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Victorio, il grande capo Apache

A cura di Josephine Basile
Victorio
Victorio ebbe fama tra i suoi contemporanei, amici e nemici, come valoroso capo degli Apache Mimbres, appartenenti alla famiglia dei Chiricahua. Nacque nel 1825 in tempi in cui ancora la vita degli Apache scorreva lungo binari certamente difficili, ma ancora accettabili, tra lotte con altre tribù indiane e Messicani. I tempi, però mutarono molto presto e già dagli anni ’50 del secolo XIX gli Apache furono impegnati sul fronte della dura sopravvivenza, stretti tra l’invasione incontrollabile dei coloni bianchi e la voglia di rivalsa dei Messicani, sempre in caccia di scalpi e ben disposti a pagarli pur di avere la conferma della morte di più Apache possibile.
Dai diversi censimenti risulta che Victorio ebbe una sola moglie – il cui nome non è conosciuto – e 5 figli, 3 dei quali morirono durante il corso delle sue guerre. Si conosce il nome dell’ultimo figlio ucciso – qualche mese prima della disfatta di ottobre a Tres Castillos – un giovane e focoso guerriero chiamato Washington.
Non si conosce la ragione per la quale gli venne assegnato tale nome. Sopravvissero – poiché erano tenuti nascosti nella selvaggia Black Range – il piccolo Istee e l’unica figlia femmina, Dilthcleyeh, data in sposa a Mangus, il figlio di Mangas Coloradas.
Per la prima volta, Victorio si fece notare quando appose la sua croce al “patto provvisorio” del 7 Aprile 1853, insieme ad altri 11 capi e sottocapi. Tra i firmatari Apache, oltre a Victorio – il cui nome venne trascritto come “Vitoria” – vi furono Ponce, Josè Nuevo, Cuchillo Negro, Josecito, Sargento, Veinte Reales, Rinon, Delgadito Largo, Tusho, Corrosero e, infine, Placera (ossia Lucero, da alcuni erroneamente identificato con Victorio). A questo accordo non partecipò Mangas Coloradas che, in questo periodo, era il più grande e potente condottiero Apache.


Un gruppo di scout Apache

Questo accordo comprendeva provvedimenti utopistici: delle regole da osservare, ma impossibili da realizzarsi, considerata la cultura ed il modo di vivere degli Apache. Inoltre, vi è il dubbio, che il contenuto di questo accordo – che comprendeva diversi articoli – potrebbe non essere stato loro tradotto correttamente.
Dopo il citato accordo del 1853, Victorio non viene citato più in nessun documento ufficiale, fino al 1865, allorché viene descritto come un capo conosciuto e potente.
Secondo Frank Lockwood, Victorio succedette subito a Mangas Coloradas – ucciso nel 1863 – quale capo dei Chiricahua Orientali(Tchihendè).
Ma in questo stesso periodo – secondo Dan Thrapp – Victorio era già un condottiero, ed aveva un gruppo di seguaci devoti; non era ancora abbastanza prestigioso, ma lo stava diventando. Per esempio, gli era superiore, per così dire, Delgadito, un condottiero di grande influenza, secondo soltanto a Mangas Coloradas. Ma Delgadito scomparve nel 1864 circa, quindi, nonostante la presenza di Leader influenti come Loco e Nana, Victorio divenne l’incontrastato Nantan di guerra dei Tchihendè.
La fama di capo Victorio è legata ad alcuni episodi di quegli anni. Nel 1855, ad esempio, il suo gruppo (assieme ad altri) compì una grande razzia nei territori di Sonora e di Chihuahua, in Messico, da cui fece ritorno carico di ogni genere di bottino e persino di cavalli e prigionieri. La risposta dei Messicani non si fece attendere e Victorio impegnò la sua gente in una battaglia con i “soldados” che vide la vittoria degli Apache.
A partire dagli anni ’60 si intensificarono notevolmente gli scontri a fuoco con i bianchi, specialmente con i coloni e con i cercatori d’oro che penetravano nel territorio controllato dagli Apache.
