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I confini del western

A cura di Domenico Rizzi

Ai primi del Novecento, quando si parlava di pellicole come “L’assalto al treno” o “Custer’s Last Fight” vi era ancora molta indecisione sul modo di catalogarli. Solitamente venivano ricompresi sotto la denominazione generica di film d’avventura, perché il western non aveva ancora acquistato una specifica fisionomia.
Per alcuni anni, mentre la produzione cinematografica si manteneva quantitativamente molto elevata – 645 cortometraggi e mediometraggi dal 1905 al 1915 – la critica conservò una separazione abbastanza rigida fra “Indian Pictures”, “Civil War Stories” e “Western Pictures”, a seconda che narrassero vicende di Pellirosse, episodi della guerra di secessione oppure vicende inerenti la vita del cowboy. Addirittura “Il cavallo d’acciaio” di John Ford (1924) venne classificato un “Historical Romance”, mentre i film aventi come location l’Alaska e il Canada – generalmente dedicati a cercatori d’oro, cacciatori di pellicce e Giubbe Rosse – presero il nome di “North Western Melodrama”.
Tale distinzione sbiadì e si perse a poco a poco, tanto che dopo il 1930 venivano considerati western sia i film d’Indiani quanto quelli imperniati su altri capitoli della storia della Frontiera, lasciando soltanto qualche perplessità nel classificare opere come “Via col vento”, che, pur ambientati sullo sfondo della Guerra Civile, si svolgevano in un contesto – la Georgia schiavista –troppo distante dal West classico.
La questione venne risolta quando alcune produzioni hollywoodiane, quali “Giubbe Rosse” di Cecil B. De Mille (1940) e “Le Giubbe Rosse del Saskatchewan” di Raoul Walsh (1954) trasferirono l’azione nelle fredde regioni canadesi. La vicinanza del Sud-Ovest statunitense con la repubblica messicana estese inoltre il genere oltre la “frontiera di cactus” e diverse pellicole che avevano come ambientazione il Messico furono ricomprese in esso. Anzi, dopo il 1950 i territori a sud del Rio Grande e gli eventi che li riguardavano – banditismo, rivoluzione, campagne contro gli Indios – sarebbero stati preferiti da molti autori.
Al tempo in cui apparve sugli schermi “Vera Cruz” di Robert Aldrich, nel 1954, i dubbi che si trattasse di un autentico western si erano già dissipati: così fu per tutta una serie di film girati successivamente, da “I professionisti” di Richard Brooks (1966) e “Giù la testa” di Sergio Leone (1971) fino a “The Old Gringo” di Luis Puenzo (1989). A questa stregua, è da ricollegarsi allo stesso genere l’incompiuto “Que Viva Mexico” (1931) del russo Sergej Eizenstein”, regista universalmente noto per “La corazzata Potemkin”.
In pratica, il western finì per inglobare film imperniati sulle guerre coloniali anglo-francesi del XVII-XVIII secolo, sulla Rivoluzione Americana del 1776 e i decenni immediatamente successivi all’indipendenza degli Stati Uniti (1783-1803) nonchè sulla conquista del West vero e proprio, iniziata nel 1804 con la spedizione di Lewis e Clark verso la costa del Pacifico e conclusasi nel dicembre 1890 con il brutale eccidio di Wounded Knee.
Per certi versi, circoscrivere l’avventura più fantastica della storia a quest’ultima data sarebbe riduttivo, perché in effetti l’epopea non era ancora conclusa. Infatti, nel 1896 scattò la corsa all’oro del Klondike, un’area compresa fra Alaska e Canada, e nel 1909 si verificarono sconfinamenti di qualche tribù dalle riserve governative, senza contare che il marshal Billy Tighman, strenuo difensore della legge nel Kansas per molti anni, venne assassinato da un ubriaco nel 1924 in una cittadina che, in seguito alla scoperta del petrolio, riesumava la frenetica esistenza delle boom town del passato. Dunque, tale prolungamento della storia della Frontiera potrebbe essere facilmente assimilato al genere western.
