La crisi del mito

A cura di Domenico Rizzi

Link dello speciale sul genere western: 1) Il tesoro del west, 2) Il trionfo della leggenda, 3) L’ascesa del western, 4) Il periodo d’oro, 5) Ombre rosa nella prateria, 6) Orizzonti sconfinati, 7) I sentieri del cinema, 8) Orizzonti sconfinati, 9) La quarta frontiera

A proposito del cinema western, il regista Anthony Mann aveva scritto: “Dal western, soprattutto, nasce il mito che dà il miglior cinema. Eccita l’immaginazione e il pubblico non deve rompersi la testa. Quel che è necessario è che provi delle emozioni. Il mito, che manda in scena personaggi più grandi del reale, può fargliele provare.”
Tuttavia, al principio degli Anni Sessanta, il genere andò incontro ad una pesante crisi, aggravata dal vistoso calo di interesse da parte del pubblico. Il mito aveva perso la propria carica suggestiva e i temi classici del western, a volte stancamente riproposti come remake di film del passato – vedi il caso de “L’ultimo dei Mohicani” – sembravano ormai troppo sfruttati.
Il cinema basato su questo tipo di avventura era alla ricerca di novità che potessero rilanciarne l’immagine.
Anche le “pulp magazine” che pubblicavano da decenni racconti brevi, cominciavano a declinare. Il western stava diventando sempre più un prodotto televisivo: oltre a “Gunsmoke”, “Rawhide”, “La casa nella prateria”, si facevano strada altri serial, soprattutto “Bonanza”, ideato da David Dontort e trasmesso dal 1959 al 1973 (dal 1962 acquistato anche dalla TV italiana) per complessivi 430 episodi. Seguiranno nel 1967 “Doctor Quinn, Medicine Woman” di Beth Sullivan (in Italia “La signora del West”) e dal 1976 “The Macahans” (“Alla conquista del West”).
La rivoluzione introdotta negli Anni Sessanta dal western all’italiana, soprattutto per merito di Sergio Leone, sembrava preludere alla nascita di un neorealismo che, nella realtà, il genere sfiorerà poche volte. L’innovazione, affidata al lavoro di registi e sceneggiatori – in parte suggerita da alcune pellicole di Akira Kurosawa ambientate nel Giappone dei Samurai – più che basata su opere di narrativa, finirà presto per fagocitare se stessa, elaborando copioni sempre più fondati sull’effetto suggestivo dell’azione e condizionati dalla ripetitività dei copioni.


La famiglia Macahan

Con “C’era una volta il West”, girato nel 1968 con alcuni esterni nella fordiana Monument Valley dell’Arizona, si spegne praticamente, dopo soli cinque anni, il nuovo ciclo al quale Leone darà il seguito “messicano” di “Giù la testa” nel 1971. Tutto il resto – se si esclude qualche discreto film della serie di “Ringo”, interpretato da Giuliano Gemma e diretto da Duccio Tessari, quali “Una pistola per Ringo” e l’omerico “Il ritorno di Ringo” – precipita in una discutibile dimensione, popolata dai vari Django, Mannaja, Sartana, Sabata e Provvidenza, che di western ha soltanto la frequenza delle sparatorie e l’esasperata ritualità dei duelli, sempre più improbabili e macchinosamente artefatti.
Fra gli ultimi tentativi italiani di restituire una perduta attendibilità al genere, vi sono l’ambizioso “Jonathan degli Orsi”, di Enzo G. Castellari, girato in Russia nel 1995 con gli attori Franco Nero e John Saxon – un film dal successo di pubblico molto scarso – e l’ironico “Il mio West” (1998) di Giovanni Veronesi, interpretato da Leonardo Pieraccioni, Harvey Keitel, David Bowie e Alessia Marcuzzi, con le riprese effettuate in Garfagnana e in Canada. Quest’ultima pellicola, di buoni propositi, potrebbe addirittura preludere ad un ritorno del western all’italiana, se questo esperimento non appartenesse ormai ad un lontano passato.
Chi dimostra di avere appreso la lezione del maestro Sergio Leone è Clint Eastwood che, aggiungendovi i preziosi insegnamenti del regista Don Siegel, elaborerà secondo il proprio estro le tematiche già vissute da attore protagonista, affermandosi come regista di se stesso per ottenere nel 1994 ben 4 Oscar con “The Unforgiven” (“Gli spietati”).
