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Mezzogiorno di fuoco

A cura di Domenico Rizzi

Sessant’anni fa, nel 1952, il western celebrava già oltre mezzo secolo di esistenza e la sua popolarità aveva raggiunto il mondo intero. Dopo i primissimi esperimenti di Thomas Alva Edison e gli esordi di Wallace Mc Cutcheon (“Kit Carson”, 1903) e Edwin S. Porter (“L’assalto al treno”, 1903) erano seguiti gli anni gloriosi del pionierismo di Thomas H. Ince, David Wark Griffith e Cecil B. De Mille nei primi decenni del Novecento. Poi un certo John Ford aveva sfoderato “Il cavallo d’acciaio” nel 1924, King Vidor si era impegnato in una biografia di Billy il Kid nel 1930 e lo stesso anno Raoul Walsh aveva realizzato “Il grande sentiero”, nel quale recitava la futura star John Wayne.
Nel 1936 Cecil B. De Mille tornava alla carica con lo pseudo-biografico “The Plainsman”, distribuito in Italia come “La conquista del West”, interpretato da Gary Cooper, Jean Arthur e James Ellison, nel quale comparivano tre figure cardine della leggenda del West: Wild Bill Hickok, Calamity Jane e Buffalo Bill, in una serie di avventure tanto improbabili quanto quelle del “Kit Carson” di Mc Cutcheon.
Ma è soltanto tre anni dopo che il genere si imponeva autorevolmente come “adulto” con due pellicole di grande richiamo: “Via col vento” di Victor Fleming – vincitore di 8 Oscar – e “Ombre Rosse” di Ford, che ne ottiene 2. A rigore, il primo non sarebbe un western, bensì una “Civil War Story”, come un tempo venivano classificati i film imperniati sulla guerra di secessione americana, ma dopo l’apparizione di “L’ultimo dei Mohicani” di Maurice Tourneur e Clarence Brown nel 1920, era praticamente scomparsa la rigida suddivisione fra “Western Pictures” (storie di cowboy e banditi ambientate nell’Ovest) “Indian Pictures” (guerre contro i Pellirosse) “Old Frontier Stories” (film ambientati nella Vecchia Frontiera dal 1600 agli albori dell’Ottocento) e vicende legate al conflitto antischiavista.


Un fotogramma tratto da Ombre Rosse

Tipicamente western era invece “Stagecoach” di Ford, che nella versione italiana prese il titolo di “Ombre Rosse”. Pochi mesi prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale, il genere occupava ormai il 37 per cento dell’intera produzione cinematografica di Hollywood e il pubblico assisteva entusiasta alle sue proiezioni. “Via col vento”, costato 4 milioni di dollari, ne incassò 80 milioni alla sua prima uscita. Il film di Ford, che aveva richiesto un investimento di oltre 500.000 dollari, farà la parte del leone per decenni, diventando il simbolo stesso dell’intero genere. La formidabile ascesa del western registrerà una serie ininterrotta di successi con la fortunata trilogia militare di Ford (“Il massacro di Fort Apache”, “I cavalieri del Nord-Ovest” e “Rio Bravo”) e una grande affermazione di Howard Hawks con “Il Fiume Rosso”).
Nel 1952 apparvero sugli schermi almeno 4 film western degni di nota. Hawks bissò il proprio successo con “Il grande cielo”, tratto dall’opera omonima di A.B. Guthrie, immortalando l’epopea dei cacciatori di pellicce alle prese con gli Indiani ostili. L’austriaco Fritz Lang, geniale regista di “Metropolis” negli Anni Venti, propose “Rancho Notorius”, nel quale emergeva la figura di una donna (Marlene Dietrich) e Anthony Mann ricavava da un celebre romanzo di Bill Gulick (“Bend of the River”) il classico “Là dove scende il fiume” con James Stewart e Julia Adams. Lo stesso anno, un altro europeo di origine viennese diresse uno dei massimi capolavori dell’intera storia del western.


