guerra era sempre concepita come opposizione di forze, sia naturali che sovrannaturali, il leader non poteva sperare di condurre i propri uomini al successo senza avere l’assistenza spirituale, una forza più potente dei singoli guerrieri.
Il sentiero di guerra era concepito come la Sacra Strada Rossa, e chiunque volesse intraprenderla doveva prima abbandonare formalmente la bianca Strada della Pace, che non ammetteva violenza. Lasciando il loro villaggio, i guerrieri erigevano quindi un nuovo accampamento, a volte costituito da un solo tepee simbolico, che segnava la loro separazione dalla comunità. Tale accampamento fungeva da luogo di raduno per i partecipanti alla guerra, ed era qui che venivano intonati i primi canti del lupo e rispettati i tabù che regolavano i rapporti tra i vari membri e salvaguardavano il loro legame con le Sacre Potenze. I tabù prevenivano discordie e dispute fra i guerrieri e fungevano da genti pacificatori per qualunque dissenso potesse sorgere sul sentiero di guerra, avvertito come potenzialmente pericoloso e causa di animosità. Si pensava che se non si rispettasse qualcuno dei tabù, il successo venisse compromesso. Essi inoltre sottolineavano la sacralità dell’obiettivo del sentiero di guerra e rimanevano validi fino a quando quest’ultimo non veniva abbandonato e i partecipanti ritornavano al villaggio riprendendo il sentiero della pace.
Un secondo campo cerimoniale, eretto quando entravano in territorio nemico, era una richiesta di guida spirituale, necessaria per il raggiungimento dell’obiettivo; e un terzo, che simbolicamente era un’ulteriore richiesta di aiuto nel momento del maggior pericolo, veniva eretto immediatamente prima dell’attacco. Ed era qui che i guerrieri si rivolgevano alle Potenze apparse loro nelle visioni, affinché accordassero la protezione promessa, e applicavano la pittura di guerra che era considerata dono personale delle Sacre Potenze. Prima dell’attacco, normalmente il leader si allontanava dagli altri guerrieri per entrare in rapporto con le Sacre Potenze onde riceverne consiglio. Per fare ciò fumava la pipa, un oggetto sacro, decorato per l’occasione (ad esempio con disegni di zoccoli se la missione era di razziare cavalli).


Pipa sacra di un leader Crow

L’oggetto più sacro e di maggior valore per un guerriero era lo scudo. Esso era costruito con la resistente pelle del collo del bisonte maschio: contratta mediante calore fino a diventare estremamente solida, la pelle poteva fermare una freccia o una lancia, nonché, se adoperata con abilità, deviare le pallottole di un fucile ad avancarica. Con l’avvento dei più potenti fucili a retrocarica, l’importanza dello scudo come arma di difesa diminuì, e prevalse invece la sua funzione di protezione spirituale, mediante immagini dipinte, frutto di visioni. Un tabù imponeva che lo scudo non toccasse mai terra. Su di esso veniva riportato il disegno dello “spirito dello scudo”, che conferiva il potere soprannaturale della visione avuta. Una ulteriore protezione fornivano sia le penne sacre che spesso venivano appese ai bordi dello scudo, sia artigli e denti di grossi animali, sia i totem rappresentati da piccoli animali apparsi nella visione, come ad esempio il falco: essi venivano opportunamente scuoiati e trattati in modo da ottenere una specie di imbalsamatura, e poi attaccati allo scudo stesso.
In molti scudi delle Pianure è raffigurato l’orso, di cui pochi animali potevano eguagliare la forza e la ferocia. Chi riceveva una visione di orso si riteneva potesse trovare una forza analoga nella battaglia. Nello scudo Crow riprodotto qui sotto, sulla sinistra sono disegnati anche dei “girini”, che rappresentano le pallottole contro cui lo spirito deve fornire protezione.

