Il processo e l’esecuzione dei ribelli Dakota nel 1862

A cura di Anna Maria Paoluzzi

I cittadini di New Ulm infuriati contro i Sioux prigionieri
Gli ultimi giorni di settembre di quell’anno 1862 lasciavano presagire un inverno freddo, ma gli oltre milleduecento prigionieri Dakota ammassati nell’accampamento di Camp Release non avevano speso un solo pensiero per l’imminente stagione fredda.
Per alcuni forse era ancora troppo presente il ricordo dei giorni bollenti dell’agosto appena trascorso, quando la fame e le privazioni erano esplose nella guerra contro i bianchi, una guerra fatta di saccheggi frenetici e uccisioni. La maggior parte dei prigionieri però concentrava la propria attenzione ansiosa sui soldati bianchi che circondavano l’accampamento per impedire loro di allontanarsi, mentre i loro sguardi, incrociandosi, esprimevano la stessa muta domanda: “Quando ci lasceranno tornare a casa?”
La mattina del 28 settembre,la vista di un gruppo di bianchi – cinque soldati e un civile – che entravano solennemente nella baracca di tronchi al centro dell’accampamento fornì, se non una risposta, almeno un diversivo agli indiani angosciati.
Il sollievo fu però solo momentaneo e una nuova ansia si sostituì alle precedenti quando un grosso gruppo di indiani e sanguemisto fu spinto a forza nella baracca e la porta si richiuse dietro di loro.
Quello che gli indiani non potevano immaginare era che quella catapecchia senza pretese era diventata il tribunale dove si sarebbe svolto il più grande e controverso processo a imputati indiani in tutta la storia degli Stati Uniti d’America. I cinque soldati – il colonnello Crooks, il tenente colonnello Marshall, i capitani Grant e Bailey e il tenente Olin – formavano l’appena nominata commissione militare incaricata di processare i Sioux responsabili delle violenze che per circa quaranta giorni avevano incendiato il Minnesota.


Mappa dell’insurrezione – clicca per ingrandire

Gli indiani, affamati per il ritardo delle razioni governative e infuriati dalla sprezzante indifferenza dei responsabili dell’agenzia e dei mercanti bianchi, erano scesi sul sentiero di guerra, dove avevano lasciato una scia di oltre 500 morti, tra cui molte donne e bambini. Alla fine della guerra, il generale Pope, che era stato sollevato dal suo incarico nella Guerra Civile in corso e incaricato della repressione della rivolta, aveva espresso chiaramente il sentimento popolare nei confronti dei Sioux, dichiarando: “Bisogna trattarli come pazzi o bestie feroci, e in nessun caso come gente con cui si possano fare trattati o compromessi.”
I membri della commissione militare, pur consapevoli che i residenti locali, dai cittadini di Mankato e New Ulm fino all’ultimo dei coloni non avrebbero chiesto di meglio che macellare con le proprie mani i prigionieri Dakota, avevano però avuto il preciso incarico di assicurare un processo vero e proprio agli indiani. Se dovevano morire, sarebbero morti in modo legalmente ineccepibile.


I Dakota prima della rivolta

A spaventare i giurati era però il numero enorme degli imputati da giudicare: quasi quattrocento Dakota! In un tribunale ordinario, sarebbero stati necessari mesi per il processo, contando anche il fatto che gli imputati non parlavano inglese e che li si sarebbe dovuti interrogare tramite un interprete. Non che la commissione avesse trascurato questo fatto: Antoine Frenier, un mercante di origine francese che aveva vissuto a lungo tra i Sioux, era stato convocato proprio a questo proposito. Alla fine, per evitare eventuali complicazioni dovute al suo compito pastorale, si era deciso di non servirsi dell’opera di Stephen Riggs, il ministro protestante che aveva raccolto le testimonianze degli indiani e fatto avere i nomi dei prigionieri coinvolti nei massacri. Pur salvando le forme, era chiaro a tutti i giurati che si sarebbe dovuto procedere nel modo più rapido possibile: la rabbia dei coloni saliva di giorno in giorno e il rischio di un assalto al campo, con il conseguente massacro di tutti i prigionieri indiani, donne e bambini compresi, diventava sempre meno un’ipotesi e sempre più una certezza. La parola d’ordine implicita era: processarne quanti più possibile e alla svelta. Isaac Heard, il giovane procuratore legale che svolgeva le funzioni di cancelliere, avrebbe avuto parecchio da scrivere nelle ore successive.


