Cavallo Pazzo, incubo dei bianchi, eroe dei Sioux

A cura di Nino Gorio

Quando nacque, sua madre lo chiamò Cha-o-Ha, che vuol dire Tra-gli-Alberi, perché l’aveva partorito in un bosco. Ma lui, una volta adulto, decise di assumere il nome di suo padre, morto prematuramente, Tashunka Wikto, che i bianchi tradussero in Crazy Horse, cioè Cavallo Pazzo. Ebbe una vita breve ma leggendaria: fu capo di una tribù dei Sioux, guidò con Toro Seduto la resistenza indiana, umiliò l’esercito degli Stati Uniti nella battaglia di Little Big Horn; infine si arrese, vinto da un inverno rigidissimo più che dalle Giubbe Blu.
Crazy Horse morì il 5 settembre 1877, a Fort Robinson (Nebraska), ucciso a baionettate da un soldato quando era già inerme e prigioniero. Idealmente, quella data segnò la fine delle “guerre indiane” nelle Grandi Pianure, clou dell’epopea del Far West. In realtà il sangue continuò a scorrere episodicamente per altri 13 anni.
Ma gli scontri dopo il 1877 furono solo colpi di coda di un mondo morente: i native americans avevano già perso. Infatti Cavallo Pazzo era l’uomo-simbolo dell’orgoglio indiano: aveva guidato di persona l’attacco di Little Big Horn; era rimasto in armi anche quando altri capi sioux si erano defilati; si diceva che fosse invulnerabile alle pallottole.
Se era morto lui, per gli altri Sioux non c’era futuro.
La foto di Cavallo Pazzo
Col tempo, Crazy Horse è diventato un’icona come Garibaldi e Che Guevara: nel Sud Dakota stanno scolpendo a sua immagine un intero monte, che sarà la statua più grande del mondo (vedi box). Ma chi era, al di là del mito, l’ex Cha-o-Ha? Sappiamo che nacque sul fiume Cheyenne “nell’anno in cui la tribù catturò cento cavalli”, corrispondente al 1840-41 del nostro calendario. Che aveva i capelli insolitamente chiari per un indiano. Che sua madre Coperta Sonante era figlia di un guerriero illustre, Bisonte Nero. Che era di carattere schivo e odiava le fotografie, tanto che (a differenza di altri capi indiani) di lui non esistono immagini sicure. Infine che faceva parte degli Oglala, una delle sette tribù dei Sioux, che in realtà non si chiamavano così ma Lakota: Sioux (cioè “Mezzi Serpenti”) era un epiteto spregiativo coniato da indiani rivali.
Le guerre fra bianchi e Sioux erano iniziate molto prima che Coperta Sonante partorisse il futuro mito, cioè nei primi anni dell’800. Pomo della discordia, all’inizio, fu la valle del Mississippi, che i pionieri volevano in esclusiva. Ma nel 1810 si giunse un accordo, detto “della Prateria del Cane”: la riva est del fiume era dei bianchi, l’altra degli indiani. L’equilibrio resse fino al 1862. Poi l’incendio divampò: la scintilla fu il Bozeman Trail, una pista tracciata in territorio indiano per raggiungere le zone aurifere del Montana. I Sioux si ribellarono, perché il traffico di carri sulla pista faceva fuggire i bisonti. Il primo “ribelle” si chiamava Piccolo Corvo: fu catturato e ucciso, ma il conflitto continuò. Altre guerre infiammavano il West, ma per i bianchi nessuna era dura come quella sul Bozeman Trail: benché presidiata da fortini, la pista era impraticabile.
Un ritratto di Cavallo Pazzo
Così fu decisa la “soluzione finale”. William Sherman, comandante delle truppe del West, la teorizzò con lucido cinismo: “Ai Sioux dobbiamo rispondere con una violenta aggressività, anche a costo di sterminare donne e bambini”. Alle parole seguirono i fatti: l’episodio più atroce (1864), che ha ispirato anche una canzone di Fabrizio De André, non toccò i Sioux ma i loro vicini Cheyennes: un villaggio indiano sul torrente Sand Creek (Oklahoma) fu attaccato dai soldati del colonnello John Chivington, che massacrarono, stuprarono, scalparono e mutilarono 150-200 persone inermi, senza riguardo per il sesso o per l’età. Scalpi e genitali degli uccisi furono esposti come trofei al teatro di Denver, in un’allucinante esibizione di sadismo.
Fu qui che entrò in scena Cavallo Pazzo, prima a fianco di Nuvola Rossa, poi di Toro Seduto, infine da solo. Il suo esordio (1865) fu un attacco a un ponte; seguì (1866) un agguato alla guarnigione di Fort Kearny (Wyoming). La guerriglia andò avanti per due anni, poi i bianchi vennero a patti: i fortini sarebbero stati sgomberati e bruciati. La guerra sembrava chiusa con la vittoria degli indiani, invece si era solo spostata su un terreno più subdolo: se non si riusciva a sterminare i Lakota, si poteva però privarli dei bisonti, loro unica risorsa. Così la caccia, che i bianchi praticavano già dal 1850, diventò una strage sistematica e incoraggiata. Campione dell’impresa fu William Cody, detto Buffalo Bill, che tra il 1868 e il 1872 uccise da solo 4mila capi.
La guerra aperta riprese quando (1874) si scoprì l’oro nelle Black Hills, colline che i Sioux consideravano sacre. Il “generale” (in realtà colonnello) George Custer, un avventuriero in divisa, già finito davanti alla Corte marziale per reati militari, cercò di occupare la regione. Ma Custer era odiatissimo dagli indiani, che lo chiamavano “Figlio della stella del mattino” per la sua abitudine di attaccare i villaggi all’alba, quando tutti dormivano. Perciò la sua entrata in scena fece da collante: ai Sioux, guidati da Toro Seduto e da Cavallo Pazzo, si affiancarono i Cheyennes, memori del Sand Creek. Si arrivò così a Little Big Horn, dove l’odiato ufficiale fu ucciso con quasi tutti i suoi soldati. Era il 25 giugno 1876: per Crazy Horse fu il trionfo.
Ma durò poco, perché l’inverno seguente riuscì dove Custer aveva fallito: piegati dal freddo e dalla fame, gli indiani della coalizione si rassegnarono a perdere le Black Hills. In primavera Toro Seduto partì esule per il Canada.
Guerrieri Sioux
Cavallo Pazzo combatté la sua ultima battaglia nel gennaio 1877, poi a maggio si consegnò in un campo profughi: di fatto era la resa. Mesi dopo, invitato dai soldati a Fort Robinson per discutere il futuro degli Oglala, accettò e non tornò più. La versione ufficiale dice che morì durante una rissa: i soldati avrebbero cercato di chiudere l’ex-guerrigliero in cella; lui avrebbe reagito tentando la fuga e un militare, per fermarlo, lo avrebbe colpito con la baionetta. In realtà pare che quando fu colpito Crazy Horse fosse già stato immobilizzato a mani nude da un altro soldato, un ausiliario. Per un’amara beffa del destino, questi era un sioux passato al nemico: si chiamava Piccolo Grande Uomo; Cavallo Pazzo lo conosceva fin dall’infanzia.

