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Il prezzo della conquista

A cura di Domenico Rizzi

Recentemente si è parlato spesso di Indiani d’America, soprattutto per lo scalpore suscitato dalla notizia del mega risarcimento ottenuto dai nativi per le terre espropriate loro dai Bianchi nei secoli passati.
Dunque, un atto riparatore che dovrebbe attenuare le tensioni spesso riemerse fra il popolo americano e gli antichi abitanti del nuovo continente.
Tuttavia, per amore della verità, non avrebbe senso parlare degli Indiani soltanto come di gente spogliata dei propri possedimenti, perché in parecchi casi furono essi stessi ad appropriarsi delle regioni abitate da altre tribù con le quali erano in conflitto.
Non si può dimenticare, per esempio, che i popoli di lingua sioux, provenienti dai Grandi Laghi, si trasferirono ad occidente perché stanchi della conflittualità con i Chippewa e gli Irochesi.
Oltrepassato il fiume Missouri in un’epoca fra il 1770 e il 1804, entrarono in contrasto con i Kiowa e i Comanche che circolavano in una delle regioni più belle e suggestive dell’area delle Grandi Pianure: le Black Hills dell’attuale South Dakota.
La contesa si risolse tutt’altro che pacificamente, tant’è vero che i Lakota, forti della loro superiorità numerica e militare, scacciarono i Kiowa dalla regione e sospinsero a sud anche i Comanche, che a quell’epoca non erano poi tanto deboli. I Kuato, una delle tribù kiowa, furono sterminati completamente intorno al 1780 e i pochi superstiti finirono assimilati da altre bande.
Anche i Cheyenne, di stirpe algonchina, provenienti da est come i Sioux e vessati da altre tribù, occuparono regioni nelle quali non gradivano la presenza di gruppi tribali differenti. Entrarono in conflitto con Pawnee, Kiowa, Kiowa-Apache e Comanche e sospinsero una parte dei Crow verso le montagne. Questi ultimi erano a loro volta invisi ai potenti Piedi Neri e per decenni le due tribù si contesero aspramente i territori di caccia.


Guerrieri Comanche

Nel 1845 vi fu un’aspra guerriglia fra i Lakota e gli Shoshone nell’area del Gran Bacino e le spedizioni dei primi ritornarono indietro decimate, mentre al sud diverse tribù – Comanche, Cheyenne, Osage, Kiowa, Kiowa-Apache, Arapaho – si coalizzarono contro i gli Indiani dell’Est – Delaware, Shawnee, Seminole, Kickapoo, Sauk e Fox e Cherokee – trasferiti forzatamente nell’Oklahoma in seguito all’Indian Removal Act. Nella primavera del 1853 un grosso contingente di Indiani delle Pianure formato da 1.500 guerrieri affrontò una sparuta banda di 100 Sauk e Fox sul fiume Kansas, ma dovette ripiegare con gravi perdite, poiché queste due tribù dell’Illinois disponevano di armi da fuoco.
Apache e Navajo, etnicamente e linguisticamente appartenenti agli Athabaska del Canada, da dove erano emigrati verso sud nel XVI secolo, perseguitarono per anni i pacifici Pueblo dell’Arizona e del New Mexico, sconfinando spesso anche verso oriente per combattere Comanche e Kiowa e a sud per depredare le popolazioni messicane e le varie tribù dell’altopiano, come i Pima e i Papago.
Il quadro non si presenta molto diverso se si esaminano i periodi precedenti la nascita degli Stati Uniti d’America, perché fra le tribù algonchine, muskogee e irochesi esisteva da tempi immemorabili un’accesa rivalità, che i colonizzatori sfruttarono naturalmente a proprio vantaggio. Non è un mistero che le nazioni irochesi contribuirono alla distruzione degli Uroni, così come fecero i Choctaw nei riguardi dei Natchez. D’altronde, se si risale ad epoche più remote, quando gli Europei non avevano ancora messo piede nel nuovo continente, nel XIV secolo un’ignota tribù rase al suolo nel South Dakota un villaggio di Arikara, nel quale gli archeologi hanno rinvenuto molti interessanti reperti nel 1978. Le vittime accertate di tale eccidio si aggirano intorno alle 480 persone. Un altro ritrovamento è quello di un villaggio cheyenne nel North Dakota, composto da 70 capanne di terra e occupato da alcune centinaia di persone. Risulta che gli Ojibwa lo assalirono e lo distrussero completamente intorno al 1770, facendo sicuramente strage dei suoi abitanti.
Ma affrontare la questione indiana oggi, dopo che il revisionismo degli Anni Settanta ha gettato spesso benzina sul fuoco, non è un’impresa facile. Su un quotidiano nazionale, si è potuto leggere nel 2010 un lungo articolo che parlava del genocidio, compiuto dagli Americani dopo la guerra di indipendenza, di “10 milioni di Pellirosse” (sic!). Evidentemente si è fatta un po’ di confusione, mescolando Pellirosse nordamericani, Esquimesi, Aztechi, Maya, Inca, Guarani, e Araucani, perché il suolo nordamericano corrispondente agli odierni Stati Uniti non ha mai ospitato, dal 1776 in poi, neppure la decima parte di un tale numero di Indiani.


