Jane Russell e le donne del cinema western

A cura di Domenico Rizzi

Un ritratto di Jane Russell
Ernestine Jane Geraldine Russell, nota semplicemente come Jane Russell, è deceduta il 28 febbraio 2011 all’età di 89 anni per una crisi respiratoria. La sua carriera è legata a diversi film, ma uno in particolare l’ha lanciata nel mondo dello spettacolo.
Provocatoria la locandina, malizioso il titolo adottato dalla distribuzione italiana “Il mio corpo ti scalderà” per il film “The Outlaw”, diretto dai quasi omonimi Howard Hughes e Howard Hawks, due registi fortemente in disaccordo.
La pellicola venne prodotta nel 1940, interpreti Jack Buetel, Thomas Mitchell, Walter Huston e naturalmente Jane Russell, la vera protagonista di una storia improbabile, che accostava Doc Holliday a Billy the Kid e Pat Garrett. “Un film sciocco e farraginoso” lo definirà un esperto ”con la più brutta colonna sonora della storia del cinema” (Charles Silver, “I film western”, Milano Libri, 1980, p. 107).
La critica americana assistette alla prima proiezione con perplessità, i giornali posero l’accento sull’esagerata esibizione di forme dell’attrice, un giudice del Maryland, in un eccesso di zelo, ne ordinò addirittura il sequestro. La gente benpensante si chiese se fosse davvero il caso di sbattere sullo schermo quella figura fisica che sembrava sprizzare sesso da tutti i pori. Il film rimase in incubazione per qualche anno nonostante non fosse ancora nato il maccartismo, follia ideologica degli Anni Cinquanta dopo le atrocità che il secondo conflitto mondiale aveva mostrato.
Ma cos’era accaduto realmente perché si giungesse ad un giudizio tanto severo? Semplicemente che “The Outlaw” era interpretato da Jane Russell, che forse non era così bella nel senso classico, ma possedeva forme troppo prorompenti per un pubblico rimasto nostalgicamente legato alle cavalcate di Tom Mix e Harry Carey e che si stava da poco abituando a digerire torbide figure come quella della prostituta redenta impersonata da Claire Trevor in “Ombre Rosse”.


Jane Russell sul set di un film western

Le donne, sosteneva peraltro qualche regista, non erano affatto un elemento indispensabile per il cinema western, che le relegava solitamente in ruoli marginali, comunque sempre casti e mai tanto allusivi. Il bello è che la Russell, a parte la sfrontatezza del suo personaggio chiamato Rio, non mostrava assolutamente nulla delle sue grazie, rigorosamente celate sotto gli abiti di scena, con l’unica eccezione della generosa scollatura che lasciava immaginare il suo seno molto florido. Il film, nel complesso, si può ritenere mediocre, ma quando ne venne autorizzata la distribuzione senza più restrizioni, realizzò un incasso di tutto rispetto, superando i 3 milioni di dollari. La giovane attrice – nata a Benidji nel Minnesota il 21 giugno 1921– iniziò proprio da qui una carriera che, se non fu proprio favolosa, le aprì facilmente le porte di Hollywood. L’eccentrico Hughes le offrì infatti un contratto di sette anni e Jane lavorò con registi quotati come Raoul Walsh, Nicholas Ray e Ralph Nelson, divenuto celebre negli Anni Settanta per il suo revisionistico “Soldato Blu”. Citando soltanto i film western, la Russell girò insieme a Bob Hope l’ironico “Viso Pallido” (1948) nella parte di una Calamity Jane come al solito troppo avvenente rispetto a quella reale e il seguito – “Il figlio di Viso pallido” (1952) – per cimentarsi qualche anno dopo in un ruolo più maturo ne “Gli implacabili” (1952) nel quale era corteggiata da attori affermati come Clark Gable e Robert Ryan. Lo stesso anno recitò nel meno noto “La regina dei desperados” di Allan Dwan e nel 1966 sarà protagonista femminile di “Johnny Reno” e “Waco”, di R. G. Springsteen, due lavori di minore importanza. Ma il suo successo rimase condizionato dagli esordi, perché “la sua bellezza scandalosa e le forme da pin up erano un attacco al perbenismo americano di allora” (QN Il Giorno, 2 marzo 2011: “Jane Russell, quando Hollywood era sexy” in “Spettacoli”, p. 41). Nel 1953 lavorò al fianco di Marylin Monroe in “Gli uomini preferiscono le bionde” di Howard Hawks e il suo compenso andò alle stelle. Nonostante la grande popolarità, la gente dalla mentalità “puritana” la accolse sempre con una certa freddezza, vedendo in lei l’immagine peccaminosa che il cinema aveva diffuso.