I profughi di New Ulm

I prigionieri indiani non sembravano particolarmente preoccupati o tesi. Alcuni di loro guardavano con curiosità o persino sorridevano ai membri della commissione e ai testimoni bianchi che entravano lentamente nella baracca. Altri erano evidentemente frastornati e non sembravano comprendere cosa si volesse da loro. Neanche l’interprete sembrava in grado di dar loro una spiegazione efficace del procedimento in corso. In qualche modo però si doveva pur iniziare e forse non fu un caso che il primo imputato condotto davanti alla commissione fosse l’unico a non aver sangue indiano: il meticcio Joseph Godfrey, che i prigionieri chiamavano Otakle, Molte Uccisioni, lavorante presso l’agenzia e sposato con una delle figlie del capo Dakota Wakpaduta.
Come precisò puntigliosamente il pubblico ministero, il maggiore Forbes, Godfrey era accusato di essersi unito agli indiani in azioni di guerra contro pacifici cittadini americani e di averne uccisi sette, tra cui anche donne e bambini.


La folla aggredisce i prigionieri

Le testimonianze addotte contro di lui erano quelle di tre prigioniere bianche, Mary Woodbury, Mary Swan e Mattie Williams, che dichiararono di averlo visto partire per una spedizione di guerra, “dipinto e vestito solo di un perizoma” insieme agli altri indiani, urlando e intonando canti di guerra insieme a loro. Mary Woodbury dichiarò anche di aver sentito un altro indiano lodare il suo valore e di aver ascoltato lo stesso Godfrey vantarsi di aver ucciso sette coloni. Un altro testimone, David Faribault, confermò quest’ultima testimonianza aggiungendo che Godfrey aveva a suo tempo precisato che sette erano gli uomini che aveva ucciso; aveva massacrato anche dei bambini, che però non aveva contato perché la loro uccisione aveva meno valore.
Quando gli fu chiesto se si dichiarava colpevole o innocente, Godfrey assunse un’aria contrita e, come scrisse lo stesso Isaac Heard, “con un tono così sincero e una delle voci più dolci che io abbia mai udito”, dichiarò in un inglese stentato che egli non avrebbe mai voluto unirsi ai rivoltosi, e che aveva cercato di scappare insieme alla moglie indiana, ma che era stato trattenuto dal padre e dallo zio di lei.
Quindi era stato costretto a spogliarsi, a dipingersi con i colori di guerra e a unirsi ai guerrieri indiani. Li aveva seguiti quindi in una serie di attacchi ad abitazioni civili e a carovane isolate, in cui erano stati massacrati anche donne, vecchi e bambini (Godfrey non esitò, tra l’altro, ad accusare suo suocero Wakpaduta di aver sparato a una donna anziana che giaceva a letto malata).


Il campo prigione allestito per contenere i Dakota

Pur essendo sempre stato presente ai massacri, Godfrey sostenne di non aver mai ucciso nessuno e di essersi limitato “a colpire un uomo con il manico di un’accetta”, soltanto per timore di essere ucciso a sua volta e comunque mai di sua spontanea volontà. Anche se la testimonianza delle tre donne bianche, che dichiarono di averlo visto genuinamente entusiasta della rivolta e dei massacri sembravano inchiodarlo, la giuria fu evidentemente colpita da Godfrey. Sembrava sincero nelle sue dichiarazioni e il fatto che avesse fatto dei nomi, tra cui quelli di alcuni dei suoi familiari, costituiva un punto a suo favore. Anche se fu pronunciato un verdetto di colpevolezza, con conseguente condanna a morte, la giuria fece raccomandare nel verbale la commutazione della pena a dieci anni di carcere, come poi di fatto avvenne. Non solo: dal momento che Godfrey parlava bene il Dakota, gli fu permesso di restare vicino alla giuria e di interrogare direttamente gli altri prigionieri, un fatto che in qualsiasi altro tribunale sarebbe stato considerato un’infrazione gravissima. Cinquantacinque furono gli imputati condannati a seguito delle accuse e degli interrogatori condotti da Godfrey.