L’attacco poteva consistere in un’attesa ai limiti dell’accampamento per cogliere ogni occasione possibile o in incursioni che sfociavano in battaglie vere e proprie; non vi sono testimonianze di gruppi di guerrieri che, sferrato un attacco e indipendentemente dagli esiti, procedessero ulteriormente alla ricerca di un secondo accampamento. Secondo la logica indiana era il conflitto a essere decisivo: il successo stabiliva la supremazia e non vi era nulla da guadagnare estendendo le ostilità; la sconfitta, invece, e perfino la perdita di un solo uomo, frantumavano l’ordine rituale del sentiero di guerra – che raggiungeva il proprio apice nella vittoria – e richiedevano un successivo ritorno alle operazioni di guerra.
Il ritualismo richiesto si differenziava in accordo alla diversa entità dei gruppi di guerrieri: più la tribù era coinvolta nella sua interezza, più complesso si faceva il cerimoniale. Le incursioni per ottenere scalpi e quelle per catturare cavalli erano tenute distinte. Il fatto che venissero uccisi degli uomini in un’incursione per catturare cavalli o che questi ultimi venissero presi in un’incursione alla ricerca di scalpi era secondario rispetto agli obiettivi.
Le incursioni per gli scalpi avvenivano irregolarmente, anche a intervalli di anni, dato che solitamente coincidevano con la morte di un parente prossimo, non necessariamente in seguito ad un atto di ostilità, e avevano lo scopo di alleviare la sofferenza e di concludere un periodo di lutto. Il leader e molti membri del drappello di guerrieri erano spesso persone in lutto. Anche se a volte erano mossi da spirito di vendetta, è improbabile che questa fosse la ragione principale, perché spedizioni punitive che si protraevano per lunghi periodi erano del tutto sconosciute. In effetti, con la sola eccezione di Sioux e di Cree, lo scalpo (segno di un’uccisione) veniva dopo altre forme di onori di guerra. Un guerriero dei Piedi Neri, per esempio, narrando le proprie imprese di guerra menzionava i colpi, i pony e i fucili che era riuscito ad ottenere e raramente faceva cenno agli scalpi; il loro numero solitamente non attestava prodezza.


Coltello da scalpo dei Piedi Neri, con manico in mandibola d’orso e custodia in piume d’uccello tinte; dalla frangia in pelle pendono coni metallici

E’ necessario osservare più da vicino il significato dello scalpo per comprendere la ragione delle incursioni ad esso relative. Lo scalpo, come tutti sanno, è una piccola porzione di cuoio capelluto asportato dal cranio. Nel suo centro i guerrieri intrecciavano una piccola ciocca di capelli (la ciocca dello scalpo) e poi lo appendevano con perline, piume e simboli spirituali in segno di sfida al nemico: esso stava a significare l’identità o l’anima di una persona, rappresentava la sua parte immateriale o metafisica. Testimoniava quindi più una morte spirituale che fisica e, sebbene l’acquisizione di questo trofeo – ottenuto facendo scorrere la punta di un coltello affilato attorno ad una porzione di capelli e strappando tanto violentemente da asportare il cuoio capelluto – fosse estremamente dolorosa per la vittima, non era assolutamente letale. Coloro cui era stato asportato lo scalpo da vivi erano però molto temuti e considerati “morti viventi”. Gli atteggiamenti variavano, ma accadeva raramente che potessero essere reintegrati nella società, dato che era stata loro tolta l’identità di esseri umani.
L’anima catturata poteva essere portata al villaggio nemico, sotto le sembianze di scalpo, dove nel “mondo degli spiriti” diveniva sottomessa ai trapassati del proprio gruppo. In effetti si trattava di una sostituzione spirituale: una “morte” era sostituita da un’altra, o da diverse se lo status del trapassato lo giustificava, e la sofferenza era lenita da quella del nemico. Posti sulle tombe di coloro che erano morti di recente o dati alle vedove private dei loro affetti, simbolicamente gli scalpi concludevano un periodo di cordoglio, e in seguito potevano essere messi da parte o utilizzati per scopi secondari, come incantesimi di guerra, in quanto conferivano potere sulle anime dei nemici. Molti venivano tesi su cerchi di legno, con delicate rifiniture di perline o aculei di porcospino e fissati a conici pendenti di rame e ad artigli di animali da preda.