Il western americano dei tardi Anni Sessanta aveva imboccato una strada che i critici battezzarono impropriamente come “revisionismo”. Diversi film su cui si basarono tali pellicole erano elaborazioni di romanzi scritti anche molto tempo prima, senza contare che esistevano già alcune pellicole “revisioniste” ai tempi di Thomas H. Ince e David Wark Griffith, la cui produzione risale ai primi decenni del Novecento.
“Revisionismo” diventa dunque, per i cineasti affiorati dopo il ritiro di John Ford e Raoul Walsh, la parola magica che può far risorgere la fenice dalle proprie ceneri. Sotto questa definizione vengono ricompresi film come “Un uomo chiamato Cavallo” di Elliott Silverstein, “Soldato Blu” di Ralph Nelson, “Piccolo Grande Uomo” di Arthur Penn, “Nessuna pietà per Ulzana” di Robert Aldrich ed almeno una trentina di altri lavori, ma spesso le differenze fra romanzo e proiezione cinematografica appaiono rilevanti.
Sergio Leone a cavallo
Theodore V. Olsen, nato nel Wisconsin nel 1932 e scomparso nel 1993 a soli 61 anni, cominciò a scrivere ai tempi del liceo, producendo 40 romanzi e parecchi racconti, molti dei quali pubblicati postumi.
Due delle sue opere offrirono il copione ad altrettanti film celebri: “The Stalking Moon” e “Arrow in the Sun”, scritti nella seconda metà degli Anni Sessanta. In nessuna delle due è riscontrabile una difesa della causa pellerossa come in altre pellicole del periodo – per esempio in “Un uomo chiamato Cavallo”, “Piccolo Grande Uomo” e “Soldato Blu” – ma l’autore mostra un West di persone, siano Bianchi o Indiani, disperate e determinate, costrette a contendere la propria sopravvivenza ad un ambiente ostile.
Il militare Honus Gant del romanzo, cresciuto all’insegna di sani principi, deve fare i conti con le leggi della Frontiera, perché “troppi anni a scuola, lontano dalla dura fatica quotidiana dei campi, l’avevano rammollito”. Chi gli dà una mano a vincere la propria battaglia personale è la scatenata Cresta Lee, ex squaw bianca di un capo cheyenne, una ragazza pratica e disillusa “che non aveva sprecato tempo in lacrime o rimpianti inutili, dopo la sua cattura ad opera della banda di Lupo Macchiato. Aveva accettato la mala sorte, e aveva pensato subito a progettare un piano di fuga…Frattanto aveva finto, non mansuetudine, che era troppo lontana dal suo carattere, ma una semplice rassegnazione al suo destino.”
Il film “Soldato Blu”, girato da Ralph Nelson nel 1970 – con Peter Strauss e Candice Bergen rispettivamente nelle parti di Honus e Cresta, divenuta “Cathy” – non contiene la ricchezza di sfumature del libro e ne travisa apertamente la conclusione: ma sono gli anni della campagna americana nel Vietnam e l’accostamento a questa impresa, uno dei principali motivi della contestazione studentesca negli USA, sembra rappresentare una tentazione irresistibile.
Soldato Blu
“The Stalking Moon”, uscito come film un anno prima (“La notte dell’agguato”, 1969, regia di Robert Mulligan) ha tutta l’aria di sostenere incondizionatamente le ragioni dei Bianchi, dipingendo l’Apache “Salvaje” (Kataua nella versione cinematografica italiana) come un essere sanguinario che intende riprendersi la propria squaw bianca Sarah Carver (Eva Marie Saint) recuperata alla vita civile dallo scout Sam Varner (Gregory Peck) ed il bambino avuto da lei mentre era prigioniera. Come scrisse il critico Aldo Viganò “raramente il cinema ha saputo restituire con tanta forza il fascino terribile della caccia all’uomo…orribile come la lotta per la vita, lo scontro corpo a corpo, risolto con quei tre colpi di fucile sparati da vicino come ad un orso inferocito.” Varner è il solitario di sempre, alla ricerca di una ragione per continuare a vivere, mentre l’Indiano si trova a percorrere un sentiero che non offre alternative: la sua tribù è stata sconfitta e confinata in una riserva, la lotta sul campo è terminata e soltanto la riconquista dei propri affetti e la prospettiva di una feroce vendetta costituiscono il suo motivo esistenziale.