Secondo una classificazione ideata dall’autore del presente articolo, la lunga parentesi successiva al tramonto della Frontiera tradizionale – quella teorizzata dallo storico Frederick Jackson Turner – può essere definito “Quarta Frontiera”. La sua estensione spazia in un arco temporale che va dalla definitiva sottomissione dei Pellirosse (1890) fino ai giorni nostri.
I passaggi più significativi di tale evoluzione includono appunto la “Gold Rush” del Klondike, la campagna degli Stati Uniti contro la colonia spagnola di Cuba del 1898, la residua colonizzazione di aree semi-disabitate quali l’Arizona, il Nevada, il Montana, il Wyoming, il North e South Dakota. Non si dimentichi che nel 1930 questi Stati possedevano complessivamente una popolazione di 2.660.000 abitanti, distribuiti su una superficie di circa 1.600.000 chilometri quadrati, pari ad oltre 5 volte quella dell’Italia.
Per molte persone delle grandi città dell’Est – New York aveva a quell’epoca 6.930.000 abitanti; Chicago 3.376.000, Philadelphia quasi 2 milioni – quest’area apparteneva ancora, almeno idealmente, al selvaggio West che Buffalo Bill aveva fatto conoscere attraverso i suoi spettacoli.
Stabilire un preciso punto di partenza e di arrivo dell’epopea western è dunque abbastanza arduo.
La fine del western non può essere comunque rappresentata, come ha sostenuto qualche critico in passato, dall’arrivo del progresso nelle regioni ad occidente del fiume Mississippi. Se così fosse, il West avrebbe esaurito il proprio ciclo nel maggio 1869, quando venne completata a Promontory Point la prima ferrovia transcontinentale. Si può argomentare invece che la Frontiera sopravvisse anche in epoche posteriori a tale conquista, alla definitiva sottomissione degli Indiani ostili e alla pacificazione delle sue turbolente città.


Promontory Point

Un evento merita particolare attenzione al riguardo: la Grande Depressione seguita al crollo della borsa di Wall Street nel 1929, che causò in pochi anni 15 milioni di disoccupati, facendo sorgere nelle periferie delle grandi città le hooverville – dal nome del presidente Herbert Hoover, in carica allo scoppio della crisi – distese di baraccopoli dove i poveri, i disoccupati e i falliti ricevevano l’assistenza del volontariato e dei servizi sociali. La conseguenza fu una nuova corsa verso le terre dell’estremo occidente, soprattutto la California, la cui popolazione nel 1930 era aumentata di 2.250.000 unità rispetto al censimento di dieci anni prima.
La notevole flessione della domanda nei settori minerari e forestali aveva messo sul lastrico centinaia di migliaia di persone, molte delle quali guardarono all’estremo occidente come ad un miraggio.
Memori e no delle imprese dei loro nonni e bisnonni, che avevano attraversato le Grandi Pianure e i deserti per trasferirsi in California, i nuovi pionieri sospinti dalla disperazione si misero in viaggio lungo la storica Route 66 che da Chicago conduceva a Los Angeles, un polveroso tracciato di 2.347 miglia (circa 3.750 chilometri) inaugurato nel 1926 attraverso Illinois, Missouri, Kansas sud-orientale, Oklahoma, Texas settentrionale, New Mexico, Arizona e California. Lo scrittore John Steinbeck, con il suo romanzo “Grapes of Wrath” – tradotto in Italia con il titolo “Furore” – vinse il Premio Pulitzer narrando la drammatica vicenda della famiglia Joad emigrata all’Ovest su un camioncino sgangherato; il regista John Ford vincerà il Premio Oscar con il film omonimo.


“Grapes of Wrath”

Dunque, negli Anni Trenta e fino allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, il West era ancora terra di conquista: molte delle sue aree lo rimarranno anche nei decenni successivi.