La capanna adibita a tribunale

Il primo giorno furono giudicati sedici imputati, dieci dei quali furono condannati a morte. Lo stesso ritmo ossessivo venne mantenuto nei giorni seguenti, durante i quali si avvicendarono davanti alla giuria imputati di tutte le età, “ragazzi di quindici e vecchi incapaci di ricordare la propria età”. Il procedimento era sempre lo stesso: si enunciavano i capi d’accusa, si chiedeva al prigioniero se si dichiarava innocente o colpevole; nel primo caso, venivano ascoltati i testimoni, nel secondo, si pronunciava la sentenza senza stare a cavillare troppo sul fatto che il prigioniero avesse capito bene cosa gli veniva chiesto. Gli imputati giudicati colpevoli di furto o rapina (per provare questo capo d’accusa era sufficiente che venissero trovati in loro possesso oggetti appartenuti ai coloni) venivano condannati a dieci anni di carcere; quelli accusati di specifici omicidi, o anche solo di esser stati presenti agli scontri con le truppe, venivano condannati all’impiccagione.
Naso Tagliato
Due o tre casi, oltre a quello di Godfrey, dovettero colpire l’immaginazione popolare. Il primo fu quello di Naso Tagliato, conosciuto dalla sua gente come Mahpiya Okinajin, Colui-che-si-erge-tra-le-nuvole, accusato di aver massacrato una carovana di profughi in modo orrendo, crocifiggendo tra l’altro un bambino a uno steccato davanti agli occhi della madre, prima di farla a pezzi. La giuria non esitò minimamente a condannarlo a morte, così come non esitò nei casi dei prigionieri accusati di stupro. Uno di essi, Tehedonecha, negò con decisione di aver mai ucciso un solo bianco, ma ammise di aver stuprato Margaret Cardinal, una delle prigioniere. Tehehdonecha, come gli altri Dakota, non aveva un avvocato difensore perché il colonnello Sibley, il comandante dei volontari che aveva nominato la commissione militare, aveva ritenuto che in circostanze simili il procedimento regolare non dovesse essere applicato. Tehedonecha quindi inconsapevolmente si consegnò alla morte da sè perché ignorava ciò che qualunque avvocato avrebbe potuto dirgli: lo stupro di una donna bianca per la legge statunitense era ritenuto un crimine sufficiente per condannare qualcuno a morte. Anche Tazoo, un indiano in età avanzata, che aveva ammesso goffamente di “aver tentato di far l’amore con la prigioniera bianca (Mattie Williams)” ma di “essersi fermato, perché era troppo giovane” fu condannato a morte. L’ età non salvò nessuno dal processo: un vecchio “rugoso e gemente” secondo quanto raccontato dallo stesso cancelliere Heard, fu condannato a morte a causa della testimonianza di due bambini che dichiararono di averlo visto sparare a sangue freddo a due coloni disarmati.
Tehedonecha
In alcuni casi tuttavia anche la stessa corte dovette sentirsi a disagio per il contrasto tra l’orrore dei crimini di cui erano accusati gli imputati e il loro aspetto misero, quasi patetico. Un vecchio di più di ottant’anni, semiparalizzato (“gli occhi e la bocca gli si aprivano a scatti, in modo alterno”) fu colpito ripetutamente con dei pugni durante l’interrogatorio per impedire che si addormentasse. Fu assolto, ma due malati di mente (“mezzi idioti”) furono condannati all’impiccagione. L’unica donna Dakota processata per omicidio (“secondo alcune voci aveva ucciso due bimbi con le sue mani”) fu invece assolta da quest’accusa, ma condannata al carcere per essersi impadronita di parte del bottino proveniente dalle razzie.
Ma il caso più singolare, per la giuria e i testimoni, dovette essere senza dubbio quello di Wechankwashtodopee. Questo Dakota, che aveva abbracciato da tempo il cristianesimo e tentato di adattarsi alla vita del contadino proposta dai bianchi, si ritrovò davanti a degli uomini pronti a decretare la sua morte senza avere la minima idea di quali crimini avesse commesso. Era stato di fatto accusato di omicidio e c’ era anche per il suo caso una testimone bianca. Tuttavia, a differenza di quanto accaduto negli altri processi questa donna, Sarah Wakefeild, era venuta a parlare in favore dell’imputato. Moglie di un medico dell’Agenzia Inferiore dei Dakota, Sarah si era data alla fuga insieme ai sue due bambini insieme a un gruppo di profughi che era stato successivamente attaccato da tre indiani. Wechankwashtodopee, che faceva parte del gruppo, aveva impedito agli altri indiani di uccidere Sarah e i suoi bimbi e li aveva poi portati nella sua tenda, dove lui e la sua vecchia madre li avevano nutriti e protetti dai loro stessi compagni.