Dal 1967 al 1976 il western americano sembra avere ritrovato nuovi impulsi riscoprendo episodi e personaggi che la leggenda aveva impedito di analizzare per molto tempo. Così appaiono sullo schermo, uno dopo l’altro, film quali “Hombre”, “Il mucchio selvaggio”, “Nessuna pietà per Ulzana”, “Corvo Rosso non avrai il mio scalpo”, “La notte brava del soldato Jonathan”, “Buffalo Bill e gli Indiani”, “Il texano dagli occhi di ghiaccio” e diversi altri già citati. In realtà, molte di queste trame sono attinte da romanzi o racconti scritti qualche anno prima da celebri autori.
E’ il caso dell’ironico “Little Big Man”, ricavato dall’omonima opera di Thomas Berger (scrittore nato a Cincinnati nel 1924) pubblicata nel 1964, un film che farà molto scalpore all’epoca della sua distribuzione, ma che mostra vistosi limiti di credibilità a distanza di qualche decennio. Molto più attendibile, dunque, il romanzo, nel quale lo stesso Berger mette in dubbio la veridicità del racconto del suo protagonista Jack Crabb, concludendo con una frase sibillina: “Posso assicurare che ogni qual volta il signor Crabb mi diede date precise, luoghi e nomi, io ho consultato tutti i testi disponibili, e ho visto che la sua precisione era spaventosa…


Un’immagine tratta da Little Big Man

Ma un nome manca da ogni elenco, da ogni ruolino, da ogni dossier… Parlo, naturalmente di Jack Crabb. Così, nel congedarmi, caro lettore, lascio la scelta nelle tue mani. Forse Jack Crabb fu l’eroe più ignorato della storia del nostro paese, forse fu un bugiardo di proporzioni folli. Nell’uno o nell’altro caso, possa lo Spirito Onnipresente avere pietà dell’anima sua, della tua e della mia.“
Comunque, forse perché ancora affascinato dal suo personaggio, nel 1999 Berger ne scrive il seguito (“The Return of Little Big Man”) senza peraltro riuscire a bissare il successo del primo libro.
Tra i film della “revisione”, uno dei meglio impostati è senz’altro “Un uomo chiamato Cavallo” di Elliott Silverstein (1969) tratto da un romanzo di Dorothy M. Johnson del 1950, al quale probabilmente si ispirerà Michael Blake scrivendo il suo “Balla Coi Lupi”. Dopo il successo ottenuto con il primo film, il cinema pretende di farne una serie, proponendo prima “La vendetta dell’uomo chiamato Cavallo” (Irwin Kershner, 1976) e poi “Shunka Wakan. Il trionfo dell’uomo chiamato Cavallo”, di John Hugh, 1982) tutti interpretati dal bravo Richard Harris. La vicenda perde invece interesse nelle successive riproposizioni, anche perché ormai il western è entrato nella sua fase più critica.
Molto incisive le due opere di Alan Sharp, scozzese nato nel 1934, autore e sceneggiatore di alcuni apprezzati lavori televisivi e cinematografici. Sue sono le trame di “The Hired Hand” (“Il ritorno di Harry Collings“, regia e interpretazione di Peter Fonda, 1971) e “Ulzana’s Raid” (“Nessuna pietà per Ulzana”, di Robert Aldrich, 1972) due film che occupano indubbiamente un posto d’onore nella storia del western. Sebbene il primo sia stato accolto tiepidamente dal pubblico, merita di essere ampiamente rivalutato, sia per la recitazione dei protagonisti (oltre a Fonda, vi sono Warren Oates e Verna Bloom) che per il soggetto, un vero e proprio inno all’amicizia virile che aveva caratterizzato l’altro ben più famoso film – “Easy Rider”, di Dennis Hopper – di cui Peter Fonda era stato interprete due anni prima.
