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Il “figli del celeste impero” nel west

A cura di Luca Barbieri

Un immigrato cinese
“L’omicidio è punito dalla legge, signori, e su questo non ci piove. Ma qui è stato ammazzato un cinese e sui cinesi la legge non si pronuncia. Quindi dichiaro l’imputato innocente”.
Così sentenziò il giudice Roy “Whisky” Bean, seduto sul bancone del saloon di Langrty (Texas), sede del tribunale della città, nell’atto di giudicare il giovane irlandese che aveva freddato con un colpo di pistola un manovale cinese durante una lite. Le parole dell’ “uomo dai sette capestri” sono inequivocabili: di fatto la vita di un cinese valeva assai meno di quella di un cavallo, visto che per il furto di uno di questi animali la pena, in Texas, era l’impiccagione.
“Ma cosa diamine ci faceva un cinese nel Texas?”, potrebbe chiedersi un lettore magari alle prime armi con la storia della Frontiera americana.
La risposta a questa ipotetica domanda è che, di fatto, di cinesi nel West ce ne furono quasi più che in Cina: una colossale fiumana composta in gran parte da giovani maschi che dai porti della West Coast dilagò in quasi tutta la nazione, creando una sorta di “nuovo” Celeste Impero tiranneggiato dalle Tong (le arcinote organizzazioni criminali cinesi) invece che dall’imperatore. I mestieri che questa massa di disperati si trovava a fare avevano sempre le medesime caratteristiche: erano umili, pesanti e non di rado pericolosi. Gli immigrati lavoravano infatti come braccianti, minatori, lavandai, e, naturalmente, cuochi. I ristoranti cinesi cominciarono allora quella fortunata parabola che li porterà, ancora adesso, ad essere il maggior fornitore al mondo di cibo a basso costo. Al riguardo c’è una curiosa diceria: pare che i primi, “appetitosi” piatti serviti agli americani fossero composti da tutte le porcherie scartate dalle comunità cinesi, mescolate insieme in modo da confondere l’occhio e poi insaporite da pesanti spezie orientali per confondere anche il palato. Questi polpettoni piacquero parecchio e i cinesi continuarono a sfornarli, probabilmente ridacchiando sotto i baffi, che, peraltro, avevano piuttosto lunghi.


Spaccapietre cinesi al lavoro

I cinesi “americani” sono comunque passati alla storia soprattutto come operai della ferrovia, e cioè come braccia utili alla posa di quelle migliaia di chilometri di rotaie che permisero, nel 1869, ai viaggiatori di attraversare il continente (dall’Est fino alla California) in soli otto giorni, tempo impensabile fino a pochi anni prima. Fu Charles Crocker, della Central Pacific, ad avere l’idea di assumere operai cinesi, che lui definiva “tranquilli, pacifici, operosi” ma soprattutto “molto economici”, al posto dei turbolenti immigrati irlandesi che non gradivano affatto rompersi la schiena sui massicci della Sierra Nevada per una paga da fame. All’inizio ne vennero assunti solo una cinquantina, per lo più come lavandai e servitori domestici, poi vennero adibiti alla cavatura delle pietre e quindi al resto dei lavori, raggiungendo, per la sola Central Pacific, il numero di 14,000 anime. Di queste, 1200 rividero la propria terra sotto forma di un carico di quasi dieci tonnellate di ossa da seppellire, tutte ben stipate dentro enormi casse di legno. Nei contratti di lavoro degli immigrati cinesi veniva infatti usualmente inserita un’esplicita clausola che stabiliva che se fossero morti in America, i loro corpi avrebbero dovuto essere riportati in patria per le onoranze funebri entro dieci anni: i cinesi erano convinti che solo se le loro ossa fossero state sepolte nella terra natale il loro spirito avrebbe potuto riposare in pace. Parecchi di questi operai morirono sepolti dalle frequenti frane causate dalle esplosioni di dinamite sul fianco della montagna per aprire i fori delle gallerie, e spesso senza alcuna fatalità (si racconta infatti che i gravi attriti tra operai cinesi ed irlandesi spinsero questi ultimi a far detonare le cariche senza prima avvertire le squadre di lavoratori orientali più vicine), ma Dee Brown nel suo libro “Un fischio nella prateria” sottolinea che furono principalmente le malattie a decimare gli operai (di ogni razza), addirittura con una proporzione di quattro a uno, e la gran parte di queste furono contratte frequentando i bordelli che seguivano i cantieri ferroviari, sudici all’inverosimile. Riguardo agli operai cinesi di Crocker circola poi un gustoso aneddoto: con loro lavorarono per un po’ di tempo, attraverso il Nevada, anche un certo numero di indiani Shoshoni e Paiute.