Una scena di Là dove scende il fiume

Agli inizi la casa di produzione United Artists era molto perplessa sulla sua scelta. Zinneman – Alfred Zinneman, nato a Vienna il 29 aprile 1907 – si era dimostrato regista di valore con “La settima croce”, destinatario di ben 9 Nomination e “Odissea tragica”, vincitore di un Oscar per il miglior soggetto, ma si trattava pur sempre di un Europeo di cultura austro-ungarica, che molti dubitavano potesse immedesimarsi nel contesto western al pari di Ford, Walsh e Hawks. Inoltre gli Stati Uniti stavano attraversando uno dei momenti più travagliati della loro storia, dopo l’insorgere del “maccartismo”, che Anna Eleanor Roosevelt, vedova del grande Franklin Delano, definirà senza mezzi termini “una vera e propria ondata di fascismo, la più violenta e dannosa che questo Paese abbia mai conosciuto.”
Le indagini condotte dalla famigerata commissione istituita da Joseph Mc Carthy, senatore repubblicano del Wisconsin, condurranno infatti alla rovina molti cineasti sospettati di simpatie filo-comuniste o attività anti-americane. Zinneman era dunque un tedesco e un ebreo e sebbene fu solo sfiorato direttamente dalla follia maccartista, sussisteva il sospetto che potesse essere un elemento nocivo alla tradizione del cinema americano. In effetti, alcuni suoi collaboratori – l’attore Gary Cooper e lo sceneggiatore Karl Foreman dovranno comparire davanti alla commissione e quest’ultimo sarà costretto ad espatriare – avrebbero avuto delle grane, mentre registi come John Ford, convinto democratico, sarebbero giunti a sfidare apertamente i maccartisti, attaccando perfino mostri sacri del calibro di De Mille.
Probabilmente vi era un ulteriore motivo per cui la scelta di Zinneman non era unanimemente condivisa. I registi della “scuola viennese” come lui – Erich Von Stroheim, Joseph Von Sternberg, Fritz Lang e Samuel Wilder, diventato noto come Billy Wilder – avevano lasciato un’impronta così marcata nella filmografia statunitense da rappresentare pietre miliari nella storia del cinema. Logico dunque che vi fosse una certa invidia che sconfinava nell’avversione, soprattutto quando uno di essi si accingeva a girare un western, l’emblema della cultura popolare americana. Tuttavia, superati dubbi e paranoie, il produttore Stanley Kramer si decise ad affidargli la regia, con un limitatissimo budget di 750.000 dollari.