A quel tempo gli Apache non avevano uno spazio riconosciuto dal governo americano e si trovavano spesso in conflitto con l’esercito perché impedivano il transito e la permanenza dei bianchi ove erano insediati da lunghissimo tempo. Seguirono furiose battaglie, alcune di esse famosissime, come quella di Apache Pass del 1862 in cui Victorio combatté a fianco di Mangas Coloradas e Cochise. A conclusione di un periodo costellato di episodi feroci, Cochise traghettò gli Apache verso un periodo di relativa pace ed il conseguente riconoscimento di territori a loro assegnati in maniera ufficiale. Erano le prime riserve Apache.


Un ritratto inedito di Cochise

Ai Mimbres di Victorio furono assegnati alcuni territori nel New Mexico, ma quella scelta non fu definitiva e anticipò di qualche anno nuovi trasferimenti in altre riserve. Un vai e vieni tra Canada Alamosa e Tularosa (1872) e poi ancora Ojo Caliente. Infine arrivò la decisione di spostare i Mimbres a San Carlos, ove avrebbero condiviso una grande riserva con numerose altre bande Apache.
I Mimbres non restarono a lungo nella riserva assegnatagli anche perché la cattiva gestione da parte del personale rendeva la vita veramente difficile. Preferirono fuggire via con Victorio e fare ritorno a Ojo Caliente, anche contro l’immediato ordine di trasferire ancora una volta il gruppo a San Carlos. Piuttosto che accettare quella nuova imposizione – incomprensibile agli occhi degli Apache – Victorio guidò oltre 300 persone verso la riserva dei Mescaleros a Fort Stanton.
Neppure questo posto consentì ai Mimbres di vivere pacificamente perché girava voce che sarebbero stati tutti arrestati e poi nuovamente deportati chissà dove. Non restò che la fuga (fine agosto del 1879, così come conferma il telegramma datato 21 Agosto 1879 dell’agente indiano di Fort Stanton, Russell, il quale comunicava al commissario degli affari indiani ed alle autorità militari la fuga generale dei Warm Springs dalla riserva Mescalero), stavolta in direzione del confine messicano. Gli Apache avevano bene in mente l’importanza della linea di confine tra stati e usavano varcarla frequentemente per sfuggire agli inseguitori. Purtroppo non sapevano che talvolta gli stati erano disposti a chiudere un occhio sui confini pur di rendere la vita impossibile a quegli Apache che veniva considerati solo delle bande di predoni.
Lo spostamento verso il Messico non passò inosservato e le giacche blu inseguirono i fuggitivi, costringendoli a continui scontri a fuoco. In quel periodo anche il famoso Juh si era unito al gruppo guidato da Victorio. Aldilà del confine gli Apache credevano di essere in salvo, almeno rispetto ai soldati americani, ma così non fu, dal momento che le truppe del Maggiore Albert P. Morrow attraversarono il Rio Grande e li raggiunsero in territorio messicano ingaggiando con loro un durissimo scontro nel quale ebbero però la peggio le truppe statunitensi.
Nel novembre del 1879, il giornale “Sun” di New York, riferì: “Victorio, il capo degli Apache Warm Springs, ha sconfitto i suoi inseguitori. Domenica scorsa (9 novembre) ha teso un imboscata a una compagnia di cinquanta uomini del Nuovo Messico che lo stavano braccando, uccidendone trentadue. Gli altri, benché feriti, sono riusciti a scappare e hanno potuto raccontare la storia.”
mappa black rangeLa mappa del Black Range
Secondo lo storico Dan Thrapp, nonostante il resoconto dell’avvenimento fosse confuso, le cifre riportate erano quasi esatte.
Dopo lo scontro con il maggiore Morrow – avvenuto il precedente mese di ottobre – Victorio si recò con la sua banda sui Monti Candelaria, uno dei rifugi preferiti degli Apache. Sui versanti settentrionali di questa catena montuosa era situato un pozzo d’acqua, da allora chiamato Tinaja de Victorio, e con ragione, visto che proprio là avvenne uno dei massacri più sanguinosi della storia dell’Apacheria.
A quanto pare proprio quel giorno presso il pozzo la banda di Victorio stava costruendo la propria rancheria quando le sentinelle annunciarono che si stava avvicinando una banda di messicani. Subito gli Apache scomparvero tra le rocce, attendendo nel silenzio più assoluto.