Due Lakota

Nel linguaggio comune si definiscono “Indiani” o “Pellirosse” gli abitanti delle regioni che oggi formano gli Stati Uniti e il Canada, mentre i nativi dell’America Latina (Messico, Centro e Sud America) vengono solitamente indicati come “Indios”, che significa la medesima cosa, ma serve a distinguere i popoli di aree geografiche e soprattutto culture differenti. Infine, Esquimesi e Alaskiani, pure di origine mongolica, vengono generalmente considerati a parte, anche perché la loro storia si è svolta in maniera assai diversa da quella degli Indiani degli Stati Uniti. L’Alaska russa passò sotto gli Stati Uniti nel 1867, ma non subì – a parte il periodo della corsa all’oro nel Klondike nel 1896-98 – un’invasione paragonabile a quella che fu alla base della conquista del West. Gli indigeni di questo Stato costituiscono ancora oggi una percentuale ragguardevole (16%) della sua popolazione complessiva, composta per il 70 per cento da Bianchi.
Presi nel loro insieme, gli Amerindi originari costituivano probabilmente un insediamento umano numericamente di poco inferiore a quello europeo dell’epoca, perché secondo stime qualificate, essi superavano i 50 milioni di individui, con una concentrazione nel Messico e nell’America centrale, più o meno equivalente a quella dell’America meridionale. Gli indigeni insediati fra la linea costituita dal Rio Grande e le propaggini settentrionali del Canada erano invece assai meno numerosi e rappresentavano una percentuale del 2,5 per cento sul totale complessivo. Paradossalmente, furono questi ultimi a passare alla storia come le principali vittime del genocidio, mentre la vera ecatombe si è compiuta nelle isole caraibiche, in Messico e nel Sud America, ai danni di Aztechi, Inca, Arawak Guarani e Mapuche e per opera di Spagnoli e Portoghesi. Nella sola isola di Cuba, i 100.000 indigeni esistenti al momento dell’arrivo di Colombo erano ridotti a 5.000 meno di cinquant’anni dopo. In Brasile la ferocia di Benito Machel Parente causò lo sterminio di 15.000 Indios nell’estate del 1657 mentre Belchior Mendes de Morais si vantò di averne uccisi 20.800 in un’altra spedizione.
Il motivo principale per cui un simile massacro passò in secondo piano di fronte alle gesta degli Indiani nordamericani, risiede nell’enorme diffusione della cinematografia western, che cominciò ad occuparsi dei Pellirosse fin dagli inizi del Novecento, mentre la filmografia conosciuta riguardante gli Indios è episodica e assai meno nota. Infatti solo in tempi recenti si è potuto assistere a proiezioni come “Mission”, di Roland Joffè (1986) e “Apocalypto”, di Mel Gibson (2006), mentre centinaia di film su Geronimo, Toro Seduto e il generale Custer venivano prodotti in USA fin dal 1909.