Uno sguardo all’attualità

Negli Stati che furono teatro dell’epopea Sioux, oggi gli indiani sono una piccola minoranza: nel Minnesota rappresentano solo l’1,1% della popolazione; un po’ più popolati sono lo Wyoming (3,06%), il Nord Dakota (5,3%), il Nebraska (6,32%), il Montana (7,36%) e soprattutto il Sud Dakota (9,06%). I Sioux Oglala, eredi diretti dei guerrieri di Cavallo Pazzo, sono sparsi in 17 riserve del Nebraska e del Sud Dakota; in quest’ultimo Stato c’è la più importante (Pine Ridge). Secondo stime recenti, fra gli abitanti delle riserve l’85% risulta disoccupato e il 97% vive sotto il livello di povertà; la speranza di vita oscilla fra i 40 e i 50 anni, mentre il tasso di suicidi supera di 4 volte la media nazionale americana. Oggi tutte le terre ex-indiane delle Grandi Pianure sono utilizzate per l’agricoltura estensiva (grano, mais, soia, girasoli) e l’allevamento (bovini, suini, ovini), attività particolarmente floride nel Nebraska. Il Sud Dakota è anche un grande produttore di alcol etilico. Nel Montana si estrae tuttora oro, nel Wyoming uranio e gas, nel Nord Dakota un po’ di petrolio. Di tutte queste attività non beneficiano gli indiani, che vivono di turismo e di sussidi pubblici.