I messicani erano stati armati e mandati a perlustrare le montagne alla ricerca d’indiani ostili dal sindaco della cittadina di Carrizal (Chihuahua), posta a circa 30 miglia a sud dei monti Candelaria.
La storia di ciò che accadde a quei diciotto uomini e a coloro che li seguivano è raccontata in alcune lettere. In quella del giudice A. Jaquez – della Hacienda di El Carmen – si narra testualmente: “Poco fa (alle dieci e mezza di sera) ho mandato un gruppo armato alla città di Carrizal, su richiesta del sindaco della stessa, per gli scopi descritti nella seguente comunicazione a me inviata:
Città di Carrizal


Un ritratto giovanile di Victorio

Sono appena tornati venti degli uomini da me mandati in soccorso agli altri precedentemente partiti, i quali mi hanno informato di essere rimasti senza cavalli, e hanno raccontato che gli indiani hanno ucciso quindici di loro mentre stavano seppellendo i diciotto del primo gruppo, anch’essi ammazzati dagli indiani. I cadaveri sono rimasti insepolti sul campo, perché gli indiani si sono asserragliati alla Tinaja de la Candelaria che domina la strada principale fra El Paso e La Salada. Credo che soltanto radunando un gruppo di duecento uomini esperti sarà possibile tentare di scacciare gli indiani dalla posizione che occupano, o di seppellire i morti che, lo ripeto, sono più di trenta. Accludo la lista dei defunti che è stato possibile compilare.”
Il tenente George W.Baylor, che comandava un drappello della compagnia C del Battaglione di frontiera dei Ranger del Texas, in un’altra lettera inviata da Ysleta, raccontò come era rimasto coinvolto nella sanguinosa faccenda: “Dopo la sconfitta del maggiore Morrow, gli indiani, probabilmente duecento, proseguirono fino a circa 55 miglia ad ovest di qui, e si accamparono sulle Candelaria Mountains. Ma un gruppo di 15 messicani, i migliori cittadini di Carisal, trovò una traccia, la seguì, cadde in un imboscata, e fu sterminato. La scena del massacro era orribile. Vidi dietro un piccolo parapetto (che i messicani avevano frettolosamente eretto) sette cadaveri ammucchiati in uno spazio di circa un metro e ottanta per poco più di due metri. Gli indiani avevano dimostrato grande astuzia. Il sentiero passava fra tre colline rocciose. I messicani furono aggrediti quando giunsero sul crinale. Evidentemente erano già smontati; corsero al versante opposto alla collina dalla cima della quale gli indiani sparavano. Poi gli indiani aprirono il fuoco anche da una posizione quasi sovrastante alla loro e ammazzarono i cavalli legati. Tutti i messicani furono uccisi.


1880: Un gruppo di scout al comando di Gatewood

Fuori del parapetto venne trovata una loro lettera d’aiuto, vicino alle salme di due uomini che, evidentemente, erano stati crivellati di pallottole mentre cercavano di scappare. Altri trentacinque uomini, quasi tutti combattenti di Carisal, si recarono alla ricerca dei loro compagni, e gli indiani riuscirono ad attirarli sul luogo stesso del massacro, presso il quale ne uccisero undici. I cadaveri di tre che erano riusciti ad allontanarsi non furono ritrovati. Ne seppellimmo 26.”
A questo drappello di Rangers si erano uniti diversi altri gruppi di combattenti, provenienti da altre cittadine messicane, cosicché le forze unite contavano 179 combattenti, muniti di armi a retrocarica. Cercarono di ingaggiare combattimento con la banda di Victorio, ma le tracce rivelarono che gli Apache erano rimasti soltanto per circa due giorni, dopo il doppio massacro. Si erano poi dileguati. Infine, Baylor disse: “Nascosti fra le rocce, trovammo dieci selle appartenute ai defunti. Le spade e i fucili ad avancarica erano stati tutti spezzati, a dimostrazione che Victoria è ben provvisto d’armi. Le tracce conducevano a nord, quindi gli indiani stanno probabilmente tornando nel Nuovo Messico, dove presto sapremo di altri delitti.”