Il punto della situazione…

Quanti erano gli Indiani residenti sul suolo nordamericano al momento dello sbarco di Cristoforo Colombo?
E’ difficile fornire una risposta del tutto esatta, mancando all’epoca lo strumento del censimento, ma esistono sufficienti elementi per elaborare dei dati abbastanza precisi. La maggior parte degli studiosi in materia ritiene che, sommando tutte le tribù degli attuali territori di Canada e Stati Uniti, vi fossero nell’era pre-colombiana 3.000.000 di indigeni secondo la stima più alta e 1.000.000 in base alla più bassa. Premesso ciò, si è stabilito che nel periodo precedente la guerra di indipendenza americana il numero degli Indiani presenti negli attuali Stati Uniti fosse di circa 840.000; considerando anche le altre popolazioni di lontana origine asiatica, si devono aggiungere 72.000 abitatori dell’Alaska e 220.000 del Canada, oltre a 10.000 Esquimesi della Groenlandia (Frederick W. Hodge nel “Handbook of American Indians”, New York, 1906). Il totale è dunque di 1.150.000 individui, sparsi su una superficie molto più estesa dell’Europa.
Anche le cifre sugli indigeni centro e sudamericani sono state parecchio ridimensionate rispetto ad alcune supposizioni esagerate del passato.
La valutazione di 40 milioni di indigeni da parte del dottor Paul Rivet (“Les Origines de l’Homme Amèricain”, Parigi, 1957) è stata sensibilmente abbassata dal filologo venezuelano Angel Rosenblatt che ipotizza, fondandosi su dati economici, una popolazione non superiore ai 20 milioni di Indios nell’America meridionale (“La poblacion indigena y el mestizaje en America”, Buenos Aires, 1954). La Scuola di Berkeley in California suppone tuttavia che la più alta concentrazione demografica si trovasse sull’altopiano del Messico e nelle Antille, con 25,2 milioni di persone, ma le stime sulla consistenza numerica di Aztechi, Maya e Inca hanno subito oscillazioni notevoli. Vi è chi ritiene che al momento della conquista spagnola gli Aztechi superassero i 10 milioni e chi pensa invece che non arrivassero neppure a 5 milioni. La loro capitale Tenochtitlan conteneva, nel momento del suo massimo splendore, circa 300.000 abitanti. Sempre in base alle stime più riduttive, gli Inca non erano più di 3 milioni ed i Maya neppure 1.300.000. Abbastanza numerosi in rapporto all’estensione territoriale gli abitanti delle immense foreste dell’Amazzonia, intorno ai 6 milioni di individui quando Pedro Alvares Cabral toccò le coste brasiliane nell’anno 1500. Suddivisi in circa 2.000 tribù, molte delle quali sono state conosciute soltanto in epoca moderna, ne rimangono oggi meno di 200.000. Anche i Mapuche o Araucani del Cile, 500.000 al tempo della colonizzazione spagnola, scesero rapidamente a 25.000 persone sul finire dell’Ottocento. L’enorme flessione degli indigeni del Messico nel XVI secolo appare, se le valutazioni sono attendibili, la più vistosa: da 17 milioni nel 1532 a 2.650.000 nel 1568, cioè in soli 36 anni. A Santo Domingo andò anche peggio, perché nel 1520 gli Indios superstiti erano soltanto 16.000, a fronte di quasi 1 milione di anime esistenti trent’anni prima.


