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La guerra civile americana: tipologia di un conflitto

Grazie anche a Parodos per il contributo.
La Guerra Civile Americana merita un approccio speciale, almeno da parte di chi si occupa con passione dello studio di quegli eventi perché per gli stessi Americani costituisce un vero e irrisolto problema storiografico. All’origine di questo problema vi è il fatto che gli eventi bellici della Guerra Civile ebbero radici del cui esame ci si può occupare indifferentemente da diverse prospettive, pur rimanendo sostanzialmente nel giusto. Certo è che la Guerra Civile rappresentò un momento di svolta nella storia degli Stati Uniti per molti motivi, tra cui anche il diffondersi e l’uso di una tecnologia che era perlopiù sconosciuta altrove.
Alla guerra civile si collegano infatti i grandi temi dell’intera storia degli Stati uniti: da quello del rapporto fra stati e governo federale a quello dello sviluppo economico, da quello della industrializzazione a quello della schiavitù.
Perciò nessuno deve provare uno stupore eccessivo nel constatare che a distanza di quasi un secolo e mezzo continuino a sussistere interpretazioni divergenti, e non esista una sintesi definitiva, anche perché ogni nuova generazione ne riscrive la storia partendo dalle preoccupazioni della propria epoca.
Un tema nodale del dibattito storiografico ha riguardato a lungo le cause della guerra. Nell’Ottocento si diede spesso per scontato che la causa principale del conflitto fosse stata la schiavitù e quindi l’atteggiamento oltranzista, criticato da prospettive opposte, degli abolizionisti e della classe dirigente sudista. La tesi della schiavitù come causa unica del conflitto fu riproposta dall’opera di J.F. Rhodes (History of the Civil War, 1897), che definì i termini di molta parte del dibattito successivo, rimuovendo i giudizi moralistici e avanzando l’ipotesi di un antagonismo tra le due sezioni del paese. A questa tesi si collega logicamente quella del conflitto irreprimibile fra due civiltà contrapposte in termini economici, politici e sociali, studiata in particolare da A.C. Cole (The Irrepressible Conflict, 1934). Un’interpretazione collaterale è quella secondo cui la causa vera della guerra non fu tanto la schiavitù nel sud, ma la possibilità che essa potesse espandersi nei territori dell’ovest non ancora costituitisi in stati, poiché erano in gioco non solo potenti interessi economici, ma anche l’equilibrio di forze in seno al Congresso fra stati schiavisti e non, che fino agli anni Cinquanta dell’Ottocento erano in pari numero. In tale interpretazione, avanzata all’epoca anche da K. Marx, ebbe grande importanza la posizione dei free soilers (E. Foner, Free Soil, Free Labor, Free Men, 1970). Di fatto comunque, nelle analisi sul conflitto irreprimibile, o sulla questione dei territori, o delle tariffe, e quindi delle esigenze della produzione agraria e industriale, gli aspetti economici sembrano centrali nelle origini della guerra, e si collegano a interpretazioni generali dello sviluppo statunitense nell’Ottocento.
Il generale Sherman
Invece alcuni studi sui limiti naturali della schiavitù e sulla possibilità che essa venisse spontaneamente eliminata verso la fine del secolo (fra cui la celebre opera di U.B. Phillips, American Negro Slavery, 1918), hanno aperto la strada alla storiografia revisionista, volta a dimostrare che il conflitto non era affatto inevitabile. Principale esponente di tale scuola è J.G. Randall (The Civil War and Reconstruction, 1936), secondo il quale le origini della guerra vanno ricercate soprattutto nei meccanismi decisionali delle sfere politiche, con il loro corollario di fanatismo, incomprensione e irragionevolezza. In tale contesto ebbe grande rilievo il decennio precedente la guerra, che vide una serie di faticose ricerche di compromesso nel Congresso, la nascita del Partito repubblicano su istanze contrarie all’estensione della schiavitù nei territori, la graduale scomparsa del partito Whig e la progressiva identificazione di quello democratico con gli interessi sudisti, con una conseguente radicalizzazione di posizioni congressuali e popolari.
Il generale James Longstreet
Un altro contributo revisionista fu quello di A.O. Craven (The Coming of The Civil War, 1942), secondo il quale la guerra civile rappresentò un crollo del processo democratico, perché l’immissione nel dibattito politico di questioni morali aveva drammatizzato conflitti reali, rendendone impossibile la risoluzione per via istituzionale. Vi sono poi stati tentativi di sintesi fra le due posizioni sulle origini della guerra (che riconoscono sia il divario economico e culturale fra le due sezioni del paese, sia gli errori politici), fra cui si ricordano soprattutto quelli di A. Nevins (The Ordeal of the Union, 1947 e The War for the Union, 1959-1971).
Un diverso approccio storiografico è quello che evita il dibattito sulle cause della guerra, e quindi sulla sua inevitabilità o meno, per concentrarsi invece sulle concrete modalità con cui il conflitto ebbe origine e si sviluppò. In tale ambito esiste una vasta gamma di studi: da quelli sugli aspetti politici e istituzionali della crisi a quelli, ovviamente importanti, di storia militare, a quelli che analizzano le trasformazioni tecnologiche e produttive connesse al conflitto, che è stato definito come il primo esempio di guerra totale. In anni più recenti è stata avanzata la tesi secondo cui il punto di svolta del conflitto fu il proclama di emancipazione del 1863, utilizzato come misura di guerra contro i ribelli (esso non toccava infatti gli stati schiavisti rimasti fedeli all’Unione), mentre lo scopo iniziale di Lincoln era stato la preservazione dell’Unione, anziché l’abolizione; un ampio dibattito storiografico si è incentrato proprio sulle posizioni di Lincoln prima e durante la guerra.