Un memorial per Cavallo Pazzo

A ricordo di Cavallo Pazzo, nelle Black Hills (Sud Dakota) sta sorgendo la statua più grande del mondo, che a lavori finiti sarà alta 172 metri e larga 195. In pratica, un’intera montagna di granito, rimodellata a immagine del mitico capo degli Oglala. L’idea del monumento kolossal fu di uno scultore di Boston morto nel 1982, Korczak Ziolkowski, che lavorò al progetto per 34 anni. Tutto nacque dal fatto che dal 1927 al 1940 un altro monte delle Black Hills (il Rushmore) era stato scolpito con le teste di quattro presidenti degli Stati Uniti (Washington, Jefferson, Roosvelt e Lincoln).


La grande scultura dedicata a Cavallo Pazzo

Gli indiani avevano interpretato l’iniziativa come un insulto: le Black Hills, per loro, erano sempre state sacre; e proprio l’invasione di quelle colline aveva provocato la “grande guerra” del 1876-77, costata la vita di Cavallo Pazzo. Così, d’accordo col capo sioux Henry Orso-in-Piedi, Ziolkowski si offrì di controbattere con una scultura ancor più grandiosa: le teste dei presidenti sono alte 18 metri, il futuro Cavallo Pazzo di granito doveva essere 10 volte più grande. I lavori, iniziati nel 1948, oggi sono a circa metà dell’opera: a sostenere l’iniziativa, dopo la morte dello scultore, è una fondazione (vedi www.crazyhorse.org) che si autofinanzia con i biglietti di entrata al cantiere, diventato un’attrazione. Nel 1999 tra i turisti in visita è arrivato, per la prima volta, anche un presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton.

Per approfondire

Libri:
– Cavallo Pazzo. Il grande condottiero di Little Bighorn (2008) di Bray Kingsley M. Una biografia semplicemente spettacolare e approfondita.
– Cavallo pazzo (Ed. 2005) di Sandoz Mari. La biografia più famosa.
– Cavallo Pazzo e Custer (2000) di Stephen Ambrose, ed. Rizzoli BUR. I due personaggi-simbolo della “grande guerra indiana” raccontati da un noto storico di New Orleans, che fu biografo anche di Eisenhower.
– Gli spiriti non dimenticano (1998) di Vittorio Zucconi, ed. Mondadori. La vita di Cavallo Pazzo rivista con gli occhi di un giornalista italiano di oggi; molto accurata la ricostruzione degli usi e della cultura dei Sioux.
– Seppellite il mio cuore a Wounded Knee (1994) di Dee Brown, ed. Mondadori. I decenni della “soluzione finale” del problema indiano in un famoso libro-autocritica che negli Anni ’70 fece riflettere l’America bianca.
– Storia degli indiani d’America (1977) di Philippe Jacquin, ed. Mondadori. Agile manualetto per chi vuole una sintesi non convenzionale dell’epopea del Far West, scritta con esplicita simpatia per la parte perdente.

Film:
– La storia del generale Custer (1941) di Raoul Walsh, con Errol Flynn e Anthony Quinn. Agiografia vecchio stile dell’ufficiale più odiato del West, ucciso da Cavallo Pazzo a Little Big Horn; film storicamente falsissimo (a partire dal titolo, visto che Custer era solo colonnello), ma ben fatto e prezioso come tutti i falsi d’epoca.
– Un uomo chiamato cavallo (1970) di Elliot Silverstein, con Richard Harris. Il primo film che rivalutò gli indiani dopo decenni di western mirati contro di loro; con la storia di Cavallo Pazzo non c’entra (o almeno non direttamente), ma ricostruisce come era la vita dei Sioux a fine ‘700, prima delle guerre contro i bianchi.
– Piccolo Grande Uomo (1970) di Arthur Penn, con Dustin Hoffman e Faye Dunaway. Classicissimo western controcorrente, storia di un uomo che nella grande guerra indiana non sa da che parte stare; il vero Piccolo Grande Uomo era un sioux, quello del film è un bianco, ma la vocazione al cambio di bandiera è lo stesso.
– Soldato blu (1970) di Ralph Nelson, con Candice Bergen e Peter Strauss. Altro grande western del filone filo-indiano: storia (di fantasia) di uomo e una donna sullo sfondo della storia (vera) del massacro del Sand Creek, attuato dai soldati di Chivington nel 1864, un anno prima dell’entrata in scena di Cavallo Pazzo.
– Buffalo Bill e gli indiani (1976) di Robert Altman, con Paul Newman, Burt Lancaster e Geraldine Chaplin. Confronto immaginario tra William Cody (detto Buffalo Bill), famoso sterminatore di bisonti, e il fantasma di Toro Seduto, leader sioux perdente ma pieno di dignità; dal confronto il “grande cacciatore” esce a pezzi.

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