Vita nell’accampamento

Il francescano Jeronimo de Mendieta scrisse che, a causa della spietata dominazione spagnola, nelle Antille si produsse il fenomeno del suicidio collettivo, perché i suoi abitanti “cominciarono a prendere l’abitudine di uccidersi da soli con succhi di erbe velenose oppure impiccandosi”. (Jeronimo de Mendieta, “Historia Eclesiastica Indiana”, a cura di Joaquin Garcia Icazbalceta, Mèxico, 1870). Gli Arawak caraibici, la cui consistenza era valutata fra 500.000 e 1 milione di individui, furono praticamente annientati dai conquistadores nel XVI secolo. Lo stesso destino toccò ai Guarani del Brasile, che da 1.500.000 sono scesi progressivamente agli attuali 46.000.
Il periodo di maggiore contrazione demografica fra gli Indiani del Nord America si ebbe al tempo delle guerre coloniali, fra il XVII e il XVIII secolo, sia per il coinvolgimento di parecchie tribù da parte delle potenze europee – specialmente Gran Bretagna e Francia – quanto per la notevole diffusione di malattie come il vaiolo, che decimarono, seppure in misura minore, anche i colonizzatori di origine europea. Almeno tre epidemie devastanti dilagarono infatti nel New England fra il 1677 e il 1702 contagiando un terzo della popolazione di razza bianca. Le cronache dell’epoca registrano 5.889 casi nell’anno 1721, con 844 decessi. Il vaiolo, come la peste e il colera, si diffusero in maniera del tutto casuale e soltanto più tardi – durante la Guerra dei Sette Anni – il generale inglese Jeffrey Amherst invitò esplicitamente i suoi ufficiali a distribuire alle tribù nemiche “lenzuola nelle quali siano state avvolte persone malate” per trasmettere il contagio e “sterminare questa razza maledetta”. (Charles Hamilton, “Sul sentiero di guerra”, Feltrinelli, Milano, 1982).
Alcune tribù di dimensioni ragguardevoli, come gli Uroni e gli Abenaki, avevano subito una riduzione demografica quasi apocalittica, ma oltre ai flagelli epidemici le loro genti patirono l’ostilità di tribù nemiche e dei coloni del New England. Le perdite accusate dagli Indiani fra il 1607, quando gli Inglesi di John Smith sbarcarono in Virginia e il 1774, anno che precede l’insurrrezione delle 13 colonie atlantiche, non sono calcolabili, ma furono certamente rilevanti, perché parecchie delle nazioni più popolose ridussero notevolmente la loro consistenza numerica. Per citarne alcune, gli Uroni scesero da 35.000 componenti a meno di 12.000, ma furono poi ulteriormente decimati dagli Irochesi; gli Abenaki da 40.000 a circa 2.500; i Winnebago, di lingua sioux, da 20.000 a meno di 1.000. Tutto ciò, dopo che la potente alleanza capeggiata da Powhatan, il padre di Pocahontas, era stata frantumata e dispersa, i Wampanoag erano stati falcidiati dalla peste e i Pequod avevano subito praticamente lo sterminio per opera dai puritani inglesi, che nel solo massacro del Mystic River, nel 1637, ne uccisero 650. In quest’operazione la milizia coloniale ebbe un valido sostegno nelle tribù dei Mohicani, dei Narragansett e dei Niantic, gelosi della supremazia dei Pequod.
Geronimo e i suoi
Anche gli Irochesi, comprendenti le sei tribù federate Onondaga,Oneida, Cayuga, Seeneca, Mohawk e Tuscarora, giunsero alle soglie della guerra di indipendenza americana con una popolazione complessiva di 7.000 anime, contro le 22.000 che contavano verso la metà del secolo precedente.
Le epidemie rimasero comunque il principale nemico degli Indiani delle Pianure, come già lo erano state per le tribù che vivevano ad oriente del fiume Mississippi.
Fra le popolazioni indigene della California, le cause primarie del tracollo furono – com’era accaduto agli indiani del New England – le malattie di tipo epidemico, che nel 1830 sterminarono circa 70.000 persone. Nel 1848, allorchè la regione messicana passò sotto la giurisdizione degli Stati Uniti, gli Indiani californiani comprendevano ancora da 80.000 a 100.000 individui, che nel ventennio successivo scesero addirittura a 20.000 per varie cause. Oltre alle malattie ed ai vizi introdotti dai colonizzatori, vi furono i trasferimenti forzati nelle riserve e le rappresaglie di minatori e vigilantes.
Il vaiolo diffusosi nel 1837-38 colpì quasi tutti i nuclei tribali stanziati ad oriente delle Montagne Rocciose, dal Montana al Texas. Si ritiene che perirono almeno 17.000 persone, ma una stima meno prudente quantifica in 30.000 i decessi causati da quell’epidemia. Altri contagi si propagarono fra gli indigeni anche negli anni successivi. Nel 1856 il vaiolo si abbattè sulle tribù dei Mandan e degli Arikara, già decimate in precedenza, quindi sui Comanche nel 1861-62, dopo avere causato molte vittime fra gli Irochesi un anno prima. Nel 1873-74 fu il morbillo a mettere in ginocchio i Lakota Sioux, per diffondersi pochi anni più tardi fra i Kiowa, i Comanche, i Cheyenne e gli Arapaho. Nel 1877 il vaiolo fece una nuova comparsa fra gli Apache, estendendosi ai Pima, ai Papago e ai Maricopa dell’Arizona. Nel 1889-90 fu invece un virus influenzale a seminare vittime fra Cheyenne e Arapaho dell’Oklahoma e poco tempo dopo, nel 1892, la stessa malattia ed il morbillo furono responsabili di un’elevata mortalità infantile fra i Comanche, i Caddo e i Kiowa. Il ritorno del vaiolo nel 1898 provocò il decesso di 205 Pueblo e diversi Navajo nel Sud-Ovest, ma una buona quantità di casi vennero risolti con l’intervento del servizio sanitario delle riserve. Da quel momento in poi, anche il diffondersi delle epidemie venne controllato e risolto più agevolmente.