La testimonianza di un bambino

Sarah negò con decisione di essere stata maltrattata o molestata (attirandosi così anche le accuse di alcuni coloni che l’accusarono di essere un’ “amica degli indiani” e di aver avuto una relazione illecita con Wechankwashtodopee) e sostenne di dover la vita al prigioniero indiano; un altro testimone, Angus Robertson, confermò le sue parole, ma alla corte sembrò evidentemente troppo strano che una donna bianca rischiasse la reputazione per difendere un indiano e Wechankwashtodopee fu condannato a morte.
I processi si susseguirono a un ritmo forsennato; in sei settimane, furono processati 393 indiani. Settanta furono quelli assolti e venti quelli condannati al carcere. I rimanenti 303 furono condannati all’impiccagione.
Mentre la commissione militare, ormai stordita dall’interminabile successione dei processi, si scioglieva tra il sollievo generale e il cancelliere Heard faceva finalmente riposare le dita indolenzite dal troppo scrivere, pensieri dubbiosi attraversavano la mente degli unici bianchi che avevano assistito a tutti i processi senza unire le loro voci al coro di quelle che invocavano vendetta. Stephen Riggs, il missionario protestante che aveva per tanti anni vissuto tra i Dakota, imparandone la lingua e le usanze, aveva osservato a lungo i membri della giuria, chiedendosi se le sentenze emesse sarebbero state le stesse anche se gli imputati fossero stati dei bianchi americani.
La risposta che gli sorse spontanea non dovette sembrargli soddisfacente, come non soddisfacenti apparvero le stesse sentenze agli occhi del vescovo episcopaliano Whipple.
Il vescovo Whipple
Perché uomini che avevano semplicemente dichiarato di aver preso parte a delle battaglie dovevano essere condannati a morte per omicidio? Probabilmente il pensiero del vescovo dovette andare al conflitto civile allora in corso. Altre giurie militari avrebbero riservato la stessa sorte a dei prigionieri sudisti? Turbati da questi quesiti, al termine dei processi, intorno al 20 novembre Riggs e Whipple inviarono una missiva al presidente Abraham Lincoln, invocando la grazia per i prigionieri condannati a morte soltanto per aver preso parte a degli scontri armati.
Quello che il reverendo Riggs e il vescovo Whipple ignoravano era che Lincoln era già stato informato dell’andamento dei processi dallo stesso comandante in capo delle forze armate incaricate della repressione, il generale Pope, che aveva aggiunto al suo dispaccio una nota in cui raccomandava al presidente di autorizzare tutte le esecuzioni e lasciava intendere che un’eventuale grazia avrebbe potuto scatenare la rabbia popolare e causare una sommossa. La reazione di Lincoln non si fece attendere, ma non fu quella che Pope avrebbe sperato: alle raccomandazione del generale, il presidente rispose seccamente ordinando che nessuna esecuzione avesse luogo senza la sua personale ratifica.
Il reverendo Riggs
Il pensiero di trecentotrentatrè forche aveva indubbiamente turbato Lincoln, che spese i giorni successivi a revisionare personalmente i rapporti su ogni singolo caso. L’arrivo a Washington del vescovo Whipple, che perorò appassionatamente la causa dei condannati, insistendo anche sulle ingiustizie che avevano spinto i Dakota alla rivolta, rafforzò i propositi del presidente. Quando, il 6 dicembre 1862 la revisione dei processi fu terminata, più di duecentocinquanta sentenze di morte erano state cancellate. Il numero dei condannati era ancora altissimo, trentanove, ma Lincoln ritenne evidentemente di non poter spingersi oltre. Il decreto con cui si autorizzavano le 39 impiccagioni suonava così:
Si ordina che il giorno 19 dicembre, venerdì, vengano giustiziati gli indiani negli ultimi tempi detenuti in Minnesota e condannati all’impiccagione dalla commissione militare composta dal Colonnello Crooks, dal tenente colonnello Marshall, dal capitano Grant e dal capitano Bailey e dal tenente Olin qui sotto elencati [seguono 39 nomi indicati con il numero del rapporto: i casi 2, 4, 5, 6, 10, 11, 12, 14, 15, 19, 22, 24, 35, 67, 68, 69, 70, 96, 115, 121, 138, 155, 170, 175, 178, 210, 225, 254, 264, 279, 318, 327, 333, 342, 359, 373, 377, 382, 383]
Gli altri prigionieri condannati verranno trattenuti fino a ordini successivi e ci si assicurerà che non fuggano e che non siano soggetti a violenze illegali.
Abraham Lincoln, Presidente degli Stati Uniti.

