La disfatta di Custer e la paternità delle colpe

143° anniversario della battaglia di Little Big Horn (25-06-1876/25-06-2019)
Un ritratto del Generale
Sul Generale Custer e sulla clamorosa disfatta al Little Big Horn in cui egli stesso perse la vita insieme ai suoi soldati si è sempre ragionato in termini quanto mai diversi.
Vi è la nutrita schiera dei fan che sostiene che la sconfitta del 7° Cavalleria sia stata solo un episodio sfortunato in cui un parte delle colpe sono da attribuirsi ad altri; ma vi è anche la nutrita schiera che ha lavorato lungamente per dimostrare che quel giorno gli indiani seppero essere tatticamente superiori e ben più determinati. E su questo, le discussioni non si concluderanno mai, per via della completa assenza di testimoni diretti degli eventi. D’altra parte, quando ti incammini sulle colline che guardano verso il Little Big Horn puoi capire perché il generale Custer è andato incontro alla morte.
La visuale non è completa, una parte della vallata sottostante resta un po’ nascosta.
Ed è lì dietro che si erano radunati migliaia di indiani, raccolti come in un gigantesco bivacco sul fiume. Il paesaggio non ha i colori forti del Sud, quelli tramandati dai film alla John Ford. Niente sabbia o pinnacoli di roccia rossa. Ma una distesa d’erba cotta dal sole, macchie di vegetazione e una serie di alture che seguono il corso del Little Big Horn. È un paesaggio tranquillo. Eppure in questa località del Montana si è combattuta una battaglia che non ha smesso di far litigare i paladini di Custer e i suoi detrattori. Per i primi il generale si è comportato in modo coraggioso e professionale, per i secondi ha invece portato al massacro oltre 200 uomini solo perché era «in cerca di gloria».


Custer ed i suoi soldati

L’eterna scaramuccia, simile a quelle che si combattevano lungo la frontiera, l’ha accesa la tesi della difesa: Custer è incolpevole del disastro, ha agito rispettando le consegne i veri responsabili furono il maggiore Reno e il capitano Benteen. La loro responsabilità fu quella di non aver coperto – per paura? Incompetenza? – la solitaria e per certi versi azzardata progressione di Custer. Nel rilanciare la storia si dice che molti che amano il West non vogliono più sentire parlare di Custer, equiparato a un pazzo sconsiderato che avrebbe dovuto attendere i rinforzi prima di procedere verso le posizioni nemiche. Al tempo stesso, però, si dice che sono ancora di più quelli che continuano ad appassionarsi alla saga dell’ufficiale dai «lunghi capelli» che in maniera scriteriata avrebbe condotto i suoi al disastro.
In base alle ricerche condotte, con metodi da investigatore e sistemi scientifici, da Robert Nightengale risulterebbe evidente che Reno, pur a conoscenza delle difficoltà incontrate dal superiore, gli avrebbe fatto mancare un decisivo appoggio in un momento delicato della battaglia. Il piano prevedeva infatti che il generale procedesse sulle alture in direzione del villaggio «per impedire agli indiani di scappare» mentre più in basso, in parallelo, dovevano avanzare le compagnie di Reno. Ma la manovra fallisce quasi subito. Custer si ritrova esposto in una posizione avanzata e non è consapevole della reale minaccia che lo aspetta. Infatti la colonna del maggiore Reno è rimasta bloccata, più indietro, da un attacco degli indiani usciti dal campo. A quel punto Reno piega verso destra, raggiunge una zona più difendibile e si ferma.


I ritratti di Custer, Reno e Benteen

A lungo si è discusso sull’opportunità della manovra e sui rischi di dividere i reparti. A discolpa di Custer, si cita il manuale del generale George Crook, dove si sostiene la necessità di sferrare operazioni avvolgenti. «Se è possibile, al momento della carica, assali il tuo nemico sul fianco mentre è impegnato (da altri) al centro». Al Little Big Horn Custer voleva colpire con il Settimo cavalleggeri il fianco mentre Reno doveva sfondare al centro. Per due volte il generale ha chiesto sostegno inviando un paio di portaordini, tra cui il trombettiere John (Giovanni) Martini, uno dei sei immigrati italiani arruolati nel Settimo e coinvolti negli scontri di quel 25 giugno. Ma dagli ufficiali non è mai giunta una risposta.
Su Wild West Magazine, l’espertissimo Nightengale si sofferma sui test eseguiti usando i fucili Springfield e le pistole Colt in dotazione ai cavalleggeri: si voleva dimostrare che Reno non poteva non aver sentito l’eco delle sparatorie, un segnale evidente che Custer aveva «impegnato» gli indiani di Cavallo Pazzo, grande stratega e condottiero impareggiabile. Ancora più pesanti le accuse mosse al maggiore di aver falsificato i rapporti e di aver inserito testimonianze mai rese dai soldati superstiti. Una vicenda – quella dei documenti – che continuerà per decenni con accuse e contro-accuse coinvolgendo persino gli inquirenti federali. Per i ricercatori filo-Custer il destino ha comunque reso giustizia – almeno in parte – al generale. Reno, prosciolto dall’accusa di codardia, è morto come un reietto, perseguitato dall’onta del Little Big Horn.


L’assedio finale

Gli studi sulle guerre indiane sono tornate di attualità con i conflitti in Afghanistan e in Iraq. Alcune zone d’operazione sono chiamate dagli ufficiali «territorio ostile o indiano». In alcuni casi le tattiche mordi e fuggi dei ribelli hanno ricordato le scorrerie delle tribù delle Grandi Pianure. E altri hanno sostenuto che le truppe regolari irachene avrebbero dovuto comportarsi al pari degli «scout indiani» usati contro le tribù. Come il famoso Curley, il «Crow» che faceva da guida a Custer durante la campagna militare e si è salvato dal massacro. Ma allora non c’erano dubbi sull’andamento della guerra: la fine di Custer è stata solo una battaglia persa, però poi gli indiani sono stati schiacciati senza pietà, privati di spirito e terra.

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