Cinesi diretti al cantiere di lavoro

Questi ultimi avevano una gran passione per le storie fantastiche, e, un giorno, si divertirono a raccontare ai cinesi che nel deserto del Nevada vivevano serpenti così grandi e lunghi da riuscire ad inghiottire un uomo in un sol boccone. Di dragoni e serpenti i cinesi dovevano già averne le tasche piene dei loro, per cui, terrorizzati, cinquecento operai fuggirono a gambe levate durante la notte, direzione Sacramento. Ci vollero un sacco di tempo e decine di uomini a cavallo per recuperarli tutti e spiegare loro il cattivo gusto in fatto di scherzi dei Paiute.
Oltre le durissime condizioni di lavoro, poi, gli immigrati cinesi dovettero subire anche un vero e proprio odio razziale, come d’altronde attesta la bizzarra sentenza del giudice Bean precedentemente citata. Tra tutti i governi dei vari stati USA, fu quello californiano il più feroce ed intollerante nei loro confronti, con tutta probabilità a causa della massiccia presenza di immigrati nel paese (circa 71,000 nel 1870, metà dei quali nella sola S. Francisco), fatto che scatenò la rabbia di tutti i bianchi che temevano di non riuscire a reggere la concorrenza di una manodopera a basso prezzo e disposta a qualsiasi sacrificio.


Sfilata di cinesi nel Dakota

Nel decennio tra il 1860 e il 70 ci furono delle vere e proprie insurrezioni che sconvolsero S. Francisco e, come al solito, il prezzo della follia popolare ricadde sulla testa dei più poveri. Ma gli scoppi di violenza interessarono anche altri stati: all’interno della miniera di carbone di Rock Spring nel Wyoming, ad esempio, nel 1885 vennero ammazzati ventotto cinesi e fu addirittura necessario l’intervento delle truppe federali per proteggere i restanti dalla folla inferocita. Gli esempi di atti legislativi palesemente discriminatori nei confronti degli immigrati cinesi addirittura si sprecano: tra tutti cito i più importanti, e cioè il Foreign Miner’s Tax del 1854, il Chinese Police Tax Law del 1862, il Chinese Exclusion Act del 1882, oppure, ancora, la decisione del 1854 della Corte Suprema californiana nel caso di George Hall, con la quale si stabiliva seccamente che “i cinesi non potevano testimoniare in giudizio contro un uomo bianco, neppure se accusato di omicidio”. I giudici definirono, infatti, i cinesi “a race of people whom nature has marked as inferior, and who are incapable of progress or intellectual development beyond a certain point, as their history has shown” (Traducibile più o meno in questo modo: “Una razza che la Natura stessa ha indicato come inferiore, incapace di un reale progresso o di uno sviluppo intellettuale, come la loro stessa storia ci dimostra”; parole di una ottusità che sconcerta e che lascia trapelare un’enorme ignoranza storica ed antropologica). “Tra loro e noi” proseguono i giudici “la Natura ha segnato una differenza incolmabile”.


Un funerale in abiti tradizionali

D’altro canto si era già stabilito che le persone dalla pelle nera o rossa non potessero testimoniare contro uomini bianchi. Non c’era che da aggiungere un colore, il giallo, all’arcobaleno del razzismo americano. Paradossalmente la scarsa considerazione nella quale venivano tenuti questi piccoli ometti, mal vestiti, dall’accento stravagante e che si adattavano a fare ogni genere di mestiere, li facilitò nell’esecuzione di astuti stratagemmi come quello messo in atto da Lip Shee, un famoso giocatore d’azzardo che convinceva la gente a sedersi al suo tavolo, fingendo di essere un ingenuo tontolone un po’ alticcio entrato in possesso di una fortuna favolosa ereditata da un parente: naturalmente i “polli” da spennare erano coloro che accettavano di giocare con lui, convinti di fare la parte del leone. Anche un lavandaio chiamato “John John” (nomignolo in verità piuttosto comune per i cinesi), che veniva ignobilmente sfruttato dai minatori della comunità di Wearville, in California, i quali, approfittando del suo buon cuore e della sua gentilezza, gli facevano lavare i propri indumenti senza scucire un solo centesimo, dimostrò di essere astuto e scaltro come una faina. Nel giro di un anno, infatti, questo fantomatico “John John” divenne enormemente ricco: in che modo? Era stato sufficiente recuperare tutta la polvere d’oro che si era annidata nei risvolti dei vestiti che prendeva in consegna. E, buoni ultimi in questa speciali graduatoria, vengono i contabili cinesi che, sfruttando il fatto che per i bianchi loro erano “tutti uguali”, si facevano pagare dalla ferrovia più stipendi del dovuto, registrando nei libri paga operai inesistenti.
La comunità femminile
Il 3 marzo 1875 il Parlamento statunitense vara la Page Law e prende così ufficialmente una posizione di assoluto rigore nei confronti dell’immigrazione femminile proveniente dalla Cina: la legge, infatti, proibiva espressamente “the immigration of Chinese women for the purpose of prostitution”, e cioè l’immigrazione a scopo di prostituzione di donne cinesi su suolo americano. La necessità addirittura di una legge sull’argomento può sembrare assurda, visto che negli Stati Uniti immigravano ogni anno decine di migliaia di donne un po’ da tutto il mondo, molte delle quali finivano, volenti o nolenti, a fare le prostitute, ma assume tutt’altra sfumatura se guardata dal punto di vista giusto, e cioè quello di tagliare le gambe all’immigrazione cinese di massa, legalizzando un pretesto per rifiutare il visto d’ingresso.


