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I trapper ed i “rendezvous”

A cura di Gualtiero Fabbri

Sui leggendari “trapper” o mountain men americani del primo ottocento si può trovare scritto: “Questo era il modo di vivere libero e semplice, in cui l’uomo aveva tutto il proprio tempo a disposizione, e (non vi era) nessuno che potesse negarglielo. Acquistava così un corpo che sentiva familiare ogni cosa che gli era attorno, la terra e il cielo, il bufalo e il castoro e la gialla luna di notte. Era meglio che essere circondato da mura, meglio che respirare aria viziata, o sentirsi come un topo in gabbia…”
Meno disincantato e per nulla “new-age” quest’altro parere: “Costantemente esposti a pericoli di ogni genere, non conoscono la paura, e considerano la vita umana alla stregua di quella animale e non si fanno scrupoli nel por fine ad entrambe, così come non esitano a mettere a repentaglio la propria.”
Delle leggi, siano esse umane o divine, non sanno nulla e non si curano di conoscerle. La loro unica legge è il desiderio che li muove e per soddisfarlo non si preoccupano dei modi e dei mezzi. Amici fidati e nemici acerrimi, il loro motto è: “Prima spara, poi parla”.
Se hanno buone qualità, allora sono quelle di un animale, e coloro che amano le definizioni impietose li definiscono vendicativi, assetati di sangue, ubriaconi, irrispettosi della proprietà e a tutti gli effetti li considerano “indiani dalla pelle bianca”.


Il ritratto di un mountain man

Ma non tutti erano così: “…Tuttavia ci sono delle eccezioni e noi abbiamo incontrato onesti uomini di montagna. Le loro qualità animali, però, sono innegabili. Forti, instancabili, robusti come orsi, audaci, esperti nell’uso delle armi, sono esattamente come sarebbero gli uomini bianchi non civilizzati e allo stato barbaro, costretti a fare affidamento solamente sul loro istinto di sopravvivenza. La maggior parte dei cacciatori di pelli e dei cacciatori di montagna sono franco-canadesi e creoli francesi di St Louis.”
Un’altra descrizione: “…Scopo principale della loro attività era il denaro, guadagnato con la cattura di pelli, di ottima qualità, da vendere sui redditizi mercati dell’est.”
Alcuni di loro disponevano di trappole proprie, ma la maggior parte praticava lo scambio di oggetti più eterogenei con le tribù locali in cambio di pelli conciate. La loro esistenza era solitaria e pericolosa, e spesso incontravano la morte.
La tenuta tipica del trapper
Se gli indiani, infatti, costituivano una minaccia costante, incidenti e malattie ne uccidevano un numero assai maggiore.
Per esempio, la rottura di una gamba o una ferita in cancrena provocavano una morte lenta e solitaria nelle montagne, anche se la dissenteria delle pianure era una causa di morte molto più frequente.
I momenti più importanti e gradevoli della loro esistenza erano i “rendezvous annuali”.
Di questi rudi personaggi si è fatto quasi un mito, ma in realtà essi erano, quasi senza eccezioni, persone sporche e ripugnanti, con scarsa pratica dell’igiene personale.
Le difficoltà, specialmente per quelli solitari, erano scoraggianti: in estate erano arsi dal caldo, in inverno gelavano per il freddo e la neve.
Si narra di mountain men che bevvero sangue per restare in vita, e di molti che nelle notti di gelo, uccidevano un animale, lo aprivano e vi entravano dentro per scaldarsi al calore…”
Noi sedentari del XXI secolo, però, ammiriamo segretamente questi uomini, e la vita che vollero scegliersi.
Armati con le loro lunghe carabine a pietra focaia qualche pistola, sempre funzionante a pietra, un coltello, un tomahawk, un acciarino, cinque trappole e poco altro, i mountain men erano la quintessenza dell’arte di arrangiarsi e di sopravvivere.