Il decreto di Lincoln
Tra le sentenze annullate da Lincoln c’era anche quella di Wechankwashtodopee, il salvatore di Sarah Wakefeild.
Nel frattempo, i trecentotrè Dakota condannati erano già arrivati a un passo dalla morte. Il 9 novembre, quando erano stati trasferiti da Camp Release alla prigione di Camp Lincoln, nei pressi della cittadina di Mankato, avevano dovuto attraversare la città di New Ulm, dove si era svolto uno degli scontri più cruenti della rivolta. Alla vista degli indiani prigionieri, una rabbia bestiale si era impossessata dei coloni di New Ulm, che avevano attaccato i carri che trasportavano i Dakota e assalito gli indiani legati con calci, pugni e bastoni. Così più tardi ricordò quel momento Wakanazhazha, uno dei prigionieri successivamente graziati: “Fummo massacrati di botte; alla fine avevo le braccia, i piedi e la testa ridotti a una poltiglia di carne sanguinante, come manzo crudo. Per me resta ancora un mistero il modo in cui riuscii a uscirne vivo.
Altri non ebbero la stessa fortuna: il fratello di Wakanazhazha e altri prigionieri rimasero uccisi. Una donna bianca strappò un bimbo indiano dalle braccia della madre (alcune delle donne erano state condotte via insieme ai prigionieri per far loro da cuoche e lavandaie) e lo sbattè a terra con violenza, finché il piccolo morì.