Nel 1825 il numero dei nativi stanziati nelle regioni orientali degli attuali Stati Uniti non raggiungeva i 100.000 individui, mentre quello degli Indiani che abitavano fra il fiume Mississippi e la Costa del Pacifico era di circa 400.000, perchè la grande espansione verso occidente non era ancora iniziata. Sappiamo pure che a quell’epoca nelle Grandi Pianure, fra il confine canadese ed il Rio Grande, non vi erano più di 150.000 Pellirosse nomadi.


Gli scambi con la gente bianca

Questi gruppi, soprattutto Sioux, Cheyenne, Piedi Neri, Arapaho, Kiowa e Comanche, mantennero un lungo stato di ostilità verso le truppe degli Stati Uniti, che più ad occidente dovettero battersi anche con Ute, Mohave, Apache, Modoc e Cayuse, nonchè per un breve periodo anche con i Navajo. Durante il momento più caldo delle guerre indiane, l’esercito mantenne nell’Ovest 24.000 uomini – circa il 43 per cento dell’organico regolare – disseminati su una superficie estesa dieci volte l’Italia. Il costo di queste “guerre” in termini di vite umane nel periodo dal 1837 al 1891 fu quasi irrisorio – 1.263 militari uccisi e un numero di feriti pari ad una volta e mezza tale cifra – e sarebbe passato del tutto inosservato senza un paio di episodi eclatanti come il massacro Fetterman (1866) e la battaglia del Little Big Horn (1876). D’altra parte, nella statistica generale dei caduti di tutte le guerre sostenute dagli USA, alla voce “guerre indiane” figurano 4.100 morti nell’arco di tempo che va dall’inizio della Rivoluzione (1775) al 1891, cioè in 116 anni! Per quanto riguarda la controparte, cioè gli Indiani, si parla invece di 6.000-8500 caduti, ma il rendiconto si basa, in massima parte, sui rapporti dei militari, che quantificano in 4.305 soltanto i morti in combattimento dal 1865 al 1875. Per assurdo, tali cifre non concordano con quelle fornite dalla maggior parte delle testimonianze indiane, sulla base delle quali i Pellirosse uccisi in battaglia dagli Americani va abbassato di circa due terzi, cioè a meno di 2.000 persone. Se la loro versione fosse attendibile, non avrebbe senso neppure parlare di “guerre indiane”, risultando le cifre troppo basse per giustificare l’esistenza di un vero e proprio conflitto.
Si prendano come riferimento alcuni dei combattimenti principali sostenuti dall’esercito o da corpi paramilitari (Rangers e milizie volontarie) quali il massacro di Sand Creek, il Wagon Box Fight, l’assedio di Beecher’s Island, la spedizione del Washita, la battaglia del Little Big Horn.
Nell’incursione del Sand Creek (1864) il colonnello John Chivington, comandante la milizia del Colorado, sostenne di avere sterminato 400-500 Cheyenne e Arapaho, mentre i testimoni presenti nell’accampamento, soprattutto George Bent e Edmond Guerrier, entrambi di madre indiana – parlarono di un massimo di 148. Nella famosa battaglia dei Cassoni dei Carri (Wagon Box Fight) del 1867, il capitano James Powell suppose che i suoi soldati avessero ucciso 60 nemici, ma, mentre qualche giornale faceva lievitare il numero ad oltre 1.000, gli Indiani lo smentirono categoricamente, sostenendo di avere perso soltanto 8 o 9 guerrieri. Nell’assedio all’isolotto chiamato in seguito Beecher’s Island (Isola di Beecher) nel Colorado, gli esploratori del maggiore George Forsyth abbatterono complessivamente oltre un centinaio di Cheyenne, dei quali 75 furono i morti complessivi. Eppure l’elenco dei caduti fornito dai Cheyenne conteneva esclusivamente i nomi di 7 caduti, compreso quello di Naso Aquilino, il loro guerriero di maggior spicco.