A confermare le summenzionate fonti “americane e messicane” – circa il doppio massacro del 9 novembre 1879, subito dai messicani sui Monti Candelaria – vi sono le dichiarazioni di Kaywaykla (un giovanissimo membro della banda di Victorio),il quale, sicuramente, si riferiva proprio a questo episodio quando narrò ad Eve Ball: “Nana raccontò che entrammo nel Messico durante la Luna Indiana (settembre); In quel periodo gli Apache e i Comanche facevano scorrerie per procurarsi cavalli. Sanchez, come Victorio, conosceva bene le abitudini dei messicani.
Fu più tardi che alcuni guerrieri riferirono al capo (Victorio) di una insolita agitazione che si era creata a Carrizal; molti uomini si riunivano in gruppi per discutere. Sanchez si offrì volontario per scoprire cosa stava accadendo. Tempo prima (Sanchez) aveva ucciso un vaquero vicino al Rio Grande, e ne aveva conservato gli abiti. Li indossò e montò su un cavallo e si avviò verso Carrizal. Girò tranquillamente, prese qualcosa da bere nella cantina e si fermò a parlare con dei mozos (servi). Così venne a sapere che i messicani stavano preparando un piano per invitare Victorio e i suoi uomini al villaggio per farli ubriacare e ucciderli. Sanchez parlò con altri vaqueros e se ne andò indisturbato. Il giorno dopo, infatti, un indiano Tarahumara venne al campo per invitarci a Carrizal. Il capo(Victorio) lo ricevette cortesemente, ringraziandolo, e ordinò che l’uomo fosse lasciato libero di tornare al villaggio. Molti guerrieri erano fuori alla ricerca di munizioni, ed era un bene, perchè così il Tarahumara avrebbe riferito di aver visto solo un piccolo gruppo di guerrieri. Quando i guerrieri tornarono con cavalli razziati, in un primo momento, Victorio fù contento. Ma Sanchez vide il marchio e scosse la testa. Era quello di Terrazas, il capo (governatore) della città dei muli (Ciudad Chihuahua), che sicuramente si sarebbe vendicato. Victorio decise di tendergli un imboscata: nascose le donne e i bambini in una mesa sopra il canyon, e dopo aver fatto appostare i guerrieri, si mise ad aspettare. La vegetazione sulla mesa era fitta, i guerrieri potevano controllare il canyon senza essere visti. Alle nostre spalle c’era un arroyo (torrente asciutto), dove nascondemmo i cavalli già sellati.


Statua di Victorio a Chihuahua


Come sempre vennero messi osservatori dovunque. Ogni guerriero di guardia aveva con sé un piccolo specchio per i segnali. Victorio sistemò alcuni guerrieri scelti lungo il pendio settentrionale del canyon, da cui si poteva dominare il torrente, e Nana ne condusse altri sul pendio a sud, che si nascosero dietro ai massi. Victorio rimase insieme a noi sulla mesa, fino a quando alcuni segnali che provenivano dall’entrata del canyon non lo avvertirono dell’arrivo dei nemici. Si sdraio su una roccia, scrutando con un binocolo: era il primo che vedevo, disse Kaywaykla. Messicani, non soldati, disse Victorio, e raggiunse Nana con i suoi guerrieri. I messicani avanzavano verso il canyon risalendo, in fila, il torrente. Smontarono da cavallo per bere e proseguirono dritti verso il luogo dell’imboscata. Kayatennae li lasciò passare davanti al suo nascondiglio, prima di aprire il fuoco. Quelli che si trovavano sulla sinistra, uccisero tutti i cavalli prima di colpire gli uomini: dei 12 messicani, 2 morirono mentre gli altri si ritirarono verso sud, dove erano appostati i guerrieri di Nana. Tutto durò pochi minuti. I guerrieri camminarono tra i corpi, raccogliendo fucili e munizioni, e non appena uno di questi dava segni di vita, veniva infilzato con una lancia. Presero le casacche, le selle e risalirono faticosamente la mesa. Non ci furono torture né mutilazioni. Lo so perché avevo osservato quanto era accaduto. Victorio arrivò, ma non diede l’ordine di montare a cavallo e rimanemmo al campo. Nessuna danza fu fatta per la vittoria conseguita, nonostante le insistenze dei guerrieri più giovani. Chi stava di guardia non si mosse. Mentre i giovani si dividevano il bottino, Victorio si allontanò. Ando dalla nonna (di Kaywaykla) per avere del cibo e rimase in silenzio. Sembrava depresso.