Nessuna Pietà per Ulzana
“Nessuna pietà per Ulzana”, pur risentendo della contaminazione politica del momento – lo stesso Aldrich dichiarò: “Lo sceneggiatore Sharp, Burt lancaster ed io credevamo totalmente al parallelo con il Vietnam” – costituisce pur sempre un modello di neorealismo western, nel quale la condotta degli Indiani prescinde da qualsiasi valutazione di tipo ideologico, ma viene accettata con razionale pessimismo. Anche la morte, nelle parole e nel comportamento dello scout Mc Intosh (Burt Lancaster) è vista come un evento ineluttabile, che rientra nella logica delle vicende umane.
Molti film revisionisti sono finalizzati a suscitare emozioni molto forti, non facendo risparmio di scene violente e di suspense. I loro protagonisti non sono più i tradizionali eroi senza macchia, ma personaggi a volte cinici e spietati, legati al proprio tornaconto, oppure spinti da sentimenti di vendetta o semplicemente dall’orgoglio.
Molto spesso il cinema riesce a tradurre bene sullo schermo le immagini e le tipologie contenute nell’opera letteraria. E’ il caso di “Hombre”, da un libro di Elmore Leonard, che presenta l’Apache-bianco John Russell (attore Paul Newman) come un individuo abulico e glaciale, indifferente alla sorte dei suoi compagni di viaggio minacciati da una banda di sanguinari fuorilegge. Anche il caporale nordista Jonathan Mc Burney (“La notte brava del soldato Jonathan”) che scherza con i sentimenti delle ragazze di un collegio femminile sudista fino a rimetterci la vita è egoista ed immorale, sicchè il film viene bollato dalla critica ed accolto freddamente dal pubblico, che non ne comprende appieno il drammatico contesto. La storia, ispirata al romanzo “The Beguiled” di Thomas P. Cullinan (1919-1995) verrà rivalutata ampiamente diversi anni dopo.
“Il mucchio selvaggio”, di Sam Peckinpah – già regista di “Sierra Charriba” nel 1964 – supera, nelle scene di violenza, qualsiasi altro lavoro classificato come western. I suoi protagonisti sono dei fuorilegge rifugiatisi nel Messico mentre è in corso l’ennesima rivoluzione; la loro ribellione finale ed il conseguente massacro è la furiosa reazione di individui rimasti senza uno scopo, che fanno causa comune per vendicare un amico torturato dal bieco generale Mapache.


Una scena del film Il Mucchio Selvaggio

Terribile la scena del trascinamento con l’auto del “traditore” Angel (Jaime Sanchez) il cui corpo martoriato viene utilizzato dai bambini come una slitta, mentre patetico è il silenzio dell’anziano Pike, il capobanda (William Holden) verso la giovane ragazza-madre messicana dopo l’amplesso a pagamento. Commovente è infine la muta determinazione dei quattro banditi armati fino ai denti nel muovere incontro ai Messicani, in un’impari confronto che culminerà con la loro morte. La sequenza finale di apocalittica distruzione non ha paragoni in tutta la storia della cinematografia del genere e fa meritare a Peckinpah l’appellativo di “apostolo della violenza”.
Una parte della produzione western degli Anni Settanta ebbe la pretesa di assumere risvolti biografici. Questa tendenza si manifestò anche un ventennio più tardi, in occasione dell’ennesima resurrezione del genere, quando furono prodotti “Geronimo” (Walter Hill, 1993) “Tombstone” (George P. Cosmatos, 1993) e “Wyatt Earp” (Lawrence Kasdan, 1993) con esiti non sempre favorevoli.
Mentre “Corvo Rosso” di Sidney Pollack si ispira alla figura di “Mangiafegato” Johnson (il protagonista si chiama Jeremiah Johnson ed è interpretato dal bravissimo Robert Redford) “Buffalo Bill e gli Indiani” rappresenta forse l’ultima dissacrazione, compiuta da Robert Altman, della mitica figura di William F. Cody, così come “Piccolo Grande Uomo” lo era stata per altri personaggi famosi come Wild Bill Hickok e il generale Custer. In realtà non si assiste ad una seria revisione storica della materia, bensì al tentativo di impressionare il pubblico con improbabili rivelazioni e indiscrezioni sulla vita di questi personaggi. Considerato invece come film d’avventura, “Jeremiah Johnson” rasenta la perfezione, mentre “Little Big Man” può essere letto soltanto come una buona favola, senza alcun intento satirico. Quanto al film di Altman, diventa subito una bandiera del revisionismo, ma, evidenziando il complesso di colpa e di sudditanza che gli Americani si sono creati nei confronti dei nativi, contiene molte forzature che ne alterano l’autenticità.