Un moderno rendezvous

Per sete di guadagno o per scelta di vita si inoltrarono nelle ostili e inesplorate regioni dell’Ovest Americano, regno di bellicosi nativi e dell’orso grizzly, la tecnologia di allora non forniva loro, ancora, supporti adeguati ed erano in forte svantaggio rispetto ai padroni di quei luoghi, la loro mortalità fu altissima, ma i sopravvissuti acquisirono pratica e col tempo divennero anche loro una parte “dell’ambiente”, e alla fine consapevoli, o meno, dettero un contributo fondamentale alla conoscenza del territorio aprendolo alla marea di emigranti che dalla vecchia Europa si riversava nel Nuovo Mondo in cerca di opportunità (spesso della pura e semplice sopravvivenza).
Crediamo che il lato veramente affascinante e “romantico” (lo mettiamo virgolette) di questa vita fosse invece quello delle esplorazioni; spesso le Compagnie delle pellicce organizzavano e finanziavano spedizioni nelle zone deserte delle Rocky Mountain, verso la California e l’Oregon, alla ricerca di invasi e zone ricche di caccia e questi gruppi erano sempre formati da esperti trapper.


A volte i mountain men creavano famiglie con i Nativi

“Jed” Smith ne fece una famosa, durata due anni, tra luoghi e popolazioni sconosciute; durante questi viaggi, i trapper cacciavano, quando potevano, ma soprattutto osservavano e cercavano, bacini fluviali, passaggi, riferimenti o altro.

I rendezvous

Nella prima metà dell’ottocento ad ogni estate, ai piedi delle Montagne rocciose si tenevano i grandi rendezvous, appuntamenti dove si incontravano i trapper e i commercianti, e nei quali venivano scambiate le pelli pregiate con i rifornimenti per la successiva stagione di caccia, con beni voluttuari e con denaro, anche se quest’ultimo spesso restava nelle tasche dei cacciatori giusto il tempo della grande kermesse… I rendezvous, che erano stati concepiti come una “piazza” per rifornire i cacciatori e ritirare le pellicce, non potevano, poi, non trasformarsi in una grande festa.
In esplorazione con cavallo e muli
I generi alimentari, (tra cui gli alcolici, sempre richiestissimi), la mercanzia, le novità e le notizie dal mondo civile, i vecchi giornali, la presenza di una moltitudine di nativi – da cui si poteva acquistare una “moglie” per un periodo variabile di tempo -, il ritrovare vecchie conoscenze e magari, anche solo il poter parlare la propria lingua dopo mesi passati a discorrere col proprio cane, o cavallo, o mulo rendevano gli appuntamenti un evento memorabile durante il quale si svolgevano gare di corsa, di tiro, si giocava e si scommetteva, si ballava, si scherzava; restano memorabili gli improbabili racconti dei cacciatori attorno al fuoco, dove, complice l’acqua di fuoco, si faceva a gara a chi la sparava più grossa.
Durante il rendezvous i commercianti organizzavano quello per l’anno successivo, veniva stabilita una data, prescelta una località, che doveva essere pianeggiante, che potesse contenere almeno gli accampamenti di cinquecento e più cacciatori, oltre a diverse migliaia di nativi. La presenza di indiani delle tribù Shoshone (Snake), Crow, Nez Perce e Flathead, è stata quasi sempre una costante di questi appuntamenti. Il sito doveva poi risultare facilmente accessibile, servito da piste percorribili da carri ed era indispensabile che potesse dare acqua e nutrimento ad una grande quantità di bestiame.
I vari accampamenti allestiti con i gruppi di carri e tende dai commercianti – che fungevano da bottega – si dislocavano in una zona molto ampia e a volte a distanza di chilometri e i cacciatori si spostavano da un posto all’altro, incominciando la baldoria ogni volta come se fosse la prima!
Alla luce di questo, non si può, oggi, stabilire, e dire con certezza il punto esatto dove avvennero gli incontri, ma indicare, al massimo, una zona vasta diversi chilometri all’interno della quale si svolse ogni rendezvous.