La pista indiana incrocia quella dei bianchi

Per quanto riguarda l’attacco al campo di Pentola Nera sul Washita, avvenuto nello stesso autunno 1868, Custer scrisse nel suo rapporto che i Cheyenne morti erano stati 103, quelli catturati – donne e bambini – 53. Anche in questo caso, George Bent, basandosi su quanto gli avevano raccontato i suoi contribali, parlò invece di 29 perdite, delle quali 18 erano donne e bambini. Ma il caso più discusso riguarda la grande battaglia combattuta sul fiume Little Big Horn il 25 e 26 giugno 1876 dal Settimo Cavalleria di Custer contro la coalizione Sioux-Cheyenne capeggiata da Toro Seduto. Moltissimi Indiani dichiararono che le perdite della loro gente non erano state più di 30 (qualcuno indicò anche cifre più basse, per esempio 20 e 18). Il capo cheyenne Due Lune raccontò che la sua tribù aveva perso 7 guerrieri e i Sioux 39, affermando di avere contato personalmente, insieme ad altri capi, i corpi dei caduti sul campo. Altri testimoni, per lungo tempo ignorati o tenuti in scarsa considerazione nei numerosi libri pubblicati sull’argomento, forniscono cifre assai diverse, che fanno ritenere, con sufficiente certezza, che al Little Big Horn gli Indiani ebbero almeno 250-300 morti, se non un numero maggiore. L’intento era ovvio: screditare al massimo la figura di Custer ed enfatizzare il successo di un popolo ingiustamente oppresso, che ottenne comunque una grande vittoria, pagata però a carissimo prezzo.
L’esercito americano – la Divisione Militare del Pacifico, comprendente anche i territori di Oregon, Arizona e New Mexico – non impiegò mai una quantità di truppe così elevata come quella della Divisione del Missouri, rispetto alla quale possedeva soltanto il 25 per cento degli effettivi (da 5.000 a 6.500 uomini). Nessuna campagna, eccetto l’insurrezione degli Yuma nel 1850-53, quella degli Yakima e dei Mohave negli anni successivi e la resistenza dei Modoc di Capitan Jack più tardi, risultò troppo sanguinosa, perché le statistiche ufficiali non registrano perdite rilevanti da nessuna delle due parti in conflitto. Per citare dei numeri, gli Indiani uccisi in azione nel 1850 su tutto il territorio degli Stati Uniti furono 208, nel 1858 – anno in cui erano in corso le rivolte degli Yakima e dei Mohave – 311, mentre nel 1878, durante l’insurrezione dei Bannock, scese a 45. Semmai è difficilmente calcolabile il numero di vittime conseguente all’invasione della California da parte dei cercatori d’oro fra il 1848 e il 1852, come pure nei successivi anni della colonizzazione del paese.


Il suono della tromba annuncia l’attacco

Minatori, cacciatori, avventurieri, milizie territoriali e cosiddetti tutori dell’ordine, in aggiunta a farabutti di ogni genere, vessarono le popolazioni indigene e non si fecero scrupolo di ucciderne i componenti, per appropriarsi delle loro terre, per puro razzismo o talvolta per futili motivi. Ovviamente tutto ciò non basta da solo a spiegare il notevole declino demografico dei Pellirosse registrato fra il 1848 e il 1867. La civilizzazione forzata introdotta dai Bianchi, le deportazioni delle tribù nelle riserve, lo scardinamento delle loro abitudini e le malattie che continuarono ad imperversare per decenni furono concause di notevole peso.
Dunque, l’abbruttimento progressivo di una razza costretta a rinunciare ai propri sistemi di vita, la diffusione di bevande alcoliche e droghe, il dilagare delle epidemie furono i fattori principali dell’enorme decremento demografico subito dai nativi. Nel 1887 esistevano negli Stati Uniti, esclusi gli Eschimesi e gli Alaskiani, 256.127 Indiani, circa il 30 per cento rispetto al numero valutato poco più di un secolo prima. I guerrieri uccisi in combattimento nello stesso arco di tempo erano stati al massimo 8.500. Quindi, i generali come Connor e Custer, le spedizioni militari, le carabine e le pistole Colt di emigranti e coloni c’entrano ben poco con il collasso delle popolazioni amerinde settentrionali.
L’eccezionale ripresa demografica registrata a partire dagli Anni Quaranta del Novecento fu dovuta a diversi fattori, fra cui le migliorate condizioni sanitarie delle riserve e la comparsa sempre più rara di epidemie dagli effetti catastrofici, ma anche al fatto che fossero cessati, oltre alle guerre contro gli Americani, i numerosi conflitti intertribali. Come scrisse Gambe di Legno nel 1930, alludendo alle tribù tradizionalmente nemiche dei Cheyenne, “E’ bello vivere in pace nella riserva…dormire tranquilli ogni notte, senza la paura che venga qualcuno a rubarti i cavalli…a uccidere me o i miei amici” (Thomas B. Marquis, “Wooden Leg. A Warrior Who Fought Custer”, Lincoln, Neb., 1962).
Nel 1952 gli Indiani del solo territorio statunitense (esclusa l’Alaska) erano diventati 405.000; nel 1970 salirono a quasi 800.000 e nel 1990 ad oltre 1.900.000. Nel 2000 i Pellirosse degli Stati Uniti erano quasi 2.500.000 e alcune tribù che nel XIX secolo contavano poche migliaia di componenti, hanno assunto dimensioni quasi incredibili: ne sono un esempio i Navajo, che da poco più di 10.000 nel 1865 superano oggi le 298.000 persone. Nell’unica guerra combattuta contro gli Americani, avevano avuto 78 morti, un numero assai minore rispetto alle perdite subite in anni di scontri con i loro rivali Apache, Ute, Pueblo e Comanche.
Questo è un altro importante aspetto da considerare, se si vogliono elencare obiettivamente tuttele ragioni del regresso demografico della razza pellerossa nei quattro secoli che seguirono la scoperta dell’America.