Tornando agli autori della carta stampata, sebbene a volte messi in ombra da cinema e televisione, oltre a Berger ed Olsen si segnalano in particolare, fra una moltitudine di ottime firme, Elmore Leonard, Michael Blake e Cormac Mc Carthy.
Cormac Mc Carthy
Nato a New Orlèans nel 1925, seguendo gli spostamenti legati al lavoro di suo padre Leonard conosce il West fra un soggiorno a Dallas ed un altro ad Oklahoma City, prima di trasferirsi a Memphis e finire quindi a Detroit. Nella vita svolge vari lavori, ma nel 1951 esordisce con un racconto western, seguito da una trentina di storie brevi pubblicate su dieci riviste diverse.
“The Bounty Hunters” (“I Cacciatori di scalpi”) è il suo primo romanzo, edito nel 1953. Sei anni dopo Leonard pubblica “Saber River”, seguito nel 1961 da “Hombre”, che diverrà molto famoso per merito del grandissimo film interpretato da Paul Newman. Nel frattempo sono usciti altri suoi racconti di successo, quali “Quel treno per Yuma”, “Notte senza fine” e “Arriva Valdez”, tutti nati dalla sua penna nei primi Anni Cinquanta.
Il cinema considera subito Leonard come una grande risorsa da sfruttare.
Nel 1957 il regista Budd Boetticher gira “I tre banditi”, con Randolph Scott e Maureen O’Sullivan, un western senza troppe pretese, ma lo stesso anno Delmer Daves dirige “Quel treno per Yuma”, un classico destinato a durare nel tempo, con la superba interpretazione di Van Heflin, Glenn Ford e Felicia Farr. La trama, pur nella sua semplicità, è avvincente, la suspense non abbandona lo spettatore fino alla fine, la figura del bandito gentiluomo Ben Wade (Glenn Ford) sorprende e commuove lo spettatore. A rendere perfetta la pellicola si aggiungono la colonna sonora di Dimitri Tiomkin e la voce di Frankie Laine, che canta l’indimenticabile “Three Ten To Yuma”. Lo spettacolare remake diretto da James Mangold nel 2007 – interpretato da Russell Crowe nella parte di Wade – non avrà lo stesso vigore narrativo e tenterà di salvarsi introducendo discutibili modifiche, quali l’impiego di una mitragliera Gatling nell’assalto alla diligenza e qualche nota piccante quale l’omosessualità del vice capobanda.
Scrivendo “Hombre”, che pubblica nel 1967 dopo avere lasciato il lavoro di agente pubblicitario per fare lo scrittore “full time”, Elmore Leonard deve avere avuto la consapevolezza di dare vita ad un romanzo eccezionale.


La locandina del film Hombre

Il soggetto è robusto e incalzante, la storia di John Russell, soprannominato “Hombre” – un Bianco che ha vissuto a lungo fra gli Apache – scorre nell’efficace narrazione di Carl Everett Allen: “Se non fosse stato per lui, adesso saremmo tutti morti e non ci sarebbe stato più nessuno che potesse raccontare come si svolsero le cose…Immaginate un consunto, cencioso e macchiato cappello a tesa diritta, portato quasi alla maniera indiana…Immaginate il suo viso in ombra per metà a causa del cappello. La prima cosa che avreste potuto notare è come fosse scuro quel viso. Scuro come la braccia con le maniche arrotolate al di sopra dei gomiti…Poi vi sareste accorti di quanto fossero lunghi i suoi capelli, che andavano quasi a coprirgli le orecchie, e come fosse ben rasata e morbida la sua faccia…”.