Parecchie regioni – Wyoming, North e South Dakota, Wyoming, Idaho, Nevada – riceveranno il maggiore afflusso di immigrati proprio in epoca moderna. Per esempio, il Nevada registrò una crescita demografica importante soltanto dopo il 1970, l’Idaho dal 1990 in poi. Questo fenomeno ha lasciato sopravvivere per un periodo molto più lungo di quello considerato comunemente “Frontiera” un assetto che mantiene come base – seppure con le innovazioni apportate dal progresso tecnologico – quella istituita dai primi pionieri.
Il contrasto fra il nuovo e l’antico – quest’ultimo rappresentato soprattutto da insediamenti colonici che continuarono a svolgere per molto tempo le professioni dei padri e dei nonni – determinò a poco a poco la scomparsa del vecchio West, “passando sui cadaveri” di allevatori, boscaioli, contadini e cercatori d’oro.
L’impulso dato dall’estrazione del petrolio in parecchie località affrettò la trasformazione nel Texas e nell’Oklahoma, come narrato nel romanzo “Il Gigante” di Edna Ferber, dal quale sarà ricavato nel 1956 il colossal omonimo diretto da George Stevens e interpretato da Rock Hudson e Elizabeth Taylor, affiancati dall’astro nascente James Dean.
Seguendo questo trend, il cowboy rassegnato alla progressiva scomparsa del suo mondo, diventa essenzialmente una figura da rodeo (“L’ultimo buscadero” di Sam Peckinpah, 1972) – o da spettacolo (“Il cavaliere elettrico” di Sydney Pollack, 1979; “Bronco Billy” di Clint Eastwood, 1980) oppure insiste nella sua vita randagia, che rifiuta le imposizioni, mettendosi nei guai con la legge (“Solo sotto le stelle” di David Miller, 1962). Qualcuno, che non fa niente di tutto ciò, conserva tuttavia l’amore per la propria terra selvaggia, mantenendo un modo di vivere che non si discosta molto da quella del passato. E’ il caso di “L’uomo che sussurrava ai cavalli”, romanzo di Nicholas Evans portato sullo schermo da Robert Redford – regista e interprete – nel 1998. In altri film che non possono ritenersi western, come “L’ultimo spettacolo” di Peter Bogdanovich, vincitore di due Oscar nel 1972, la nostalgia dei tempi remoti procede di pari passo con la constatazione che il West dei pionieri rimane soltanto un ricordo. La nuova generazione, disillusa e sconfitta, finisce per cercare altrove il proprio futuro, abbandonando la cittadina indifferente, pettegola e annoiata nella quale è nata.
La tentazione di produrre western in Europa – dopo che la letteratura si era già largamente diffusa da questa parte dell’Atlantico per merito di scrittori quali il tedesco Karl May, il francese Gustave Aimard e l’italiano Emilio Salgari – risale a molto tempo fa, quando specialmente la Germania e l’Italia diedero vita a storie di Pellirosse, di banditi e di cowboy girati in luoghi che potevano, in qualche modo, ricordare le praterie o le regioni brulle del Sud-Ovest americano. Il western tedesco si basò soprattutto sulla serie di Winnetou, personaggio ideato dalla fervida fantasia di May, autore vissuto fra il 1842 e il 1912. I suoi romanzi vendettero all’incirca 200 milioni di copie nel mondo, i film basati sul tema furono una dozzina – interpretati dal francese Pierre Brice e dall’americano Lex Barker, uno dei più famosi Tarzan del cinema – e la televisione vi dedicò anche un paio di serie di un certo successo.
L’Italia, che già aveva prodotto qualche western prima dell’avvento del sonoro – uno dei quali, “La vampira indiana”, interpretato nel 1913 da Bice Valerian, madre di Sergio Leone e diretto da suo marito Roberto Roberti, alias Vincenzo Leone – guadagnò popolarità mondiale con il lancio ben riuscito di “Per un pugno di dollari”, seguito da innumerevoli altre pellicole. Lo scenario di questi film, diretti anche da Sergio Corbucci, Duccio Tessari, E.B. Clucher e molti altri, ricalca fedelmente quello dei capolavori americani realizzati da personaggi come John Ford, John Sturges o George Stevens , ma il contesto ruota esclusivamente intorno alle figure de pistoleri, mentre gli Indiani sono quasi sempre assenti.