La locandina del film

La vicenda trae origine dal cortometraggio “The Tin Star” di John W. Cunningham e Carl Foreman, che si incaricherà della sceneggiatura di “High Noon”. L’ambiente è la classica cittadina del West, Hadleyville, attraversata da due o tre polverose strade principali su cui si affacciano negozi e saloon, collocata in un’arida regione del New Mexico, ma già raggiunta dalla strada ferrata. Il canovaccio è abbastanza semplice e lineare: il fuorilegge Ben Miller attende, insieme ai due complici Colby e Pierce, il ritorno del fratello Frank, appena rilasciato dal carcere, per vendicarsi di Will Kane, che lo arrestò. Lo sceriffo – che in realtà è un marshal, cioè uno sceriffo cittadino, come campeggia nella scritta sopra il suo ufficio – si sta sposando in municipio con Amy Fowler, una ragazza quacchera dall’aspetto dolcissimo e all’apparenza ingenuo. Ricevuta a mezzo telegramma la notizia dell’imminente arrivo dei banditi e intuendone lo scopo, Kane si dà un gran daffare per mettere insieme una “posse” di volontari, ma viene piantato in asso dal proprio vice Harvey Pell e trova soltanto un ragazzo e un ubriacone disponibili a battersi per lui. Alla fine farà tutto da solo, con il solo aiuto della moglie che lo libererà da uno dei fuorilegge fulminandolo con una revolverata.
Anche la scelta degli attori dà origine ad accese discussioni.
Come protagonista è stato designato Gary Cooper, interprete di western dal 1925 e personaggio molto amato dal pubblico e dalle donne per la sua prestanza e capacità drammatica. Ha già recitato in pellicole di grande successo, quali “Beau Geste” di William A. Wellman nel 1939 e “Per chi suona la campana” di Sam Wood nel 1941, impersonando la figura del pacifista diventato eroe nazionale Alvin C. York (“Il sergente York”, di Howard Hawks, 1941). Sulla designazione di Cooper, cresciuto nel Montana pur essendo i genitori di origine inglese, i pareri sembrano unanimi, almeno finchè non viene decisa la sua partner femminile.
Per la parte della moglie si ricorre alla bellissima Grace Kelly, che ha esordito da meno di un anno con “La Quattordicesima Ora” di Henry Hathaway. Abbinare un rude mandriano come Cooper con l’eterea ragazza di Filaldelfia non costituisce il problema principale, anzi i due sembrano compensarsi alla perfezione, provenendo da mondi diversi. La questione è che la futura principessa di Monaco ha soltanto 22 anni, mentre Gary – nato come Frank James Cooper a Helena, Montana, il 7 maggio 1901- ne ha 51 suonati: non è vecchio per fare il poliziotto, ma come marito di quella giovane bellezza può apparire stonato. Tuttavia Zinneman insiste su questa coppia e la notevole differenza di età non sembra poi tanto stridente con la realtà dell’Ovest, dove uomini ultracinquantenni prendevano in moglie anche ragazze diciottenni. Superato questo possibile intoppo, la scelta dei personaggi di secondo piano e dei caratteristi è quanto di più azzeccato vi possa essere: raramente si ritroverà in futuro un cast tanto affidabile quanto quello stabilito da Zinneman.