Scalpo, probabilmente di bambino, in cerchio in legno e decorazione di perline ad indicare la Stella del Mattino

Guerra e cordoglio erano indubbiamente connessi: sopraffatti dal dolore, coloro che erano stati privati dei loro affetti potevano ferirsi con coltelli di silice, tagliarsi i capelli, indossare vecchi abiti e solitamente trascurare qualunque cosa: il cibo, il proprio aspetto, la sicurezza, e lasciavano che il sangue delle ferite si rapprendesse sulla pelle. Ad alcuni si doveva impedire fisicamente di suicidarsi o di commettere omicidio: era in questa situazione che spesso un uomo giurava vendetta e organizzava un gruppo di guerrieri. Eppure, considerando gli eccessi che il dolore poteva generare e la concezione del servizio svolto dalle anime catturate nei confronti dei trapassati, vi era stranamente poco interesse per ciò che accadeva all’anima dopo la morte. Sebbene vi fosse una credenza generale in una qualche forma di aldilà, la condizione dei trapassati non era oggetto di interesse, e anche quando ciò avveniva, si supponeva che essi conducessero un’esistenza simile a quella dei vivi. Comunque si potevano tenere elaborate cerimonie per affrettare il distacco delle anime di guerrieri e leaders di rilievo. Ecco un brano di Catlin che riporta la cerimonia di sepoltura di un importante capo Omaha, Uccello Nero, che aveva richiesto di essere sepolto sul dorso del suo cavallo da guerra favorito:
«Possedeva molti cavalli, e tra di essi un nobile destriero bianco che venne condotto sulla cima di una rigogliosa collina; con grande pompa cerimoniale, alla presenza dell’intera comunità, egli venne posto a cavalcioni sul dorso del cavallo, con in mano l’arco e lo scudo e la faretra in spalla, con la pipa e il Fardello della Medicina, con una scorta di carne essiccata, e con la tabacchiera rifornita per il viaggio verso “i meravigliosi territori di caccia degli spiriti dei padri”, con pietrina e acciarino per accendere la pipa lungo il tragitto. Gli scalpi che aveva tolto alle teste dei nemici non potevano essere trofei per nessun altro e vennero legati alle briglie del cavallo…e sul capo ondeggiò il suo meraviglioso copricapo di guerra di piume d’aquila. In tale stato, e dopo che gli ultimi onori funebri gli vennero tributati dagli uomini di medicina, tutti i guerrieri del suo gruppo si dipinsero di rosso vermiglio il palmo e le dita della mano destra che impressero poi perfettamente sui fianchi bianco latte del fedele cavallo».
La preoccupazione del gruppo era rivolta a un sicuro viaggio spirituale, e non a una possibile vita futura. L’interesse degli Indiani delle Pianure era per i vivi: anche lo scalpo era più una conferma di vita che di morte, almeno dal punto di vista di chi se ne impossessava.


“Preparazione della cerimonia” – dipinto di Alfredo Rodriguez

Le incursioni per ottenere cavalli avevano un significato diverso ed erano soggette a un controllo cerimoniale meno rigido rispetto a quelle degli scalpi. In parte perché coinvolgevano un numero inferiore di guerrieri, i quali cercavano di entrare negli accampamenti nemici per poi abbandonarli, non visti, ma in parte anche perché avevano meno rilevanza spirituale. La motivazione economica di tali incursioni era rilevante per i giovani guerrieri desiderosi di salire di rango nella struttura sociale – e tale impulso faceva sì che in effetti fossero loro i più attivi partecipanti alle razzie; ma è anche vero che vi prendevano parte molti uomini che già possedevano pony il numero tale da soddisfare più che adeguatamente le loro esigenze. Le sole motivazioni economiche non potrebbero nemmeno giustificare la frequenza con la quale tali incursioni avvenivano. Un resoconto del XIX secolo sostiene che «tranne che nei periodi peggiori della brutta stagione, i guerrieri dei Piedi Neri erano costantemente alla ricerca di accampamenti nemici, ai quali catturare cavalli». Può trattarsi di un’esagerazione, ma è comunque certo che le incursioni per catturare cavalli, a differenza di quelle per ottenere scalpi, avvenivano regolarmente. Per gli Indiani non si trattava di semplice acquisizione. Il termine usato è “prendere”, e “prendere un cavallo” sostenevano fosse cosa diversa dal rubarlo. Prendere cavalli, nella loro concezione, era in certa misura un altro modo per avere la meglio sui nemici e dimostrare la propria abilità nell’accettare una sfida. Anche l’onore vi svolgeva un ruolo importante. Di notte i cavalli impiegati per la caccia al bisonte e i pony usati in guerra venivano legati dal proprietario all’esterno del proprio tepee, per proteggerli da possibili assalti; quindi entrare in un accampamento altrui e razziare uno o più di questi pony era impresa di guerra altamente riconosciuta, posta allo stesso piano di un “colpo”.