La vera questione non è tuttavia questa: lo spaghetti-western cercò di ricreare – sugli sfondi dell’Andalusia, del Lazio o dell’Abruzzo – la parte più leggendaria della Frontiera americana, enfatizzandone gli aspetti più spettacolari e spesso meno credibili. Diversamente si comportarono invece quei Paesi che diedero vita alla cosiddetta western-fiction: mentre il filone nostrano si fondava – sfruttando le qualità di Clint Eastwood, Lee Van Cleef, Charles Bronson, Giuliano Gemma o Franco Nero – sui “bounty-killer”, sui vendicatori e sui cavalieri solitari della tradizione statunitense, altri riuscirono a dare alle loro storie un’impronta culturale marcatamente nazionale.
Per ottenere ciò andarono a scoprire i periodi della loro storia che presentavano le maggiori analogie – talvolta molto forti – con le trame tipiche del western hollywoodiano, favorendo una globalizzazione del genere che però avrebbe sviluppato le sue tematiche in maniera del tutto autonoma rispetto al tradizionale filone americano.
Il caso più significativo è rappresentato dall’Australia, che nel 1990 tentò di contendere agli Stati Uniti il successo ottenuto con “Balla Coi Lupi” di Kevin Costner, vincitore di ben 7 Oscar.


Balla coi lupi

Il regista australiano Simon Wincer girò la vicenda di “Carabina Quigley” negli assolati scenari della sua patria d’origine, impiegando attori americani (Tom Selleck, Laura San Giacomo) inglesi (Chris Haywood, Alan Rickman) e australiani (Tony Bonner, Jerome Ehlers, l’indigeno Steve Dodd).
Se il personaggio principale Mathew Quigley è un pistolero americano ingaggiato come mercenario, il prepotente ranchero Marston (Rickman) i suoi sgherri e l’arrogante maggiore Ashley Pitt rappresentano i colonizzatori locali, mentre gli Aborigeni, schiavizzati e sterminati da questi ultimi, subentrano nel ruolo dei Pellirosse d’America.
Nel 2002 Phillip Noyce gira “Generazione rubata”, basato su una storia autentica narrata da Doris Pilkington – figlia di una delle protagoniste reali della vicenda, quella Molly Craig interpretata nel film da Everlyn Sampi – che descrive il triste percorso della rieducazione imposta dai Bianchi alle bambine mezzosangue e la loro rocambolesca fuga attraverso migliaia di miglia di deserto. La scenografia spazia su una terra immensa, il cui unico confine visibile sembra essere la barriera metallica eretta dai coltivatori per arginare i conigli selvatici, proprio com’è possibile trovare ancora oggi in alcune aree occidentali degli Stati Uniti.
Più affine al western americano è invece “The Tracker”, prodotto nello stesso anno e diretto da Rolf De Heer, nel quale un giovane poliziotto lanciato all’inseguimento – insieme ad uno scout, ad un fanatico razzista e ad un aborigeno – di un nativo ingiustamente accusato di omicidio si ribella al conformismo imperante schierandosi con la parte debole. Nei due film citati e in quello che segue, campeggia sempre la figura di un attore australiano di razza indigena, quel David Gulpilil che in “Dieci canoe”, diretto ancora una volta da De Heer e da Peter Djigirr nel 2006, si trasforma in narratore di un avventuroso viaggio acquatico nelle paludi continentali. La trama ricorda, per certi aspetti, lo statunitense “I guerrieri della palude silenziosa” di Walter Hill (2006). Qui, la minacciosa e invisibile presenza dei selvaggi nativi sostituisce il pericolo costituito dai cajun della Louisiana, lontani discendenti dei primi coloni francesi dei quali conservano le antiche abitudini abbinate a scaltrezza e ferocia.