Russell è un uomo taciturno, riflessivo, all’apparenza abulico, ma l’abnegazione con cui decide una scelta che nessuno gli ha imposto, pone molti interrogativi. “Forse aveva permesso che pensassimo un mucchio di cose sul suo conto che non erano affatto vere. Ma, per usare le sue stesse parole, quelli erano affari nostri. Lui lasciava che la gente facesse o pensasse quello che ne aveva voglia mentre lui fumava una sigaretta e considerava la situazione con calma, senza che venissero coinvolti i suoi sentimenti. Russell non era mai cambiato in tutto il tempo che restammo insieme, mentre penso che ognuno di noi fosse cambiato in qualche modo. Lui faceva quello che sentiva necessario di fare. Anche se farlo significava la morte.”
Il romanzo è stato giustamente riconosciuto dalla Western Writers Association come “uno dei 25 migliori western di tutti i tempi”. Il film di Martin Ritt, dominato dall’irresistibile carisma di Paul Newman, vi ha apportato poche variazioni, aggiungendo il personaggio di Jessie Brown (Diane Cilento) e modificando alcuni nomi dei protagonisti. La figura di “Hombre” appare intatta, com’è descritta nelle pagine del libro, ma il lavoro cinematografico accentua alcune spigolosità del suo carattere, attribuendole alla discriminazione dei Bianchi nei confronti degli Indiani relegati nelle riserve e costretti “a cibarsi di carne di cane”: non a caso il film si chiude con la malinconica fotografia di un accampamento pellerossa.
Intorno al 1969 Leonard diversifica la sua produzione, dedicandosi maggiormente alle “crime novels”, ma il cambiamento non è per niente facile, perché il suo primo romanzo di questo genere – “The Wild Bunch” – viene respinto dagli editori decine di volte, prima di essere accettato. Nel 1985 lo scrittore raggiunge finalmente il grande successo anche di pubblico con l’opera “Casino”, che viene apprezzata da Stephen King in una splendida recensione sul New York Times.
Arriva Valdez
In tutti questi anni, però, Leonard non ha affatto abbandonato il western. Nel 1970 pubblica infatti “Valdez is coming” (“Arriva Valdez”), che sarà molto reclamizzato l’anno dopo con il film omonimo (in Italia come “Io sono Valdez”) diretto da Edwin Sherin, con gli attori Burt Lancaster e Susan Clark, che contiene qualche connotazione razziale, essendo il protagonista – Bob Valdez – mezzo messicano. Poi è la volta di “Joe Kidd”, dal quale John Sturges sviluppa la trama dell’omonima pellicola, interpretata da Clint Eastwood e Robert Duvall (1972). Nel 2007, oltre al rifacimento di “Quel treno per Yuma”, esce un cortometraggio dal titolo “The Tonto Woman” con Charlotte Asprey e Francesco Quinn, diretto da Daniel Barber: è tratto anch’esso dall’omonimo racconto scritto da Leonard nel 1982.
Il nome di Michael Blake, classe 1945, è inscindibilmente legato alla storia di “Dances With Wolves” (“Balla Coi Lupi”) pubblicata nel 1986 e portata sullo schermo da Kevin Costner quattro anni dopo, con un film che ha meritato ben 7 Oscar, primato assoluto per un’opera western (“Mezzogiorno di fuoco”, tratto da un racconto di John W. Cunningham e diretto da Fred Zinneman, ne aveva ottenuti 4 nel 1953, dei quali uno attribuito all’attore protagonista Gary Cooper).
Cresciuto nel Texas, prima che i genitori si trasferissero in California, Blake imposta la sua storia fra i Comanche del capo Dieci Orsi, inventandosi il personaggio di John Dunbar, eroico tenente nordista della guerra di secessione inviato alla guarnigione di Fort Sedgewick, nell’Ovest. Costner, che è anche protagonista del celebre film, sposta il contesto fra i Lakota Sioux, senza che il romanzo ne risenta più di tanto e riesce a rilanciare il genere ormai agonizzante, ridestando l’interesse di un pubblico che si era ormai allontanato dalle storie di Indiani e cow-boys. La figura di Dunbar, vagamente attinta da altri soggetti narrativi – soprattutto da “Un uomo chiamato Cavallo”, un racconto di Dorothy M. Johnson, anch’esso portato sugli schermi da Elliott Silverstein nel 1969 – rappresenta la crisi dell’uomo civile, disilluso dalla società moderna, proiettato alla ricerca di nuovi spazi e della propria interiorità spirituale.


