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I cavalieri del west, la favola eterna

A cura di Domenico Rizzi

Abbiamo portato a termine quest’ultima fatica, Andrea Bosco ed io, per rendere un omaggio a Tullio Kezich, ma anche per dimostrare che l’eterna favola del West non è mai tramontata. Ho usato il termine “favola” per indicare qualcosa che sarà sempre letto con la perplessità di chi si chieda quanto vi sia di vero nelle ormai sfruttate biografie sui personaggi della Frontiera americana. Ma “I cavalieri del West” racconta soprattutto storie vere, servendosi del paragone cinematografico per verificare le distorsioni prodotte dalla fantasia dei registi e degli sceneggiatori nell’arco di oltre un secolo.
Per comprendere a fondo questo libro, è dunque necessario leggere attentamente la parte storica, confrontandola poi con quella portata sugli schermi dai cineasti.
Lo scarto è certamente notevolissimo, il Custer della storia è abissalmente diverso dalle figure proposte in varie epoche da Raoul Walsh, Robert Siodmak o Arthur Penn, le biografie di Kit Carson e Buffalo Bill sono state praticamente inventate dal cinema. La battaglia che vide protagonista Custer è sempre stata trattata in maniera semplicistica quanto improbabile dalla macchina da presa, riscontrandosi una vaga attinenza con la realtà, almeno per quanto concerne la dinamica dello scontro, soltanto in “Il piccolo grande uomo” di Penn. Spostando il discorso su Cavallo Pazzo, Toro Seduto o Geronimo, che figurano in altrettanti capitoli del libro, la tendenza non è mutata.
Più difficile invece individuare una separazione netta fra il Davy Crockett della realtà e quello leggendario: la sua figura giganteggia a tal punto sulle scene della Frontiera selvaggia, che non sembrano esagerate né l’interpretazione di John Wayne (“La battaglia di Alamo”, 1960) né quella più moderna di Billy Bob Thornton nel film di John Lee Hancock (“The Alamo”, 2004). Nella prima pellicola, come ricorda nel testo Andrea Bosco, Wayne “ambisce a educare lo spettatore” perché, pur non avendo mire politiche “non rinunciava a far pesare le sue opinioni verso una classe che indistintamente in quella stagione – democratici e repubblicani – lo deludeva.”
Davy Crockett
Nel secondo lavoro il risultato, “nonostante le iniziali ambizioni” appare molto più “modesto” e l’unica vera innovazione di questo film “senza passione” rispetto a quello diretto da Wayne è che l’attore Thornton dovette prendere lezioni di violino per assomigliare maggiormente a Crockett. Il sostanziale “fiasco” commerciale di Hancock è dovuto anche all’impossibilità di demolire una figura granitica come quella dell’eroe del Tennessee. Sebbene tacciato di opportunismo o tradimento da certa critica recente, l’immagine di Crockett rimane l’emblema dell’America proiettata verso il West. Nessuno ha affrontato gli Indiani delle foreste con la sua audacia, nessuno ha osato criticare i politici quanto lui, pochi hanno saputo sacrificare la propria vita come egli fece ad Alamo. Non esagerava dunque quando, parlando alla folla durante una campagna elettorale, sostenne: “In tempi di grande fermento politico come quelli correnti, vi conviene essere ben rappresentati ed io non esito a propormi come vostro candidato…”
Uno dei punti centrali della trattazione rimane senz’altro la questione di Custer, il condottiero militare più discusso dell’intera storia degli Stati Uniti. Ricostruendo con dovizia di particolari la sua marcia di avvicinamento al Little Big Horn, ho dato ampio risalto alle opinioni ed alle valutazioni di chi condivise con lui l’ultimo atto della tragedia. Senza timore di essere smentito, perché ne ho elencato le motivazioni, ho ribadito, come già in altre mie pubblicazioni, l’insussistenza di “valutazioni aprioristiche e parziali, che hanno avuto un’influenza decisiva sulla letteratura e sul cinema” affermando ancora una volta, senza mezzi termini che “Custer agì come avrebbe dovuto fare qualsiasi buon ufficiale e soltanto la mancata simultaneità della manovra dei suoi reparti…mandò in fumo i suoi progetti.” Valutazione del resto contenuta esplicitamente sia nelle parole del generale Sherman – “Una volta scoperto il grande villaggio indiano, non aveva altra scelta che attaccarlo” – che in quelle del capo sioux Re Corvo. Quest’ultimo dichiarò infatti che se il contingente del maggiore Reno si fosse battuto con lo stesso ardore degli uomini di Custer, i soldati avrebbero vinto la battaglia. Per questo e per altri motivi spiegati nel libro, la lunga opera di demolizione del personaggio Custer, che ha creato “l’immagine di un uomo smodatamente ambizioso…e acerrimo nemico dei Pellirosse” si riduce ad “una verità dettata dal conformismo di chi non ha mai saputo accostarsi alla storia senza preconcetti.”