Per concludere la breve rassegna, non può mancare la co-produzione USA-Australia dal titolo “Australia”, di Baz Luhrmann, girato nel 2008. La pellicola percorre gli eventi che condussero al coinvolgimento del nuovissimo continente nella Seconda Guerra Mondiale, dopo che l’aviazione nipponica bombardò duramente la città di Darwin il 19 febbraio 1942.


Australia

Protagonista è l’aristocratica inglese Sarah Ashley (Nicole Kidman) erede di uno sterminato ranch nella lontana ex colonia britannica e costretta a molte peripezie attraverso lo sconfinato territorio insieme ad un mandriano soprannominato Drover (Hugh Jackman). Non manca neppure in questo film l’attore David Gulpilil, divenuto ormai un simbolo della componente aborigena.
Il western australiano ha celebrato, in alcune pellicole, anche la saga del fuorilegge che più si avvicina alla figura di Jesse James, quel Ned Kelly (1855-1880) di discendenza irlandese che insieme al fratello Dan e a due amici imperversò nella colonia britannica di Victoria, assaltando banche, razziando bestiame e sparando ai poliziotti che tentavano di catturarlo, fino alla fatale resa dei conti. Il film – “Ned Kelly”, diretto da Gregor Jordan nel 2003 – era già stato preceduto da un omonimo lavoro dell’inglese Tony Richardson nel 1970, nel quale la parte di Kelly era sostenuta da Mick Jagger, il celebre cantante dei Rolling Stones.
Tra le pellicole che si avvicinano al western realizzate in Sudamerica, ne spiccano soprattutto due: “Aguirre, furore di Dio” e “Mission”.
Il primo, co-prodotto da Germania, Messico e Perù e diretto da Werner Herzog nel 1972, si fonda sulla storia romanzata di Lope de Aguirre, un folle luogotenente di Gonzalo Pizarro che intendeva creare un proprio impero nell’Amazzonia; il secondo, diretto da Roland Joffè nel 1986 e di produzione inglese, rievoca la drammatica repressione attuata in Paraguay dai Portoghesi verso la metà del Settecento a danno degli indios Guarani, inutilmente difesi dal missionario gesuita Padre Gabriel (Luigi La Monica) e dal capitano spagnolo Rodrigo Mendoza (Robert De Niro). E’ la cruda testimonianza di un genocidio a cui i Paesi dell’America Latina non hanno dato il risalto cinematografico che meritava, lasciando al western statunitense il compito di rappresentare visivamente l’eccidio dei Pellirosse.
Una menzione particolare merita infine, almeno per l’ambientazione in un anonimo deserto e la presenza di un pistolero, “El Topo” di Alejandro Jodorowsky, un cult-movie del 1970 decisamente troppo atipico per essere considerato di stampo western, sebbene mostri di possederne diverse caratteristiche. Forse è la dimostrazione che il genere di John Ford e Sergio Leone ha avuto un’influenza non trascurabile anche nelle storie surreali.
L’Inghilterra ha dato un buon impulso allo sviluppo del proprio “filone western” attingendo soprattutto alle storia delle sue colonie, spostando il campo d’azione, oltrechè in Australia, anche nell’Africa dell’Ottocento.
Particolarmente nei film di ambientazione sudafricana assumono centralità i conflitti fra i colonizzatori boeri e britannici e il grande popolo degli Zulu. I due film di maggior rilievo – “Zulu” del 1964 e il commemorativo “Zulu Dawn” del 1979 – sono imperniati sullo scontro fra le due civiltà.
“Zulu”, diretto da Cy Endfield e rievocativo dell’eroica resistenza inglese a Rourke’s Drift è spettacolare e riesce a rimanersi fedele ai fatti: un reparto di 139 soldati e guide riesce a tenere testa – come avvenne realmente il 22 e 23 gennaio 1879 – ai reiterati assalti di circa 4.000 guerrieri indigeni del capo Dabulamanzi, abbattendone quasi 400 con la perdita di soli 17 uomini. I due inesperti comandanti, entrambi con il grado di tenente (Gomville Bromhead interpretato da Michael Caine e John Chard, l’attore Stanley Baker) si rendono conto soltanto alla fine del miracolo compiuto dalle loro armi da fuoco.