Una vignetta ironica sulla vita dei trapper

Il rendezvous però non fu mai un evento casuale ma fu pianificato per una precisa esigenza commerciale e si svolse un determinato numero di volte.
L’inventore e promotore del primo ritrovo fu il Generale William Henry Ashley, che assieme al socio, Maggiore Andrew Henry, aveva fondato nel 1823 una Compagnia di Cacciatori, che in seguito diventerà la Rocky Mountain Fur Company, con l’intento di sfruttare la caccia al castoro nei ricchi bacini delle Montagne Rocciose.
Nei primi tempi la Compagnia, come le altre, si limitò all’acquisto di pelli cacciate dai nativi, ma questo sistema, causa l’incertezza del “raccolto”, era valido solamente se si avevano dei punti stabili e permanenti sul territorio come riferimento, questo ovviamente comportava alti costi di gestione.
La compagnia Ashley-Henry, nel 1822, pubblicò su un giornale di St Louis, il Missouri Republican, una storica inserzione con cui cercava di ingaggiare 100 giovani intraprendenti per le spedizioni di caccia.


La mappa dei rendezvous

Al contrario delle altre, questa Compagnia non costruì mai punti di scambio stabili, né forti commerciali in posizioni strategiche di passaggio, la sua scelta fu quella di ingaggiare cacciatori i quali potevano optare per uno stipendio fisso oppure restare liberi, avere trappole e materiale in prestito e impegnarsi a consegnare il frutto della caccia alla Compagnia, la quale prefissava i prezzi; in questo modo il trapper non aveva “padroni”, non necessitava di un gruzzolo per iniziare l’attività, e comunque poteva sapere in anticipo quanto gli avrebbe reso la caccia.
I rendezvous si resero allora necessari per raccogliere sul posto le pelli, pagare quanto spettava e rifornire i trapper dell’occorrente per la successiva stagione di caccia.


Lunga colonna di trapper diretti al rendezvous

Questo sistema aveva l’ulteriore vantaggio di attirare anche numerose bande di nativi che andavano a scambiare le loro pelli agli appuntamenti.
I tentativi di trasportare le pellicce e le merci lungo il Missouri erano miseramente falliti nei due anni precedenti; infatti, risalire la corrente tirando i battelli a forza di braccia, le piene insidiose che causavano ripetuti naufragi, ma anche i minacciosi villaggi Mandan e Arikara sul grande fiume erano ostacoli insuperabili per molte spedizioni di allora.
Ashley decise che per l’anno 1825 la merce dovesse essere trasportata attraverso i valichi direttamente in prossimità dei territori di caccia.
Fra i trapper che lavorarono e cacciarono per questa compagnia vi sono i nomi di grandissimi protagonisti di quel periodo della frontiera, persone che oltre che a cacciare, esplorarono luoghi sconosciuti fino ad allora e percorrendo nuove piste aprirono la strada alle future migrazioni dei pionieri. Possiamo citare la scoperta (a dire il vero, la riscoperta) da parte di Jedediah “Jed” Smith, uno degli uomini di Ashley, del South Pass, un valico accessibile alle carovane che permetteva di superare lo Spartiacque Continentale tra est e ovest.


Le pelli venivano stoccate al riparo di palizzate

Si può affermare che fu proprio la scoperta del South Pass che indusse Ashley ad organizzare il primo grande rendezvous della storia del West.
Oltre al leggendario Jed Smith fecero parte della compagnia nomi del calibro di William e Milton Soublette, James Beckwourth (un ex schiavo afro-americano, scopritore del Beckwourth Pass nella Sierra Nevada), Tom Fitzpatrick (era con Smith al South Pass e anche il giorno della sua morte), David Jackson, divenuto in seguito uno dei proprietari della società, Jim Bridger, un nome conosciuto da tutti gli appassionati di quest’epoca, Joe Meek, che sarà uno dei fondatori dello Stato dell’Oregon, Robert “Doc” Newell (che si guadagnò il soprannome eseguendo abili operazioni chirurgiche sulla frontiera senza mai aver studiato medicina, e fu il primo americano a portare un carro nella Willamette Valley attraverso l’Oregon Trail), George Ebbert, passato poi, come molti altri alla concorrente Hudson’s Bay Company, in seguito fu con Meek uno dei fondatori dell’Oregon, James Clyman, che ha lasciato diari e appunti su quel periodo, Hugh Glass, autore di un’epica marcia di sopravvivenza già descritta nel forum, Moses “Black” Harris che divenne una famosa guida. Anche il battelliere Mike Fink pare abbia fatto parte della compagnia di Ashley; Fink potrebbe però essere un personaggio di fantasia come “Pecos Bill”, o nella misura in cui lo divenne in seguito il vero Davy Crockett… Fink impersona il prototipo del battelliere impavido e spaccone che nell’ottocento sfidava i grandi fiumi americani.