L’interno della prigione in cui erano detenuti i Dakota

Arrivati alla prigione di Camp Lincoln, per gli indiani iniziò paradossalmente un periodo di tranquillità. Anche se alcuni di loro, specialmente i mezzosangue che parlavano un po’ di inglese, avevano cominciato a rendersi conto del destino che li aspettava, per la maggior parte la detenzione nelle anguste stanze del carcere fu un sollievo dopo la terribile esperienza del linciaggio di New Ulm. Quello che gli indiani non potevano sapere era che all’esterno, tra i coloni del Minnesota che aspettavano soltanto la loro esecuzione, si era diffusa la voce della grazia concessa dal presidente alla maggior parte dei condannati. Jacob Nix, il comandante dei volontari di New Ulm, aveva parlato per la quasi totalità dei cittadini quando aveva urlato rabbiosamente:?“Occhio per occhio! Dente per dente! Dopo la cattura di questi criminali, non si sarebbe dovuto perder tempo: avremmo dovuto sparare o impiccare tutti quelli che avevano preso parte agli orribili crimini perpetrati in Minnesota durante l’estate del 1862.”
Affermazioni del genere causavano notevoli preoccupazioni al governatore del Minnesota, Alexander Ramsey e allo stesso generale Pope, che in una nuova missiva a Lincoln sottolineò che: “Se i colpevoli non saranno giustiziati, credo sarà impossibile impedire il massacro indiscriminato di tutti gli indiani (compresi) i 1500 tra donne, bambini, e vecchi innocenti tuttora prigionieri.”


L’ultima visita ai Dakota

I timori di Pope sembrarono concretizzarsi drammaticamente il 4 dicembre, quando una folla inferocita armata di asce, coltelli e bastoni prese d’assalto il carcere per massacrare i prigionieri. La guarnigione incaricata della sorveglianza dei condannati riuscì a respingere l’assalto, ma la paura e la tensione si erano ormai impadronite sia delle autorità civili che di quelle militari. La data dell’esecuzione, fissata da Lincoln per il 19 dicembre, dovette però essere rinviata al 26 dicembre per un motivo freddamente tecnico: lo speciale palco per le esecuzioni, che doveva portare il peso di ben 40 condannati, non era ancora terminato.
La vigilia di Natale, due giorni prima dell’esecuzione, agli indiani prigionieri fu concesso di incontrare per l’ultima volta parenti e amici. Fu una scena commovente anche per gli occhi cinicamente curiosi del corrispondente della St.Paul Gazette di Mankato, che descrisse queste scene di addio come “dolorose e toccanti”. Alcuni dei prigionieri non vollero incontrare le loro mogli, figlie o sorelle, per timore di cedere all’emozione e mostrarsi deboli davanti a loro. Consegnarono a parenti e amici ciocche di capelli e quei pochi oggetti personali che avevano ancora con loro, perché li consegnassero ai loro familiari assenti.


Si prepara l’esecuzione dei 38 Dakota

Molti di loro, tra cui Tazoo, si dichiararono innocenti e dissero di aspettare la morte come una liberazione e un passaggio a un’esistenza migliore. I missionari presenti, il cattolico padre Ravoux e il pastore protestante Williamson riuscirono a persuadere molti ad accettare il battesimo. Il desiderio di una nuova vita dopo la morte era evidentemente fortissimo nei condannati.
Tutti i prigionieri, tranne i tre mezzosangue condannati, si dipinsero quindi secondo le usanze del loro popolo e indossarono gambali e coperte. Trascorsero quindi il giorno di Natale aspettando la morte; padre Ravoux rimase giorno e notte con loro.