Lo stesso giorno in cui era iniziata quella battaglia, gli Zulu del re Cetswayo avevano travolto a Isandlwana il reggimento di Lord Chelmsford, che nel film “Zulu Dawn” è impersonato da Peter O’Toole. La vittoria indigena, costata oltre 1.000 morti agli assalitori, rappresentò una delle più impressionanti dèbacle subite dalla corona inglese contro un esercito non organizzato. Infatti, i Britannici persero circa 1.300 uomini oltre ai due cannoni che la colonna si era portata dietro per disperdere l’armata di Cetswayo.
Entrambi gli eventi sono stati spesso paragonati a battaglie realmente avvenute sul suolo americano fra l’esercito e le tribù indiane. Il primo presenta similitudini con gli scontri del Wagon Box Fight (1867) di Beecher’s Island (1868) e di Adobe Walls (1874); il secondo richiama inequivocabilmente la battaglia del Little Big Horn (1876) ma potrebbe rifarsi ad episodi ancora più lontani, quali la travolgente vittoria dei Miami di Piccola Tartaruga sul fiume Wabash (Ohio) ottenuta il 4 novembre 1791 contro le truppe del generale Arthur Saint Clair. L’esercito ne uscì anche in quell’occasione con le ossa rotte, perdendo 909 uomini fra i quali alcuni ufficiali superiori, mentre gli Indiani lasciarono sul campo soltanto 21 morti.
Un paio di altri film ambientati in Sudafrica si rifanno all’atmosfera del West americano. “La carovana dei coraggiosi”, diretto nel 1961 da George Sherman (produzione USA) e interpretato da Stuart Whitman e Juliet Prowse, narra la vicenda di alcuni soldati inglesi disertori che trovano rifugio in un convoglio di Boeri, insieme ai quali dovranno difendersi dagli attacchi di una tribù indigena. Più vicino al tema del banditismo nelle città di frontiera è invece “La furia degli implacabili” (“The Hellions”) di produzione inglese, ambientato nel Transvaal e diretto da Ken Annakin nel 1962. Interpretato da Richard Todd, Jamie Uys e Annie Aubrey, narra di una vendetta da parte di una famiglia di fuorilegge segue il canovaccio tipico del western, concludendosi con la rituale sparatoria.
L’Italia ha proseguito nei suoi esperimenti sul West fino a pochi anni fa, portando sugli schermi film come “Jonathan degli Orsi” – diretto nel 1993 da Enzo G. Castellari (attori Franco Nero e John Saxon) con gli esterni girati in Russia – e “Il mio West” di Giovanni Veronesi (attori Leonardo Pieraccioni, David Bowie, Harvey Keitel e Alessia Marcuzzi) che si svolge quasi interamente in un villaggio costruito sulle Alpi Apuane nel 1998. Il cinema nazionale non ha però sfruttato adeguatamente un determinato periodo della sua storia – che avrebbe potuto essere quello risorgimentale – per dare origine ad un filone proprio.
A parte i film dedicati alla conquista garibaldina del Regno delle Due Sicilie, la parentesi storica che meglio si sarebbe prestata allo scopo è senz’altro quella della lotta al brigantaggio meridionale fra il 1860 e il 1865 – una pagina poco nota o volutamente dimenticata per i suoi risvolti di manifesto genocidio – nella quale si ritrovano personaggi che possono presentare somiglianze abbastanza marcate con quelli americani dell’Ottocento. Uno di questi fu Carmine Crocco Donatelli (1830-1905) che con la sua banda diede molto filo da torcere all’esercito e alle polizie dell’Italia unificata.
Alle sue vicende il cinema si ispirò per “Il brigante di Tacca del Lupo” di Pietro Germi (1952) e “Li chiamarono…briganti” di Pasquale Squitieri (1999) dedicando poi al bandito la biografica mini-serie televisiva “Il generale dei briganti”, di Paolo Poeti, ultimata nel 2012.