Il buonumore distribuito tra spari e frecce indiane

Per alcuni fu addirittura la donna che aveva guastato il western, nato nel 1903 come genere d’avventura e d’evasione, adatto sia ai bambini che ai loro genitori, rappresentanti dell’America idealista e costruttiva, scevra da contaminazioni erotiche e da tentazioni inconfessabili. Per contro, Jane Russell, che si sposò tre volte rimanendo due volte vedova, non ebbe certo un’esistenza sentimentale travagliata come la Monroe, vivendo la sua epoca e l’artificiale realtà di Hollywood come una qualsiasi donna americana. “Sono nata per il matrimonio” dichiarò una volta “La vita di famiglia è un sostegno in qualsiasi circostanza.” (QN, cit., p. 41).
Eppure il western deve a questa attrice più di quanto si pensi, perché, forse per la prima volta, l’attenzione dello spettatore e del critico veniva fortemente catturata dalla presenza femminile. Succederà poche volte, nella lunga storia del genere e non sempre in maniera così burrascosa. In “Duello al sole” di King Vidor (1945) Jennifer Jones riuscirà, con la sua avvenenza, a mettere in ombra sia Joseph Cotten che Gregory PeckIn; in “Sfida infernale” di John Ford (1946) sarà la sfacciata e provocante Chihuahua (Linda Darnell) ad avere il sopravvento sulla timida Clementine interpretata da Cathy Downs, simbolica vittoria della ragazza cresciuta nel West su una “piedi teneri” dell’Est. In “Donne verso l’ignoto” di William A. Wellman del 1951, l’erotismo è praticamente assente, ma le solide massaie impegnate a trovare marito al termine di un viaggio verso la California riescono ad appannare la “maschia” aureola di Robert Taylor, ritagliandosi uno spazio importante in una storia che sembra riservata agli uomini. “Johnny Guitar”, di Nicholas Ray (1954) impone la figura della donna manager con la dura immagine di Vienna – l’attrice texana Joan Crawford – che frena la propria femminilità dietro una maschera di indipendente sicurezza. Per inciso, questo è uno dei pochi western – se non proprio l’unico di stampo tradizionale – in cui si assiste ad un duello alla pistola fra due donne: Vienna e la rivale Emma (Mercedes Mc Cambridge).