Un’immagine tratta dal film Balla Coi Lupi

Il suo approccio con lo sconosciuto mondo della Frontiera è quasi mistico: “Il tenente Dunbar era innamorato. Si era innamorato di questa terra splendida e selvaggia e di tutto ciò che vi era in lei. Era il genere d’amore che si sogna di provare con le altre persone: privo di egoismo e di ogni dubbio, reverente e duraturo. Il suo spirito era stato gratificato e il suo cuore gli balzava in petto. Forse era per questo che l’attraente tenente di cavalleria aveva pensato alla religione.”
Assimilato dai Comanche (i Sioux nel film) che gli danno il buffo appellativo di “Balla Coi Lupi”, Dunbar si rende presto conto di avere ricominciato la propria esistenza in un pianeta diverso, che non gli fa rimpiangere affatto il mondo lasciato alle proprie spalle. Il suo sogno si concretizza attraverso la passione con “Donna-Alzata-Con-Pugno”, una donna bianca allevata dalla tribù, ma finisce per infrangersi contro l’invadenza del progresso. Dopo un lungo inverno “da trascorrere sotto le coperte di pelle di bisonte…tranne che per delle occasionali sortite di caccia…” durante il quale “la gente passò così tanto tempo attorno ai fuochi che la stagione divenne nota come ‘L’Inverno dai molti fumi’” Balla Coi Lupi e i Comanche si rendono conto che la loro libertà sta per finire, perché “una marea umana, una marea che non potevano né vedere né udire, stava montando all’est. Presto si sarebbe abbattuta su di loro. I momenti felici di quell’estate erano gli ultimi che avrebbero avuto. Il loro tempo stava per finire e presto se ne sarebbe andato per sempre.”
Nonostante il crollo del mondo ideale che Dunbar aveva scoperto, la sua vicenda prosegue, perché Michael Blake dà un seguito alla storia nel 2001 con “The Holy Road” (in Italia: “La lunga strada nel vento”) nella quale l’uomo – divenuto ormai da undici anni un autentico Comanche – deve misurarsi con l’avanzata dei Bianchi che progettano una ferrovia attraverso il territorio indiano e gli rapiscono la moglie e la figlia più piccola.
Copertina di The Holy Road
Ma il nuovo cimento dell’ex tenente di cavalleria non ha più il fascino della prima vicenda e la cornice delle Grandi Pianure comincia ad assomigliare ad un ritratto un po’ sbiadito, nel quale si agitano le ombre di un passato ripensato con nostalgia.
Intanto Michael Blake ha presentato, nel 1996, un’opera veramente notevole dal titolo inglese “Marching to Valhalla”, pubblicato in Italia tre anni dopo come “La danza dell’ultimo bisonte”. Si tratta di una biografia romanzata, ma non troppo, di George Armstrong Custer, mentre procede con il suo reggimento, alla volta del Little Big Horn. Durante le pause del percorso verso il suo fatale destino, il generale ricorda le glorie passate, il dolce rapporto con la moglie Libbie, l’incontro con l’amante Monahseetah, figlia del capo cheyenne Pentola Nera. Scorrendo questi passaggi della vita di Custer, Blake riesce ad essere più persuasivo di molti storici che si sono occupati dell’argomento investigando soltanto gli episodi contingenti, come gli scontri del Washita e del Little Big Horn, senza approfondire la natura dell’uomo. Il suo racconto è preciso e senza sbavature: l’eroe riacquista una dimensione umana ed un sentimentalismo che la storia ufficiale gli ha quasi sempre negato: “Se dovessi lasciarmi alle spalle questa terra” conclude l’ufficiale “ecco un elenco di ciò che mi mancherebbe: Libbie, Tom e tutta la nostra famiglia; i miei libri, la mia penna e il prezioso cameratismo degli uomini in armi. Ci sono sicuramente i cavalli nel Valhalla, quindi non li includerò nell’elenco.”
Cormac Mc Carthy è uno fra gli scrittori americani moderni più famosi.