La vita animata dei rendezvous

Abbiamo lasciato per ultimo un personaggio che all’Est era già una leggenda vivente quando ancora guidava spedizioni verso l’ignoto: Kit Carson! Durante il Rendezvous del 1835, Carson fu protagonista di un epico duello, il cui racconto in varie versioni è arrivato sino a noi.
Per ogni trapper, il cavallo e i muli erano un accessorio indispensabile nella sua attività; i “pack” di pellicce pesavano un centinaio di libbre ciascuna e sul mulo ne venivano caricate due, una per lato.
In caso di perdita degli animali da trasporto, il trapper doveva scavare una “cache” (una buca da nascondere dopo averla protetta bene dalle intemperie) e riporvi le pelli, nascondere l’ingresso e memorizzare la posizione in attesa di poterle recuperare con un mezzo di trasporto.
Il rapporto del mountain man con la propria cavalcatura, se pure era molto stretto, non era esattamente come quello che si instaura oggigiorno tra i moderni cavalieri e il proprio animale; il cavallo per loro non era un amico fidato o un animale domestico, ma un attrezzo da lavoro e “di consumo”.


L’arrivo al rendezvous con un carico di pellicce

Tra gli animali dei trapper le perdite erano molto alte, a causa di un loro utilizzo stressante, portato spesso al limite estremo; ma anche a causa delle insidie del terreno, le cadute e le ferite degli animali erano all’ordine del giorno e il cavallo non era certo il mezzo ideale per aggirarsi in quei luoghi, anche se era assolutamente indispensabile.
Una brigata, se non era in caccia e si stava spostando, poteva percorrere anche 25-30 miglia al giorno se non vi erano ostacoli; più spesso, però, si viaggiava tra macchie o boschi, a volte attraverso distese di tronchi abbattuti, oppure su ripidi crinali rocciosi, si attraversavano torrenti infidi e sconosciuti… in questi casi la distanza coperta si riduceva a poche miglia.
Gli incidenti ai cavalli erano talmente abituali che quando non se ne verificavano erano una novità da rimarcare. Nel diario del mountain man Harrison Rogers, al 2 luglio 1829 è annotato: “Oggi non è avvenuto alcun incidente riguardante i cavalli”.
Un trapper in movimento
Gli incidenti in quella dura vita erano all’ordine del giorno; spesso succedeva che per qualche imprevisto, come la comparsa di un gruppo di nativi, il trapper fosse costretto ad abbandonare tutto l’equipaggiamento per mettersi in salvo. Quelli che riuscivano a rientrare vivi e vegeti – e ci furono casi in cui agli sfortunati mancavano perfino coperta e coltello – dovevano poi riequipaggiarsi a credito dai mercanti, diventando di fatto dei dipendenti della compagnia creditrice.
La “carriera” del trapper, con le dovute eccezioni, non fu mai lunga; tra i sopravvissuti, alcuni (pochi) riuscirono a mettere da parte un gruzzolo, altri si “riciclarono” come mercanti e continuarono a rifornire i nuovi cacciatori. Esaurite le pellicce di castoro sulle Montagne Rocciose, alcuni, incapaci di un’altra vita, si spostarono verso il Nord-Ovest. Altri divennero scout dell’esercito o di spedizioni private, o anche guide delle carovane di emigranti, verso quelle terre che avevano contribuito ad identificare e descrivere.
Altri semplicemente dissero: basta!
Chiudiamo con le parole di colui che fu definito il primo Trapper, e che sono già state riportate nell’articolo che lo riguarda, John Colter, dopo cinque anni di montagna e l’ennesimo attacco dei Blackfoot: “Se Dio mi lascerà un attimo di respiro, domani partirò subito e che io sia dannato se rimetterò ancora piede in questi posti!”