La parte di Harvey Pell, vice-marshal di Kane, tocca a Lloyd Bridges, trentanovenne attore di teatro californiano – padre del più noto Jeff Bridges – che ha avuto una certa celebrità nella rappresentazione dell’Otello di Shakespeare a Broadway, prima della guerra. E’ un personaggio orgoglioso, introverso e arrogante, con la presunzione di saper far fronte ad una situazione che sicuramente non sarebbe in grado di gestire, come gli rammenta la sua stessa amante Helen Ramirez. L’avversione nei confronti di Kane scaturisce dalla sua ambizione, ma anche dal fatto che hanno amato la stessa donna – Helen – la messicana magistralmente interpretata da Katy Jurado, un’attrice i cui meriti sono stati lungamente sottovalutati dalla critica. Nata a Guadalajara nel 1924, María Cristina Estela Marcela Jurado García, non ha alle spalle una lunga carriera cinematografica e fino a quel momento ha ricoperto ruoli in film messicani e statunitensi di scarso peso. Nella parte della Ramirez, Katy si dimostrerà una grandissima interprete, ottenendo il Golden Globe nel 1954 come miglior attrice non protagonista.
Il sessantenne Thomas Mitchell – nei panni del sindaco Jonas Henderson – è l’indimenticato personaggio del medico ubriacone di “Ombre Rosse” e si adatta benissimo all’odioso politicante che dissuade la cittadinanza dal prestare soccorso a Kane. Percy Mettrick (Otto Kruger) che condannò Frank Miller alla prigione, fa una breve comparsa come il giudice codardo che se la svigna per salvare la pelle, così come altri ex collaboratori della giustizia preferiscono trincerarsi in casa mandando a dire dalle mogli di essere usciti.
Il ritratto di Hadleyville è quello di una città di vili opportunisti. L’aspettativa di tutti è che Will Kane venga ucciso dai quattro uomini armati che lo andranno a cercare, ai quali nessuno intende opporsi per non rischiare la propria pelle. Anche la coraggiosa Helen – che nonostante le sue origini messicane ha saputo crearsi una posizione economica invidiabile in una comunità di “Anglos” imbevuta di discriminazioni razziali – getterà la spugna salendo sul treno di mezzogiorno. Osservando la scena dal finestrino, comprende tuttavia che la timida, pulita ragazza quacchera dai capelli biondi e dalla pelle chiara – formidabile contrasto con il suo aspetto fisico di donna bruna dal passato equivoco – le ha dato una lezione scendendo precipitosamente dalla vettura per correre verso il marito in pericolo.
Ultima nota di rilievo, il fuorilegge Jack Colby è impersonato dall’allora ventisettenne Lee Van Cleef, che per molti anni sarà relegato, a dispetto della sua eccezionale bravura, in ruoli di caratterista, prima che Sergio Leone lo rilanci come il colonnello Douglas Mortimer in “Per qualche dollaro in più”, nel 1964.
La scena prende il via mentre le lancette dell’orologio segnano le 10,35 del mattino e terminerà quando saranno appena passate le 12, con una corrispondenza pressoché esatta alla durata effettiva del film di 85 minuti.
La resa dei conti finale di “Mezzogiorno di fuoco” obbedisce a regole logiche ed è ancora lontana dalla esasperata insistenza sulle immagini del duello introdotta più tardi dallo “spaghetti western”, ma già presente in alcuni film hollywoodiani. Kane riesce a prevalere grazie alla fortuna, perché uno dei banditi – Ben Miller – spacca una vetrina per rubare un cappellino da regalare ad una signora e l’uomo della legge viene messo in allarme dal rumore dei vetri infranti. La sua prima vittima sarà proprio il più giovane dei Miller e la seconda Colby, che si espone troppo per sparare e viene ucciso in un fienile. Il terzo fuorilegge, Jim Pierce (Robert J. Wilke) cade come si è detto sotto i colpi di Amy, che gli spara alle spalle da una finestra.
L’ultimo, il capobanda, tenta di trincerarsi dietro il corpo di quest’ultima da lui presa in ostaggio, ma la ribellione della donna che lo graffia sul viso finisce per esporlo ai micidiali colpi di Kane.
La conclusione è amara: la gente circonda il vincitore, il quale getta con disprezzo il distintivo nella polvere, lasciando poi per sempre la città insieme alla sua sposa. Il suo gesto è un durissimo atto di accusa contro la vigliaccheria di “una comunità che gli volta le spalle di fronte al pericolo e preferisce isolarlo come un ‘diverso’” (Aldo Viganò, “Storia del cinema western in 100 film”, Le Mani, Recco Genova, 1994, p. 84). Per non incorrere nelle ire dei maccartisti, Zinneman spiegherà di aver voluto rappresentare soltanto “il dramma di un uomo che lotta per i propri ideali” (Viganò, op. cit., p. 84) ma il significato che traspare dalla vicenda è ben diverso.
Un’intera città – dal giudice, al sindaco, al vicesceriffo, ad un ex tutore della legge, a quasi tutti i suoi abitanti – si è trincerata dietro i pretesti più diversi per non andare in soccorso del suo marshal minacciato da una banda di delinquenti. Chi lo ha fatto per paura, chi per invidia e chi per tornaconto personale, pensando che il ritorno di Frank Miller frutterà nuovi affari in un paese che Will Kane ha eccessivamente addomesticato valendosi del potere della sua stella di latta. Neppure Helen Ramirez – praticamente l’unica componente erotica del film – salva la propria immagine dal naufragio morale della collettività: aveva pesantemente ironizzato sulla paura di Amy per gli spari, ma alla fine se ne va, temendo anch’essa delle vendette. Il disprezzo che prova per il suo amante del momento – Harvey Pell – e il rimpianto per Kane, con il quale ha avuto una precedente relazione, non sono elementi sufficienti a fornirle una motivazione credibile.