I suoi libri sono stati tradotti in diverse lingue e diffusi in tutto il mondo, ma tralasciando le sue opere di impronta western più conosciute, di cui si parlerà nella prossima puntata (“Cavalli selvaggi”, “Oltre il confine”, Città della pianura”) vale la pena di soffermarsi sul suo unico romanzo ambientato nel vecchio West: “Blood Meridian. Or the Evening Redness in the West” (“Meridiano di sangue”) edito negli USA nel 1985 e approdato in Italia circa dieci anni dopo.
Mc Carthy, nato nel Rhode Island nel 1933 e cresciuto nel Tennessee, dove la sua famiglia – padre avvocato di grido, prole numerosa – si trasferì nel ’37, affronta diversi lavori, compreso quello del farmer e del meccanico, effettuando vari spostamenti sia negli Stati Unti che in Europa, dove soggiorna in Irlanda, Inghilterra e Spagna. Nel 1968 diventa un autore affermato in patria con il romanzo “Il buio fuori”, una cupa vicenda ambientata nel Sud, basata su un rapporto incestuoso tra fratello e sorella e l’abbandono del figlio nato dalla relazione proibita. Altrettanto scabroso il tema di “Figlio di Dio” (1973) la storia di un maniaco sessuale feticista, che colleziona le sue vittime femminili nascondendole in una grotta e di “Suttree” (1979), ritenuto il suo vero capolavoro, apparso recentemente in Italia.
Prima di dedicarsi, negli Anni Novanta, alla cosiddetta “trilogia della Frontiera”, che gli darà fama mondiale, Mc Carthy getta sul mercato “Meridiano di sangue”, che risente della medesima atmosfera crepuscolare e violenta delle altre sue opere.
La bella cover di Meridiano di Sangue
La vicenda prende corpo nel Texas meridionale intorno all’anno 1850. I suoi protagonisti sono degli squallidi mercenari, dediti all’attività di cacciatori di scalpi e capitanati dal giudice-predicatore Holden, che ha messo insieme una banda di canaglie, gente snaturata e senza prospettive, tagliagole e meticci privi di scrupoli. Il personaggio principale del romanzo è un giovane di soli quattordici anni, che diventa adulto in fretta seguendo un percorso costellato di scene allucinanti, di cadaveri, di rappresaglie dissennate e crudeli.
Mc Carthy non fa distinzione fra Bianchi e Pellirosse, accomunandoli tutti in un’unica dimensione folle e maniacale. “Una legione di esseri orribili” scrive nella descrizione di una banda di razziatori indiani “a centinaia, coperti di costumi attici o biblici, o bardati di vesti uscite dal guardaroba di un sogno febbrile, pelli animali o fronzoli di seta e brandelli di uniforme ancora macchiate del sangue dei precedenti proprietari, giubbe di dragoni trucidati, giacche di cavalleggeri con alamari e passamani…le facce di tutti i cavalieri erano coperte di pitture così sgargianti e grottesche da trasformare la cavalcata in una brigata di clown di mortale allegria.”
Nell’attenta osservazione della realtà, il giudizio dell’autore sembra assente, come se egli fungesse da semplice spettatore delle vicende umane. I suoi personaggi vivono, rubano, commettono violenze ed incesti, torturano, uccidono, senza possedere, all’apparenza, né una dirittura morale né uno scopo esistenziale. Ma non sarebbe esatto definire Mc Carthy un puro testimone degli eventi. La sua critica, a volte pesante, è spesso insita nelle sue stesse descrizioni, come pure in molti dialoghi. Parlando del capo della banda, Holden, l’autore non risparmia infatti un cinico commento: “…è il beniamino di tutti, il giudice. Si toglie il cappello e la volta lunare del suo cranio biancheggia sotto le lampade, e gira su se stesso e si impadronisce di uno dei suoi violini, e piroetta e fa un passo, due passi, ballando e suonando al tempo stesso. I suoi piedi sono lenti e leggeri. Non dorme mai, lui. Dice che non morirà mai…Danza nella luce e nell’ombra ed è il beniamino di tutti. Non dorme mai, il giudice. Danza, danza ancora. Dice che non morirà mai.”
La Frontiera narrata da Mc Carthy è aspra, ostile, inaccettabile a chi ha sempre guardato ad essa come ad un sogno.
Forse il vero West, al di là delle infinite idealizzazioni di autori e cineasti, delle leggende sorte intorno ad una “terra di sogni e di chimere”, era proprio questo.

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