Un gruppo di cinesi in un accampamento

La legge diventa limpida, cristallina, a questo punto, perché ogni nave proveniente dall’Oriente doveva essere ispezionata sotto la supervisione del collector del porto e se costui avesse avuto il sospetto che la nave potesse ospitare donne fatte immigrare per diventare prostitute aveva il diritto di rifiutare loro lo sbarco. Questo valeva anche se le donne in questione erano madri di famiglia accompagnate dai mariti, come dire, quindi, che veniva dato il diritto ai capi-porto di respingere intere famiglie di cinesi in base anche solo ad un vago sospetto. Questo atteggiamento rispecchia quello di una società interessata ad ospitare esclusivamente forza lavoro in cerca di occupazione (quindi uomini) senza consentire loro il diritto, concesso invece a tutti gli altri immigrati, a stabilirsi con moglie e figli nel Nuovo Mondo e a formare nuove comunità. Ci vorrà quasi un secolo (stiamo parlando della metà degli anni Sessanta) prima che la legge venga ufficialmente modificata dal Parlamento USA in seno a più ampie modifiche sulla normativa relativa all’immigrazione, e vengano così concessi alle donne cinesi gli stessi diritti di tutte le altre immigrate.


Pronti per una festa della comunità cinese

A onor del vero va però aggiunto a quanto detto finora che l’immigrazione cinese di fine Ottocento differiva da quelle di altri popoli in un aspetto fondamentale: le Tong (clan mafiosi cinesi) mantenevano un saldo controllo sull’ingresso negli USA dei loro compatrioti e non si facevano alcuno scrupolo nello sfruttare ignobilmente le donne. A S. Francisco si è calcolato che otto donne su dieci fossero costrette a prostituirsi, peraltro in condizioni di terribile schiavitù. Le ragazze senza la protezione di una famiglia alle spalle venivano sistematicamente obbligate a mettersi in vendita e questa situazione rappresentava un cancro purulento ben visibile sul corpo della nazione. La Page Law è probabilmente anche un tentativo di rimediare a questa emergenza. Anche.
In ogni caso i “commercianti di carne umana” cinesi erano davvero senza vergogna. La loro sfacciataggine li spingeva addirittura ad azzardare ardite forme di finanziamento: chi non aveva denaro contante con sé, poteva pagare il ruffiano di turno con oggetti di valore come attrezzi, ornamenti di abiti, fibbie di cintura e persino scarpe; ci pensava poi la comunità a trasformarli in denaro, rivendendoli in negozi di roba usata. E, a proposito di metodi poco ortodossi con i quali condurre i propri affari, l’ex ingegnere minerario Frank Whitfield (poi riciclatosi come rancher) raccontò di aver visto con i propri occhi un cinese, proprietario di un bordello, pagare un enorme minatore svedese per trasportare di peso i clienti dentro il suo locale, sottraendoli così alla concorrenza.
Una donna in abiti tradizionali
Il tempo ha inghiottito molte delle storie (a volte davvero terribili) di tutte queste donne, ma di una di loro ci resta qualcosa di più che un mero pugno d’ossa: “Yellow Doll”, la “Bambola Gialla” che seppe ricavarsi una nicchia di popolarità e successo tra i bordelli e i saloon di Deadwood. Di lei sappiamo che fu cantante e ballerina al Bella Union. Divenne famosa da subito, e dopo un anno di permanenza in città aveva già sufficiente fama, denaro e lusso da suscitare invidie e rancori, prova ne è il fatto che venne assassinata con un colpo d’ascia nell’Ottobre del 1877. Si parlò di un tentativo di furto finito male (“Yellow Doll” aveva gioielli costosi nascosti in casa che potevano fare gola a molti disperati) oppure di aspre gelosie fra saloon-girls, ma la spiegazione più convincente dell’omicidio sembra essere legata ai tentativi che la ragazza fece di interrompere i ripugnanti traffici d’oppio e di donne da parte dei suoi compatrioti, forse illusa dal ruolo di prestigio conquistato in seno alla comunità di Deadwood.
Ancor oggi, comunque, “Yellow Doll” viene commemorata nelle sfilate per le vie cittadine in occasione del capodanno cinese, impersonata, con quel pizzico di cattivo gusto tipico degli americani, da belle ragazze (bianche) vestite con abiti chiassosi e posticci.