Come c’era da aspettarsi, persecuzioni maccartiste a parte, il film si espose a durissime contestazioni, per avere mostrato la vigliaccheria di fondo della gente, il cui desiderio di evitare guai è prevalente su qualsiasi altro sentimento umano. E’ la crudele indifferenza di chi che non ha più nulla da conquistare, né autentici valori da difendere; l’ardito pionierismo dei padri sta lasciando il posto ad una società appagata che anticipa il declino della Frontiera e dei suoi modelli etici. Arthur Penn ne spingerà il degrado alle estreme conseguenze nel film “La caccia”, del 1966, nel quale ancora una volta uno sceriffo (Marlon Brando) si ritrova completamente solo davanti ad una collettività di assatanati giustizialisti. In maniera più sottile, senza esternare conflitti cruenti, Peter Bogdanovich riproporrà un analogo tema nel suo capolavoro “L’ultimo spettacolo” nel 1971, mostrando il tramonto della parabola del West pacificato e lo smarrimento di una generazione priva di veri ideali.
L’attore John Wayne bollò “Mezzogiorno di fuoco” come “La cosa più antiamericana che io abbia mai visto in vita mia”: interpreterà nel 1959, sotto la direzione di Howard Hawks, “Un dollaro d’onore”, film concepito come reazione al lavoro di Zinneman. Alle stroncature del conservatorismo americano si aggiungerà anche la condanna sovietica, ma per motivi diversi, in quanto la vicenda è impostata sul “culto della personalità” e la parte del suo protagonista costituisce una esaltazione dell’individualismo.
Nonostante ciò, il film ottiene grandi e meritati riconoscimenti. Nel 1953 gli vengono conferiti 4 Oscar: Gary Cooper lo ottiene come miglior attore protagonista, Elmo Williams e Harry W. Gerstad per il miglior montaggio, il compositore Dimitri Tiomkin per la colonna sonora, Ned Washington insieme a Tiomkin per la miglior canzone, “Do Not Forsake Me, Oh My Darling”, cantata da Frankie Lane, oltre a 3 Nomination (Stanley Kramer per la miglior produzione, Zinneman per la regia e Foreman per la sceneggiatura). “Mezzogiorno di fuoco” conquista anche 4 Golden Globe, assegnati rispettivamente a Gary Cooper (attore protagonista) Katy Jurado (miglior attrice non protagonista) Floyd Crosby (fotografia) e Dimitri Tiomkin (colonna sonora). Nel 1998 l’American Film Institute ha inserito la pellicola al 33° posto fra i 100 migliori film americani di tutti i tempi.


Un’altra locandina del film

“Mezzogiorno di fuoco” è una capolavoro destinato non solo a rimanere nella storia come tale, ma anche a fare scuola. Alcune delle sue scene – come per esempio l’attesa del treno alla stazione di Hadleyville – sono diventate talmente tradizionali da essere ripetute in diverse pellicole di successo. “Quel treno per Yuma” di Delmer Daves (1957) insiste sul medesimo tema, “L’uomo che uccise Liberty Valance” di John Ford (1962) si apre con l’immagine dei binari su cui è in arrivo un convoglio proveniente dall’Est. “C’era una volta il West” di Sergio Leone (1968) comincia e finisce con l’inquadratura della ferrovia in avanzata fase di costruzione. Nella sequenza iniziale, tre fuorilegge attendono alla stazione di Sweetwater l’arrivo di un pistolero (Charles Bronson) che li eliminerà in una sparatoria. L’assunto della codardia delle persone formerà la trama di diversi altri film western, fra i quali il discusso “Cordura” di Robert Rossen (1959) nel quale lo stesso Cooper interpreta un ufficiale di cavalleria piantato in asso dai suoi uomini. Il modello dell’uomo lasciato solo davanti al pericolo da una collettività inetta trova invece un’evoluzione positiva nell’avvento sugli schermi dell’eroe solitario – “Il cavaliere della valle solitaria” di George Stevens (1953) – che lotta per difendere comunità inermi dalle prepotenze altrui, un personaggio anarcoide e asociale che tuttavia non sconfina nell’eccesso di disprezzare il simbolo della legge: terminato il suo compito, si eclissa come “Il cavaliere pallido” di Clint Eastwood (1985) senza lasciare traccia di sé, lasciandosi dietro – anziché una città da dimenticare – una scia d’amore e di rimpianti.