Altrettanto inaccettabili i resoconti delle perdite fornite dai Pellirosse e avallati per anni come credibili da parecchi storici: Little Big Horn fu il maggior successo campale ottenuto dai Pellirosse contro l’esercito americano, ma costò tante perdite – ho ipotizzato fino a 400 fra morti e feriti – da trasformarlo in una vittoria di Pirro. Il cinema, soprattutto nella metafora di John Ford (“Il massacro di Fort Apache”, 1948) accolse la tesi della colpevolezza del generale, sulla quale il revisionismo, che intendeva assumere le difese degli Indiani, andò a nozze.


L’assalto finale al Little Big Horn

Tuttavia, lo stesso Ford – come evidenzia Bosco nella parte cinematografica – ha nei confronti del personaggio Custer, rappresentato dal colonnello Thursday, “un atteggiamento ambivalente. Ne denuncia le manchevolezze che portano alla sconfitta e alla morte dei suoi uomini. Ma lo salva. L’uomo è ottuso, ma non vile. E insieme a uno spiccato senso dell’autorità, ha anche quello dell’onore.”
Mentre mi accingevo a scrivere quest’opera, che ha richiesto a me e ad Andrea un notevole impegno, mi sono chiesto più volte quanto vi sia stato di vero nell’intera produzione western dal 1903 ad oggi, che Bosco ha minuziosamente documentato per ciascun argomento, fornendo il proprio commento anche le pellicole meno conosciute.
La risposta è che, per quanto ampiamente basata su invenzioni, interpretazioni fantasiose e travisamenti storiografici, l’enorme importanza del cinema di Hollywood non può essere sminuita. Sui testi scolastici in uso negli Stati Uniti e su molti libri di storia americana diffusi anche in Europa e in Italia, la conquista del West viene contenuta in una cinquantina di righe: io stesso ne ebbi una prova molti anni fa, frequentando durante il periodo universitario un gruppo di studenti statunitensi provenienti dagli Stati dell’Ovest. I miei racconti sulle imprese di Buffalo Bill, di Cavallo Pazzo o della battaglia del Little Big Horn, costituivano per molti di loro un’assoluta novità, poiché conoscevano quella storia principalmente attraverso la filmografia western. Ecco dunque l’importanza della letteratura – James Fenimore Cooper e Owen Wister, per esempio – del fumetto, ma soprattutto del cinema, che ha diffuso in tutto il mondo il fascino delle guerre indiane, delle prodezze di Kit Carson, dei duelli di Wild Bill Hickok e Wyatt Earp e delle imprese criminose dei Clanton o di Billy il Kid.
Il regista John Ford, che non era affatto digiuno di storia come a volte lasciava intendere, debordò quasi sempre dal percorso reale degli eventi – basti pensare a “Sfida infernale” e “Il grande sentiero”, che di storico non hanno quasi nulla – ma ebbe l’immenso pregio di farne conoscere i protagonisti, a volte in veste caricaturale come lo sceriffo Wyatt Earp de “Il grande sentiero”, al mondo intero. Senza la finzione cinematografica e le sue infinite elaborazioni dovute, oltre che a Ford, a Walsh, a Hawks, a Robert Aldrich o a Sam Peckinpah, nessuno oggi saprebbe nulla di questo periodo della storia americana, da molti considerato neutro in quanto privo di grandi avvenimenti militari come la Guerra Civile o la spedizione di Cuba. Fu dunque la fiction, nelle sue molteplici forme, ad avvicinare il pubblico alla storia del West. Prova ne è il fatto che la conquista delle Americhe ha partorito il western in USA, mentre non esistono analoghi filoni di diffusione mondiale nei Paesi del Centro e Sud America, sebbene la loro storia presenti aspetti – città di frontiera, corse all’oro, emigrazioni in massa, banditismo, sterminio dei nativi – del tutto simili a quelli che ispirarono il genere statunitense. La spiegazione risiede ovviamente nella mecca del cinema chiamata Hollywood, attiva fin dai primissimi anni del Novecento.