Medicina del Cavallo della tribù Blood (Confederazione Piedi Neri)

Farsi prendere il cavallo preferito e ben addestrato, praticamente dalla soglia di casa, era un grave affronto al prestigio del guerriero; inoltre senza di esso erano seriamente compromesse le sue possibilità di cacciare e combattere: era improbabile che riuscisse a procacciarsi un altro pony con le stesse eccezionali qualità, sarebbe stato costretto ad affidarsi al prestito e quindi a ricoprire una posizione inferiore.
Catturando un tale animale, il guerriero si era procurato molto più di un cavallo comune, poiché le comprovate capacità e l’intenso addestramento di un cavallo adibito alla caccia al bisonte rendevano il suo valore pari a quello di una dozzina di altri pony che facilmente potevano essere allontanati dagli ampi e incustoditi pascoli vicini agli accampamenti. Infatti la maggior parte dei cavalli presi durante le incursioni venivano allontanati dai pascoli da guerrieri inesperti – un piccolo drappello di guerrieri poteva procurarsene anche un centinaio -, mentre solo gli uomini più stimati entravano nell’accampamento. L’importanza di tali imprese veniva esaltata in narrazioni che, per la maggior parte, erano realistici resoconti di atti eroici e fughe avventurose. Henry e Thompson, che alla fine del XVIII secolo udirono alcune di tali narrazioni, scrissero che «essi (i Piegan) si dilettavano molto a narrare le loro avventure di guerra, e i dettagli dei combattimenti sono così vividi che pare stiano avvenendo di nuovo». Le narrazioni, sempre recitate al presente, spesso tendevano a esagerare le imprese di guerra fortunate. Pur essendo avvenimenti vecchi di generazioni, e sebbene il narratore non avesse alcun coinvolgimento nel conflitto, egli si riferiva ad esso come a un fatto avvenuto da poco.

Esistono racconti di brutalità quasi incredibili tra gli Indiani delle Pianure, quali mutilazioni e pratiche orribili sui cadaveri dei nemici uccisi. Questi fatti si accentuarono quando le tribù subirono l’invasione degli Europei, i quali portarono malattie fino ad allora sconosciute, in particolare vaiolo e morbillo, che sterminarono intere comunità di Nativi. Ciò infranse il loro equilibrio e frantumò il rapporto naturale che esse avevano con l’ambiente. Quando poi con l’avanzamento della frontiera furono spinte ad ovest, reagirono e colpirono con un’aggressività e un odio estranei alla loro cultura. L’ondata di aggressività non era diretta solo contro l’intrusione dei Bianchi, ma inquinò anche i rapporti intertribali, semplicemente perché l’Indiano stava opponendo una resistenza disperata a una situazione che non aveva scelto e che non era in grado di controllare. La sua azione era tanto più veemente in quanto egli veniva confinato entro aree sempre più ristrette. Il che ebbe appunto come conseguenza brutalità e imbarbarimento. Eppure, sebbene la guerra apparisse ora come qualcosa di estraneo concettualmente agli altri aspetti della vita, gli Indiani riuscirono in qualche modo a mantenere la propria credenza nella sacralità della guerra, associata, sia pure con difficoltà, alla convinzione di armonia, equilibrio e intrinseca benevolenza del mondo naturale.
La guerra, in precedenza, s’integrava completamente con l’etica culturale: la sua organizzazione cerimoniale, il “colpo” e gli onori di guerra, il ruolo delle società dei guerrieri e dei singoli, la loro condotta e atteggiamento, le decorazioni e le insegne, i simboli di protettori soprannaturali, e la connessione con caccia e gioco d’azzardo, tutto quanto aveva come scopo l’accettazione della sfida nella lotta per la sopravvivenza. Quando la minaccia di estinzione si abbatté drasticamente e violentemente sulle Pianure, non può sorprendere che l’energia fosse incondizionatamente indirizzata verso atti di guerra che intendevano accogliere quella sfida e vincerla.

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