Un secondo gruppo di ricos venne a cercare i compagni che erano morti. Ma gli avvoltoi e i lupi avevano lasciato poco dei loro corpi e lo stesso accadde a quest’altro gruppo. Tutto avvenne senza che nessun Apache fosse ferito. Dopo, Victorio ordinò di muoversi.”
A partire dal gennaio del 1880 Victorio era nuovamente in azione nel New Mexico, impegnato in ogni genere di scorribanda ai danni degli americani, costantemente inseguito dalle truppe regolari americane che, tra l’altro, vennero impegnate in combattimento più volte e almeno in due casi vennero sconfitte.
Dopo questi episodi (tra gennaio ed aprile del 1880), lo stato maggiore americano pensò di dover punire gli Apache Mescaleros, accusati di aver aiutato costantemente i loro fratelli Mimbres, da tempo alla macchia.
La decisione che ne seguì fu di disarmare i Mescaleros, ma questi non digerirono quella che sapevano essere una profonda ingiustizia e preferirono allontanarsi a loro volta dalla riserva, aprendo un nuovo fronte nell’eterna lotta agli Apache ribelli.
Fino ad ottobre di quello stesso anno Victorio proseguì la sua guerriglia, spostandosi tra il Messico, il New Mexico, il Texas e l’Arizona.
Proprio in Messico trovò probabilmente la morte. Dopo aver ripetutamente tentato di rientrare negli Stati Uniti attraverso la classica via del Rio Grande ed essere stato respinto, finì imbottigliato con tutta la sua banda nella zona di Tres Castillos.
Gli indiani erano quasi privi di munizioni ed impossibilitati ad organizzare una vera ed efficace reazione nei confronti delle truppe del Tenente Colonnello Joaquin Terrazas.
Dopo un anno di combattimenti quasi giornalieri, inseguiti come fiere, il gruppo Apache di Victorio, stanco ed affamato, quasi senza munizioni, si accampò a circa 30 miglia ad est della Città dei Muli (come loro chiamavano la città di Chihuahua, capitale dell’omonimo stato), diretti ad ovest, verso la Sierra Madre.
Victorio conteso tra due nazioni
Diversi guerrieri al comando di Blanco furono inviati a Santa Rosalia per ottenere armi e munizioni, mentre un altro gruppo di consanguinei Mescaleros cercavano di trovare del cibo. Quattro giorni dopo, cominciarono ad intraprendere la marcia – verso la morte – che li attendeva inesorabile a Tres Castillos (tre colline di roccia granitica nel mezzo del deserto Chihuahuense), dove arrivarono il 14 di ottobre del 1880, quasi nell’oscurità… disse uno dei sopravissuti (Kaywaykla).
Riferisce ancora Kaywaykla che erano circa 400 donne e bambini… protetti solo da circa 20 guerrieri: 10 in avanguardia con Nantan Victorio, ed altrettanti in retroguardia con il vecchio Nana, Suldeen, Mangus, Eklode e Kayatennae, tra gli altri. Mentre il grosso degli Apache – donne e bambini – formavano una lunghissima fila nel mezzo.
Queste dichiarazioni, chiaramente, mettono in dubbio la notoria versione ufficiale messicana riportante l’uccisione – e lo scotennamento – di 62 guerrieri e 16 donne e bambini. Seguendo la versione di Kaywaykla , queste cifre potrebbero corrispondere all’esatto opposto….. considerato che lo scalpo di un guerriero veniva pagato il doppio rispetto a quello di una donna, e che nel momento delle riscossioni delle taglie non vi poteva essere distinzione alcuna tra uno scalpo femminile ed uno maschile. Infine, le stime Messicane relative alle perdite subite durante la battaglia, riportano solo tre uomini uccisi (Nicanor Aguilar, Serapio Munoz e Luis Rubio) e 10 feriti, 4 dei quali gravi. Troppo pochi, forse, per poter affermare che i 260 messicani di Joaquin Terrazas combatterono davvero – annientandoli – contro almeno 62 guerrieri Apache che difendevano le proprie famiglie(il qual fatto, poi, lascia credere che, considerando i fuggitivi, il gruppo guerriero fosse ancor più consistente).