L’esecuzione dei Dakota

La mattina del 26, il giorno dell’esecuzione, quando entrarono gli ufficiali incaricati di prepararli, i Dakota non mostrarono alcun timore. Rinfrescarono la pittura sui loro corpi e quindi il vecchio Tazoo intonò il canto di morte indiano a cui si unirono tutti i prigionieri, dal più giovane, un ragazzo di sedici anni, al più anziano, un vecchio ben oltre la settantina. Si fecero poi legare a coppie senza protestare, mostrandosi umiliati e avviliti soltanto quando i soldati misero loro i cappucci bianchi previsti per l’impiccagione.
Wapahduta
Poco prima delle dieci, i condannati furono quindi disposti in fila a coppie e fatti avviare lentamente verso il patibolo, eretto proprio di fronte al carcere. Tra i molti visi allegri, o impazienti, si distingueva uno pieno di stupore doloroso: quello di Wechankwashtodopee, l’indiano che aveva salvato la vita di Sarah Wakefeild, scambiato con un altro dei condannati a causa di una somiglianza di nomi. Un altro dei trentanove condannati era stato invece graziato, grazie a nuove prove che ne smentivano la colpevolezza.
Quando furono tutti saliti sul patibolo, gli indiani intonarono di nuovo il loro solenne canto di morte. Il capitano Libby, incaricato dell’esecuzione, passava intanto il cappio intorno al collo di ognuno di loro.
Cadde quindi un pesante silenzio e, alle dieci in punto, un tamburo rullò pesantemente per tre volte. Alcuni dei condannati riuscirono ad allentare le corde e ad afferrare le mani del loro compagni vicini. Quindi William Dudley, un colono che aveva perso la moglie e i due figli nell’insurrezione, tagliò la corda e i corpi dei trentotto indiani penzolarono nel vuoto. La folla lanciò un grido e poi tacque di nuovo.
Cane Bianco, un Dakota condannato
In quel momento, una corda si spezzò, e il corpo di un indiano cadde pesantemente a terra. Anche se aveva già il collo rotto, fu di nuovo impiccato con gli altri.
Alle dieci e un quarto le botole si aprirono e i chirurghi militari presenti si avvicinarono ai corpi dei condannati per esaminarli e decretarne la morte. Per la triste operazione bastarono cinque minuti: quasi tutti avevano il collo spezzato ed erano morti sul colpo.
I cadaveri furono quindi caricati su due carri e trasportati fuori città, presso la riva del fiume Blue Earth, dove furono deposti in posizione eretta in una fossa di nove metri per quattro e profonda un metro e venti, disposti su due file con i piedi rivolti nella stessa direzione e la testa verso l’esterno. Furono quindi ricoperti con le loro stesse coperte e seppelliti.
Il riposo dei Dakota giustiziati all’ombra dei salici del fiume Blue Earth non era però destinato a durare a lungo. La loro tomba fu ben presto violata e alcuni dei cadaveri furono venduti ai medici locali, ansiosi di procurarsi materiale a buon mercato per i loro studi anatomici. Uno dei corpi che subirono questa sorte fu quello di Naso Tagliato, conosciuto tra il suo popolo come Mahpiya Okinajin, Colui-che-si-erge-tra-le-nuvole. Ben presto tra la gente di Mankato inziarono a vendersi clandestinamente scatole contenenti pezzi di pelle dei Dakota giustiziati.
La lapide che ricorda i Dakota
Sarah Wakefeild non si rassegnò mai al fatto che l’uomo che le aveva salvato la vita fosse stato giustiziato e ne ribadì l’innocenza in un volume di memorie intitolato Sei settimane in un tepee Sioux, in cui sosteneva anche che lo scambio di nomi che aveva causato la morte del povero Wechankwashtodopee non fosse stato casuale. I poveri resti di Naso Tagliato rimasero per oltre un secolo in un paiolo di ferro presso la Mayo Clinic; solo nel 2000 sono stati restituiti ai Dakota e seppelliti dignitosamente. Dei circa quattrocento processi si continua ancora oggi a discutere: furono condotti in modo equo? Gli indiani avrebbero dovuto avere un difensore? Erano consapevoli che in quei procedimenti era in gioco la loro stessa vita? Si sarebbe dovuto permettere ad altri prigionieri di interrogarli? La commissione militare era stata formata in modo legale? Era giusto trattare dei prigionieri di guerra come criminali comuni? Le risposte a queste domande gettano un’ombra ancora più cupa su quella che tutt’ oggi resta la più grande esecuzione di massa mai avvenuta negli Stati Uniti; il commento più conciso ed efficace fu però forse quello espresso dal reverendo Riggs a pochi giorni dall’esecuzione: “Nutro grande stima per tutti quei signori che formavano la commissione militare e considero alcuni di loro come amici personali. Quella volta però, quando processarono gli Indiani, il mio senso di giustizia mi avrebbe portato ad assicurare ai prigionieri un processo giusto e imparziale, proprio come avrei fatto con dei bianchi. Questa era la differenza tra me e loro.”

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