La sensualità western armata di Colt

Con l’evoluzione dei tempi e l’avvento dello spaghetti-western, Sergio Leone si sceglie, nel suo “C’era una volta il West” del 1968, una protagonista femminile che finisce per sovrastare gli interpreti maschili. Destreggiandosi abilmente fra il vendicatore Armonica (Charles Bronson) il sicario Frank (Henry Fonda) e il bandito Cheyenne (Jason Robards) la bellissima Jill Mc Bain (Claudia Cardinale) ex prostituta di New Orlèans rimasta prematuramente vedova, è l’unica a conquistars saldamente uno spazio duraturo. Mentre sfuma sullo sfondo della ferrovia che avanza l’immagine dell’ultimo pistolero, malinconico simbolo di un’epopea al tramonto, Jill impianta salde radici nella sua nuova terra, assicurando stabilità e continuità all’opera di civilizzazione che il cavallo d’acciaio porta con sè. Il suo unico rammarico potrà essere, come ha immaginato Stefano Jacurti nel suo crepuscolare racconto “Dove arriva quel treno” (“Il baule nella prateria”) di non avere vissuto fino in fondo la sua virtuale storia d’amore con Armonica, l’unico che avrebbe potuto conquistarla. Con l’ondata revisionista, “Soldato Blu” infrange tutti gli schemi, facendo emergere prepotentemente la figura femminile di Cathy Lee (Candice Bergen) come non era mai avvenuto in precedenza. La squaw bianca è una donna disinibita e risoluta, animata da uno spirito di sopravvivenza che va al di là di ogni valutazione etica. Il suo comportamento non è sconveniente, bensì adattato alla convenienza, all’opportunità del momento, con l’unica incognita dell’imprevisto innamoramento.
Ancora Jane Russell
Ormai il western è lontanissimo dalle tenui storie permeate di romanticismo della prima metà del secolo. Diventa spietato, a tratti anche volgare, ma sostenuto da un robusto realismo, perché le vere protagoniste del West furono assai diverse dalle diafane presenze femminili di molti film. Il loro simbolo diventerà la Calamity Jane (Anjelica Huston) di “Buffalo Girls”, girato per la televisione americana nel 1991: una donna capace di passioni e di grandi sentimenti, anch’essa sola e delusa come i protagonisti maschili di tante pellicole. Ma il western aveva già recuperato parte della sua credibilità storica con “Il Grinta” di Henry Hathaway nel 1969, che il fedele remake dei fratelli Coen ha riconfermato nel suoi intenti nel 2011. Se Wayne si era guadagnato il meritatissimo Oscar alla carriera, la scatenata Mattie Ross (Kim Darby nel primo film, Hailee Steinfeld nella nuova versione) afferma sullo schermo la donna-bambina capace di contendere i primi piani agli adulti, assurgendo a leader della vicenda narrata. D’altronde, la storia della Frontiera americana è ricca di immagini di adolescenti che si ritagliarono un posto nella storia, non ultima quella Annie Oakley – divenuta la tiratrice infallibile del Wild West Show di Buffalo Bill – che a 9 anni andava a caccia da sola con il fucile per mantenere la numerosa famiglia e a 15 riuscì ad estinguere l’ipoteca sulla sua fattoria vendendo la selvaggina uccisa nei boschi. Oppure l’indiana Sacajawea che a 16 anni aveva guidato la spedizione di Lewis e Clark attraverso montagne e vallate, in un viaggio pieno di pericoli, di privazioni e di sofferenze, portandosi sulle spalle un bambino appena nato. Per certi aspetti, dunque, il western moderno si è distanziato moltissimo dalle sue origini: la donna riesce ad essere protagonista, anche quando il contesto storico in cui si muove – l’ambiente della Frontiera ottocentesca – non le consente di stare alla pari con i partner maschili.
Colt e cowboy
La sua ascesa non è priva di implicazioni sociologiche e coincide con il declino del maschio, che affiora in pellicole come “Ultima notte a Warlock” di Edward Dmytryk (1969) nel quale i protagonisti rivelano un’omosessualità latente generata dalla paura del confronto con il gentil sesso, prima che Ang Lee la riveli apertamente nel suo “I segreti di Brokeback Mountain” nel 2005.
Ma il lungo e tormentato cammino che ha prodotto l’evoluzione del genere non può prescindere dalla provocatoria interpretazione che Jane Russell sostenne tanto tempo fa. La sua fu davvero, per usare le parole di quel giudice del Maryland, “come un temporale sull’orizzonte” (“Giancarlo Beltrame, “La conquista del West in oltre 100 film”, Demetra, Colognola al Colle, 1997, p. 74)
La vera spallata al conformismo, fra commenti sussurrati e sentenze inquisitorie, la diede proprio lei, contribuendo a rendere adulto un genere da molti considerato soltanto da oratorio.

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