Victorio si trovò certamente a corto di munizioni….ma agli Apache non potevano mancare di certo i loro potenti archi… con i quali erano degli autentici maestri.
La verità appare sepolta nel tempo… a Tres Castillos… ma seri e forti dubbi rimangono sulla versione ufficiale messicana.
Giunti al lago di fronte ai Tres Castillos – riferisce Kaywaykla – giusto quando l’avanguardia smontava da cavallo e le prime donne arrivate si apprestavano ad accendere i fuochi, tra la penombra, i Messicani li attaccarono di sorpresa uccidendo diversi di loro. La fila – donne, vecchi e bambini – era lunghissima e la retroguardia non fece neanche a tempo ad arrivare ai Tres Castillos che l’avanguardia era stata quasi completamente imboscata e massacrata. I sopravvissuti fuggirono verso uno dei Tres Castillos, (la collina più meridionale delle tre).
La persecuzione contro di questi fu implacabile. L’esperto Dan Thrapp menziona l’uso di dinamite per stanare quelli che resistevano tra le rocce.
El Heroe de Tres Castillos, Joaquin Terrazas – nel suo rapporto – menziona furiose lotte corpo a corpo… con gli uomini tra le rocce che si afferravano entrambi dai capelli.
Tuttavia, è assodato che un certo numero di Apache riuscì a fuggire (la retroguardia), Nana, Mangus e Kayatennae, tra questi, nonchè Kaywaykla e sua madre Gouyen, che facevano parte della “lunga fila centrale di non combattenti”.
Ma i corpi dei morti – uomini, donne e bambini – furono mutilati per strappare loro le preziose capigliature. Un’altra donna Apache, catturata dai messicani e in seguito liberata da Kayatennae, narrò di un grande fuoco – presso il lago posto di fronte ai Tres Castillos – dove venivano concentrati i prigionieri Apache catturati….e dove venivano bruciati i cadaveri mutilati.
I sopravvissuti, invece, furono portati a Ciudad Chihuahua per essere venduti come schiavi, nonostante lo schiavismo fosse stato abolito già da molto tempo.
Gli “eroici 260 messicani” (i cui nomi sono stati tramandati) con le loro mani sporche di sangue, furono ricevuti e considerati eroi dal governo di Don Luis Terrazas, il ricchissimo e potente governatore dello stato, cugino di Joaquin e furono pagate tutte le ricompense. Una fonte riporta la cifra di 17.250 pesos per gli scalpi e 10.200 per i prigionieri, 2000 pesos (alcuni dicono 3000) per il solo scalpo del grande Beduyat alias Victorio, certamente il vero eroe di Tres Castillos.
Victorio morì certamente in occasione del famigerato massacro di Tres Castillos. In tal senso le testimonianze Apache e le investigazioni dell’esperto Dan Thrapp stabiliscono che il tenente-colonnello Joaquin Terrazas – capo delle forze rurales messicane – fece uccidere diversi Apache che si rifiutavano di segnalare quale fosse il corpo di Victorio; infatti, nessuno dei Messicani lo conosceva.
Lo stesso Thrapp aggiunge: “Joaquin Terrazas non era in grado di identificare Victorio e seppe per certo che era stato ucciso quando fu informato di ciò da due fanciulli messicani liberati, Felix Carrillo di 12 anni e Felipe Padilla di 10.”
Dopo essere stato informato che Victorio era il capo della banda, e dopo che gliene fu indicata la salma, Joaquin Terrazas, come egli stesso raccontò, ne ottenne conferma dai prigionieri.
“L’indiano Victorio è morto, stando a ciò che consente d’identificarlo” – riferì quello stesso giorno in un messaggio al governatore – “e a ciò che mi è stato detto da coloro che lo hanno conosciuto, nonché alla testimonianza dei prigionieri, gli indumenti e l’equipaggiamento personale che ho recuperato, e che potevano appartenere soltanto a un capo indiano di una certa importanza.”