Tuttavia il dovere dello storico è di ricondurre le vicende alla loro dimensione reale e spesso questa operazione richiede il sacrificio dell’immagine creata dal cinema e dalla letteratura. Per questo, “I cavalieri del West” mostra un Buffalo Bill con tutte le sue debolezze caratteriali e un Geronimo impegnato in una lotta che di patriottico ha ben poco, ma sembra piuttosto finalizzata ad una inesauribile vendetta personale contro i Messicani. Per contro, Jesse James e gli Younger appaiono ancora una volta come i figli della leggenda che li ha sempre circondati e Billy il Kid trova ampie giustificazioni – sebbene lontane dall’assoluzione – da parte di chi lo conobbe da vicino, come Pat Garrett e la suora italiana Blandina Maria Segale.
Kit Carson
“I cavalieri del West” contiene due capitoli dedicati alle donne: l’uno imperniato sulla figura dell’immancabile Calamity Jane, l’altro sulle scapestrate fuorilegge Belle Starr, Laura Bullion, le sorelle Bassett, Etta Place, Little Britches, Cattle Annie. Ma la presenza femminile si estende anche alla misteriosa amante di Cavallo Pazzo (Donna di Bisonte Nero) alla giovane indiana Monahseetah che ebbe una relazione segreta con Custer e alla paziente Louisa Frederici che sopportò le continue intemperanze e le umilianti infedeltà di Buffalo Bill, considerato un dongiovanni impenitente. Per quanto sembri strano, le donne della Frontiera rivestirono un’importanza maggiore di quella attribuita loro dal cinema, almeno fino agli Anni Quaranta.
Solitamente i libri riguardanti il vecchio West si concludono con l’immagine della tragedia di Wounded Knee o della morte di Geronimo, avvenuta nel 1909. Lo storico Frederick Jackson Turner (1861-1932) nel suo saggio “The Significance of the Frontier in American History” chiuse ufficialmente il periodo della Frontiera nel 1893. “I cavalieri del West” si spinge oltre, dilatandone la sopravvivenza fino agli anni della Grande Depressione con l’inserimento nella sua lunga galleria di personaggi anche Bonnie Parker e Clyde Barrow. Non si tratta di una forzatura, ma di una visione più elastica, basata su riscontri che Turner non poteva avere ai suoi tempi.
Ho parlato in altri articoli, soprattutto dal punto di vista cinematografico, di una Quarta Frontiera del West, capace di conservare per decenni lo spirito dei suoi pionieri, degli Indiani confinati nelle riserve, dei fuorilegge sopravvissuti alla dura repressione attuata dalle forze dell’ordine. In definitiva, il marshal Billy Tilghman venne assassinato nel 1924 e gli ultimi Apache deposero le armi nel 1930, senza contare che nel 1935 si parlava ancora di Custer e del Little Big Horn come di un evento relativamente recente. Si vociferava anche che Butch Cassidy e Billy il Kid fossero ancora vivi e vegeti, nascosti sotto false identità.
L’accostamento della coppia di fuorilegge alle figure di Jesse James e della sua banda non è casuale, bensì il prodotto di un clima economico-sociale creatosi dopo il crollo in borsa di Wall Street nel 1929, che generò miseria e disperazione fra le classi meno abbienti com’era accaduto al termine della Guerra Civile. Per molta gente rovinata dalla crisi, gli assalti alle banche compiuti da Bonnie e Clyde assunsero infatti il medesimo significato delle gesta del “Robin Hood del Missouri”, di una lotta contro il capitale e i suoi capisaldi, rappresentati dalle banche.
Riassumendo, “I cavalieri del West” non è soltanto lo studio appassionato di due cultori della intramontabile epopea del West. Contiene anche un’analisi critica degli eventi e dei personaggi, evidenziando le enormi divergenze che li separano dalla leggenda. Il libro, come scrivono i suoi due autori, “si propone di fare chiarezza sul lato oscuro di personaggi garantiti…da ambienti dove per troppo tempo, a scapito della verità, a ‘vincere’ fu sistematicamente la leggenda” verificando “le infinite manipolazioni hollywoodiane nei riguardi della realtà storica” e “scoprendo come il cinema, benché non abbia nessun obbligo di tutelare la Storia, a volte sui sentieri del West abbia deliberatamente – e senza pudore – smarrito la pista.”
L’obiettivo che ha guidato il lavoro di Bosco e Rizzi è stato quello di ricercare la verità in un mare di luoghi comuni, di falsi resoconti, di ripetizioni e di improbabili ricostruzioni storiche che il cinema ha lungamente romanzato.
Il prodotto, crediamo, ha ampiamente ricompensato gli sforzi dei suoi autori.