La battaglia di Yellow Tavern

In tal modo la schiavitù è ritornata al centro del dibattito come problema cruciale del periodo prebellico e questione di fondo della guerra, anche grazie al numero e alla qualità degli studi realizzati dagli anni Sessanta in poi. Tra questi hanno destato particolare scalpore quelli sulla redditività del sistema schiavistico di R.W. Fogel e S.L. Engerman (Time on the Cross, 1974). Occorre dire che le nuove metodologie della storia sociale hanno portato significative modifiche all’approccio degli storici a quel periodo, spostando l’attenzione sulle “persone comuni”: l’atteggiamento di gruppi diversi di bianchi (proprietari di schiavi e non nel sud, nativi e immigrati al nord ecc.), il ruolo dei neri nella crisi e la loro partecipazione nelle forze armate, le differenze esistenti all’interno dell’universo schiavista, le modificazioni portate dalla guerra all’interno delle due sezioni del paese, che appaiono sempre meno monolitiche nelle loro posizioni. Di conseguenza hanno sempre meno credito le interpretazioni celebratorie o nazionalistiche, o unidimensionali, mentre manca ancora una sintesi che accolga la nuova problematizzazione sul conflitto. Se è vero che i risultati più importanti della guerra furono la conservazione dell’Unione e l’abolizione della schiavitù, è altrettanto vero che il rafforzamento dello stato nazionale e la questione dei diritti civili dei neri aprirono la porta ad altri conflitti, seppure meno sanguinosi.
Nel novembre 1860 il candidato repubblicano Abraham Lincoln fu eletto con solo il 39,8% dei voti. Gli Stati del Sud, che avevano annunciato la loro secessione se Lincoln fosse stato eletto, vissero il fatto come una vera e propria dichiarazione di guerra e iniziarono subito un processo di secessione dall’Unione per formare gli Stati Confederati d’America. Un complotto per assassinare il nuovo presidente prima della sua investitura, preceduto da numerose lettere minatorie, venne scongiurato il 23 febbraio 1861 a Baltimora.
Lincoln era un abolizionista molto tiepido: più che altro, si opponeva all’espansione della schiavitù, e non aveva particolari sentimenti egualitari; anzi, uno dei maggiori difetti dello schiavismo era a suo parere la mescolanza che provocava fra bianchi e neri, e la quantità di mulatti che produceva, facilitando il concubinaggio. Lincoln, infatti, pensava anche, per risolvere il problema, alla deportazione di tutti i neri ad Haiti o in Africa, soluzione proposta da taluni.
Gli Stati Confederati d’America raggruppavano la Carolina del Sud, il Mississippi, la Florida, l’Alabama, la Georgia, la Louisiana, il Texas, la Virginia, l’Arkansas, il Tennessee e la Carolina del Nord.