La visita al trading post

Durante tutta la loro storia, prima e dopo l’arrivo degli Europei, gli Indiani non rinunciarono mai alle loro rivalità intertribali, neppure nei momenti più drammatici in cui era in gioco, in maniera più che palese, la sopravvivenza di un intero sistema di vita. Come si è detto in precedenza, le lotte intestine erano una caratteristica di queste popolazioni americane, così come lo furono in Europa fra la miriade di popoli che l’abitavano prima e dopo la conquista romana. Proprio i Romani sfruttarono le inimicizie esistenti fra i popoli italici per assoggettarli più facilmente ed altrettanto fecero nel nuovo mondo gli Spagnoli, i Francesi, gli Inglesi e infine gli Americani. Anche la conquista del regno azteco e dell’impero incaico fu resa possibile dalla disunione e dai contrasti esistenti fra popoli e fazioni politiche diverse. Se gli Spagnoli si fossero trovati di fronte a popoli coesi, sarebbero stati spazzati via in poche ore, perché i loro eserciti erano composti da poche centinaia di soldati, mentre quelli avversari disponevano di centinaia di migliaia di armati.
Hernàn Cortès non sarebbe mai riuscito a compiere la sua eccezionale impresa con i 660 uomini, sebbene supportati da qualche cannone, se le città di Cempoala, Cholula e Tlaxcala non gli avessero fornito il loro aiuto affiancando alle truppe spagnole migliaia di combattenti, come scrive egli stesso nelle sue memorie. Anche Francisco Pizarro e i suoi 183 soldati approfittarono delle divisioni di un impero dilaniato dalla guerra civile fra i due pretendenti al trono, Huascàr e Atahualpa, figli del defunto imperatore Huayna Capac. Per i Maya il problema è assai diverso, perché quando gli Spagnoli sbarcarono nel Centro America, queste popolazioni erano in declino da almeno sette secoli per ragioni che gli esperti non hanno ancora saputo spiegare, azzardando solo delle ipotesi (guerre, epidemie, carestie). All’arrivo degli Spagnoli, il loro splendore di un tempo remoto sopravviveva soltanto nelle superbe costruzioni delle loro città.
Dunque, mistero dei Maya a parte, il crollo di Aztechi e Inca fu dovuto alle loro divisioni interne, a profezie errate e a superstizioni infondate. Erano regni che avevano costruito la propria fortuna sul lavoro dei prigionieri di guerra resi schiavi, che immolavano quotidianamente molte vittime alle loro sanguinarie divinità, un olocausto che causò centinaia di migliaia di morti. Ad esempio, nel 1487, in occasione della riconsacrazione della Grande Piramide di Tenochtitlan, fonti azteche riferiscono di 84.400 prigionieri sacrificati e nel 1520 lo stesso Cortès trovò, murati in alcuni palazzi della capitale, circa 136.000 teschi appartenenti alle vittime immolate. Gli Aztechi diventarono a loro volta schiavi degli Spagnoli e furono mandati a morire a migliaia nelle miniere d’oro o nelle piantagioni, gli Inca subirono una sorte analoga.
Erano stati popoli dediti alla guerra e alla conquista, come la maggior parte dei Pellirosse nordamericani, per finire assoggettati da altri conquistatori e guerrafondai di provenienza europea, secondo una logica imposta da una storia millenaria: quella del forte che prevale sul più debole.
Poiché si sta parlando del prezzo della conquista del Nord America con specifica allusione ai Pellirosse, cercando di quantificare le vittime dei vari conflitti, possiamo aggiungere che quelle causate dall’incessante conflittualità fra le tribù fu senz’altro maggiore del numero di Indiani uccisi dai Bianchi conquistatori.