Eppure, la lenta e drammatica trasformazione subita dal Sud conquistato, dove il latifondo continuò ad imperare per decenni, le accanite lotte fra briganti e filo-borbonici da una parte ed esercito sabaudo dall’altra – che fece emergere anche il fenomeno di“brigantesse” quali Michelina De Cesare e Marianna “Ciccilla” Oliverio, autentiche Belle Starr della nostra Frontiera meridionale – avrebbero potuto costituire un argomento solido sul quale costruire una serie di trame.
Un altro tema poco utilizzato è quello che si riferisce alla conquista dell’Africa di fine XIX secolo, dove le nostre truppe vennero duramente impegnate – e spesso sconfitte – dalle forze indigene.
Battaglie come Dogali (Eritrea) del 26 gennaio 1887, nella quale il tenente colonnello De Cristoforis cadde con i suoi 461 soldati dinanzi alle orde del ras Alula e la disfatta di Adua del 1° marzo 1896 – nella quale gli Italiani ebbero circa 7.000 morti – rappresentarono praticamente la Little Big Horn dell’esercito nazionale. La colonizzazione delle aree occupate militarmente e spesso difese da un pugno di uomini costituisce pure un soggetto invitante, così come le esplorazioni del Continente Nero condotte da uomini intrepidi come Romolo Gessi e Vittorio Bottego – che potevano competere in audacia con Davy Crockett e Kit Carson – per non parlare dell’incredibile avventura eritrea del tenente Amedeo Guillet, da tutti considerato il “Lawrence d’Arabia” italiano.
Recentemente la Spagna, che per tanti anni ha ospitato sul proprio suolo western italiani, tedeschi o statunitensi, ha prodotto una serie televisiva che contiene tutti i caratteri della western-fiction più genuina.
“Tierra de Lobos” – ideata da Rocio Martinez e Juan Carlos Cueto nel 2010 – riassume infatti parecchie tematiche del genere: il proprietario terriero ambizioso e intransigente, gli sgherri che egli ha assoldato per difendere il latifondo, molto simili ai rudi cowboy di tanti film americani, le trasgressioni erotiche che sembrano riportare alla Tombstone del 1881. Nello sceneggiato non mancano gli amori contrastati, le scene di crudeltà – un uomo legato ad un carro e frustato spietatamente, un “vaquero” trascinato per i piedi da un cavallo – e gli ingredienti che da sempre caratterizzano il western tipico, dalla interminabile scazzottata fra due protagonisti – remake di quella sostenuta da Gregory Peck e Charlton Heston in “Il grande paese” di William Wyler (1958) – alla rapina ad una banca portoghese secondo lo stile della banda di Jesse James ( o della danda di Pike ne “Il mucchio selvaggio”).
Volendo evidenziare altre peculiarità, uno dei protagonisti – Cesar Bravo – è armato con un Winchester “yellow boy” e due pistole Colt, mentre un inconsueto “prospector” di nazionalità svizzera è alla ricerca, anziché dell’oro o del petrolio, di una fonte di acqua minerale che gli potrà procurare la ricchezza. Da ultimo, non manca il tema della strada ferrata che sta per giungere nella regione, destando apprensione e incontrando l’ostilità del boss Lobo, disposto a barattare una giovanissima figlia con un attempato funzionario delle ferrovie per indurlo a modificare il progetto.
La serie ha ottenuto un enorme successo in Spagna e da alcune settimane riscuote altrettanti consensi alla televisione italiana.
L’auspicio è che ciò possa servire da stimolo – sebbene i budget siano ormai molto limitati e si stia assistendo malinconicamente allo smantellamento di Cinecittà, destinata a trasformarsi in parte in un residence – ai cineasti di casa nostra, dopo che la produzione nazionale, fino a pochi anni fa apprezzata in tutto il mondo e più volte premiata nei concorsi, sembri avviata a un inevitabile crepuscolo.