A tutto ciò vi è da aggiungere l’articolo di un corrispondente del Chicago Times, presente a Chihuahua City, durante l’ingresso trionfale delle truppe di Terrazas in città. Riporto solo il passaggio che ci interessa: “Al segnale, il battaglione avanzò, e allora si scoprì che non si trattava di pennacchi, bensì degli scalpi orrendi dei nemici uccisi, mostrati alla folla, che urlò e gridò, folle di entusiasmo, seguendo i cavalieri. Ogni scalpo era assicurato alla cima di un palo lungo circa tre metri. Alcuni vincitori, in fila per quattro, portavano gli scalpi. Li contammo: erano 78, di cui 16 di donne e bambini. Mi ero aspettato di vedere qualche scalpo, naturalmente, ma la lunga fila nera di orribili trofei era di gran lunga più orrenda di quanto avessi previsto: in molti casi era stato strappato l’intero cuoio capelluto, insieme a tutta la chioma. Una folla immensa, composta di uomini, donne e bambini che si spingevano a vicenda, pazzi di esultanza, fu seguita da una banda la cui musica veniva di quando in quando soffocata dalle acclamazioni. Poi arrivò il colonnello Terrazas con i suoi ufficiali, stanchi e sporchi per il viaggio. I prigionieri montavano cavalli e muli: erano soltanto donne e bambini di tutte le età, dall’infanzia alla vecchiaia, tranne un Comanche, che era stato risparmiato dall’esploratore Cruz. I portatori di scalpi e le salmerie seguivano i prigionieri. I volontari erano molto sporchi e imbrattati di sangue, naturalmente, ma sotto questo punto di vista non potevano uguagliare gli Indiani, e quanto all’aspetto torvo, superavano tutto ciò che abbia mai visto o immaginato. Lo scalpo di Victorio, visibilmente tinto di grigio, era portato da colui al quale era riconosciuto il merito di avere ucciso il capo.”
Quanto alla sua morte, è bene ricordare che le versioni Apache – differenti da quella ufficiale messicana, che attribuisce l’uccisione di Victorio allo scout Tarahumara Mauricio Corredor – riferiscono che Victorio venne trovato a Tres Castillos con il proprio pugnale conficcato nel cuore e con le cartuccere senza pallottole. Nella sostanza, secondo gli Apache, Victorio si era suicidato.
Su Victorio, scrisse Dan Thrapp: “Il più grande guerrigliero d’America può essere accomunato a personaggi eterogenei: Francis Marion, la volpe delle paludi; William Clarke Quantrill, famigerato per il massacro di Lawrence; John Singleton Mosby, il grande cavalleggero confederato; Charles Merrill, lo scorridore della Birmania; e molti altri ancora.
Victorio fu un combattente dello stesso stampo, ma con una differenza. Mentre gli altri presero le armi volontariamente e combatterono in risposta a quello che consideravano il richiamo della patria, Victorio s’impegnò nella sua lunga battaglia perchè non ebbe altra scelta e per la sopravvivenza di un popolo agonizzante.
Nessun Apache di cui sia rimasta memoria storica, neppure il possente Mangas Coloradas, suo predecessore, e nemmeno l’indomito Cochise, suo amico e compagno, inflissero tali sconfitte al nemico. La sua grandezza stette in questo, e sopratutto nel modo in cui ottenne le proprie vittorie, nonostante le condizioni di svantaggio in cui si venne a trovare. Effettuò tutte le proprie manovre intralciato dalla presenza delle donne, dei bambini e dei vecchi, mantenne unito il suo popolo durante tutte le battaglie, le ritirate, le fughe, le scorrerie per procurare quanto era necessario alla sopravvivenza: non abbandonò mai la sua gente; e con essa, alla fine, fu annientato.
Soltanto per questo sarebbe un condottiero unico. A tutto ciò, però, si aggiunge il fatto che Victorio combattè senza poter contare su nessuna organizzazione di approvvigionamento, se non quella che riuscì a creare con la propria abilità.”