Il “piccolo padre” e gli indiani

A cura di Luca Barbieri


Era detto il “Piccolo Padre” in paragone a quello “Grande” (e cioè il presidente degli Stati Uniti) che stava lontano, a Washington, e, come ogni buon padre di famiglia, avrebbe dunque dovuto brillare per onestà e saggezza; quasi sempre, invece, si dimostrava uno squallido burocrate privo di scrupoli, un ignobile affarista deciso ad arricchirsi alle spalle di quelli che considerava “selvaggi ignoranti”. La tentazione di truffare i pellerossa era in effetti enorme, perché dai pochi spiccioli di stipendio da funzionario pubblico percepito fino al momento della nuova nomina, l’agente indiano si trovava di colpo ad avere a disposizione decine o addirittura centinaia di migliaia di dollari (somme favolose per l’epoca) senza o quasi un effettivo controllo di gestione.
A patto, certamente, che fosse disposto ad abbandonare gli agi delle città dell’Est a favore di una spoglia baracca di legno in zone deprimenti, desertiche e prive di ogni comodità.
Approfittare della situazione era, in ogni caso, estremamente facile, considerando in primo luogo che l’agente indiano aveva di fronte a sé persone analfabete, che ignoravano completamente le procedure legali ed i meccanismi che regolavano l’erogazione di fondi, ed in secondo luogo che gli ispettori del Governo erano lontani migliaia di chilometri e annunciavano sempre i loro sporadici controlli, il che lasciava tutto il tempo di “aggiustare” i conti e far sparire imbarazzanti prove di colpevolezza.


Un poliziotto indiano di una riserva Cheyenne

Gli agenti indiani corrotti, inoltre, non agivano mai da soli, bensì all’interno di una ragnatela di connivenze che coinvolgevano i vertici militari degli avamposti e una pletora di loschi mercanti che acquistavano a prezzi stracciati le coperte, le stoffe, gli utensili, il lardo, la farina e tutto quanto veniva inviato da Washington. Per ovviare a questo ignobile traffico, il Governo decise di cambiare sistema e di far acquistare all’agente indiano direttamente sul posto i beni da distribuire, ma le cose non andarono meglio. Il funzionario, infatti, si limitava a spendere solo una piccola parte delle somme percepite, trattenendo per sé il resto.
I beni acquistati erano di pessima qualità: agli indiani venivano consegnati coltelli dalla lama di latta che si piegavano con la sola pressione delle dita, carne guasta e formicolante di larve, stivali di cartone che si scioglievano al primo contatto con l’acqua, coperte di cascame pressato che si sbriciolavano dopo poche settimane d’uso, mandrie di vacche scheletriche gonfiate d’acqua per migliorarne peso ed aspetto.


L’agente indiano degli Apache, John Clum

E questo senza contare i generi di conforto appositamente infettati per diffondere malattie che il sistema immunitario degli indiani non era assolutamente preparato ad affrontare. I pellerossa, in sostanza, venivano abbandonati a loro stessi e lasciati morire di freddo, malattie e fame. Già, perché era anche proibito detenere armi all’interno della riserva, e, dunque, era impossibile cacciare.
Ed era anche impossibile protestare. Ai Sioux Santee che fecero valere i loro diritti calpestati, ad esempio, l’agente indiano Myrick rispose sprezzantemente che se avevano davvero così tanta fame, potevano mangiarsi i loro stessi escrementi oppure l’erba della prateria. Di fronte ad atteggiamenti di questo tipo e ai ripetuti abusi subiti, non c’è dunque da meravigliarsi se gli indiani replicavano con improvvisi scoppi d’ira. D’altro canto il popolo francese non aveva fatto lo stesso quasi un secolo prima di fronte alla regina Maria Antonietta che aveva suggerito loro di mangiarsi brioches al posto del pane ormai esaurito?


In alto a sinistra, l’agente indiano James McLaughlin

Lo stomaco vuoto non tollera beffe, una lezione che dovette suo malgrado imparare anche lo stesso Myrick, la cui bocca venne riempita di feci umane e di erba dai Sioux furenti. Resta da stabilire se questo avvenne prima o dopo che una freccia gli spaccasse il cuore.
Purtroppo all’Est queste improvvise ribellioni apparivano come il frutto della naturale violenza che serpeggiava nell’animo di selvaggi sanguinari.
Nessuno aveva idea di come venissero trattati gli indiani, che anzi erano spesso dipinti come parassiti che sfruttavano l’elemosina del Governo, ma dubito che ci sarebbe stata maggiore comprensione se questi fatti fossero stati di pubblico dominio. Ogni rivolta veniva perciò repressa con maggiore violenza della precedente e dava origine a soprusi e odi che allontanavano sempre di più bianchi e popolo indiano.
Una politica più lungimirante ed attenta alla questione indiana fu, invece, adottata dal Congresso nel 1878 quando si decise di istituire ufficialmente una polizia indiana presso ogni riserva accreditata; l’idea era già stata sperimentata con buoni risultati qualche anno prima a San Carlos (Arizona).


Peter Erasmus, un agente indiano del Canada

Il concetto di un autogoverno (anche e soprattutto dell’esecutivo) da parte di una comunità assoggettata ad un altro popolo si è in passato rivelata brillante ed efficace nei cosiddetti possedimenti coloniali, ma richiede alcune condizioni che negli Stati Uniti non vi furono. Anzitutto la polizia indiana avrebbe dovuto essere libera di autodeterminare le proprie decisioni, rispondendo esclusivamente di fronte ad un organo legislativo con funzioni di vigilanza (il consiglio degli anziani era una cosa che ci andava abbastanza vicino): tutto questo per evitare abusi di potere; di fatto, invece, era la longa manus dell’agente indiano e, indirettamente, dell’esercito. Inoltre, come spesso accade nei territori occupati da una forza militare straniera, coloro che si prestarono a servire nella polizia indiana erano i peggiori elementi delle tribù, i vigliacchi che avevano vecchi conti da regolare e volevano farlo nascondendosi dietro una parodia di legalità, i reietti in cerca di facili privilegi dei quali abusare, le canaglie senza dignità che accettavano un’incondizionata sottomissione ai bianchi ed odiavano i ribelli, perché la loro disobbedienza avrebbe potuto ridurre i già pochi diritti che venivano elemosinati dalle autorità.
Non sempre era così, certo, ma è emblematico ciò che accadde a Toro Seduto, assassinato proprio dal capo della polizia indiana di Pine Ridge, Testa di Toro, col quale aveva vecchie ruggini. E anche Cavallo Pazzo fece una fine del tutto analoga, ucciso da un membro del suo stesso popolo.

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