La sentinella

Per documentare tutto ciò, si potrebbero citare centinaia di scontri isolati, incursioni, rappresaglie e razzie, raccogliendo tutti i piccoli e grandi episodi contenuti nelle testimonianze degli stessi protagonisti, ma non sarebbero sufficienti alcuni volumi ad elencarli. Basti ricordare la feroce contesa che oppose per anni i Lakota Sioux ai Pawnee, agli Ute, agli Shoshone ed ai Crow, o quella dei Piedi Neri verso questi ultimi, oppure le lotte condotte dai Comanche contro Tonkawa, Navajo e Ute, dai Cheyenne contro Crow, Shoshone, Ute, Pawnee, così come quelle che avevano contrapposto gli Irochesi agli Uroni, agli Abenaki ed ai Narragansett. Nell’anno 1847 i Sioux uccisero più di 100 Pawnee in varie incursioni, mentre risulta dalle statistiche che i Pellirosse uccisi dagli Americani in quell’anno furono 205 nell’intero territorio degli Stati Uniti. Un’altra strage fu quella compiuta dai Lakota nell’agosto del 1873 sul fiume Platte, nel Nebraska, con l’uccisione di altri 99 Pawnee. Questa tribù, che dai 12.000 componenti del 1830 era scesa a 3.400 in trent’anni a causa di guerre, epidemie e carestie, subì un ulteriore tracollo demografico: nel 1879 contava appena 1.440 individui. Per rimanere nell’ambito delle faide intertribali, nel 1877, mentre i Nez Percè di Capo Joseph erano in fuga verso il Canada, i Crow negarono loro l’ospitalità nel Wyoming e i Sioux uccisero alcuni loro ambasciatori che avevano oltrepassato il confine per chiedere aiuto.
La letteratura e il cinema hanno reso popolari personaggi come Toro Seduto e Cavallo Pazzo, dimenticandosi dei veri grandi alfieri della causa indiana, come Metacomet (Re Filippo) Pontiac e Tecumseh, che per la maggior parte della gente rimangono quasi sconosciuti. Costoro, che vagheggiavano romanticamente una nazione indipendente formata dalle tribù unificate, si dovettero infine arrendere, prima ancora che alle armi dei colonizzatori, alla misera realtà dei loro popoli che non sapevano rinunciare ai propri egoismi personali ed all’ostilità tra fazioni opposte di una stessa tribù. Nonostante l’incalzante avanzata dei Bianchi, gli Indiani continuarono a guerreggiare fra loro, a distruggere i villaggi nemici, a rapire le donne e i bambini delle tribù avversarie dopo averne uccisi mariti e parenti di sesso maschile. Spesso anche i Bianchi si comportavano nello stesso modo, affrontandosi sul campo per sterminarsi a migliaia con le loro armi da fuoco, ma con motivazioni più sottili e complesse rispetto alla primitiva concezione dei nativi.


Trattative in corso

Ma nel momento in cui era stata in gioco la libertà delle tredici colonie dal dominio britannico, gli Americani avevano saputo rimanere uniti sotto la guida di George Washington fino alla completa vittoria, mentre Metacomet, Pontiac e Tecumseh erano stati traditi e piantati in asso da molti alleati e da una parte della loro stessa gente.
Quando il profeta Wovoka lanciò il suo ultimo appello all’unità delle tribù nordamericane, nel 1888-90, la gente dalla pelle chiara dominava ormai sull’intero continente e tutti gli Indiani degli Stati Uniti messi insieme costituivano appena un sesto degli abitanti di New York.