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Il tesoro del west

A cura di Domenico Rizzi

Link dello speciale sul genere western: 1) Il tesoro del west, 2) Il trionfo della leggenda, 3) L’ascesa del western, 4) Il periodo d’oro, 5) Ombre rosa nella prateria, 6) Orizzonti sconfinati, 7) I sentieri del cinema, 8) Orizzonti sconfinati, 9) La quarta frontiera

I pionieri dell’avventura
Piero Pieroni, studioso entusiasta della Frontiera americana e autore di parecchie interessanti opere pubblicate in Italia diversi anni fa, curò un volume che tutti gli appassionati di letteratura western dovrebbero possedere.
Il libro, che ebbi la fortuna di rintracciare casualmente, in una veste ancora integra, presso una bancarella, si intitola “Il tesoro del West” e l’edizione originale risale al 1959. E’ una stupenda raccolta dei migliori classici della letteratura sull’argomento e seleziona racconti di Bill Gulick, Warner Bellah, Noel H. Loomis, Jack London e molti altri scrittori, un autentico compendio del meglio che sia stato scritto sulla leggendaria epopea del West. Sebbene il “western” sia un genere nel quale – a differenza, per esempio, del giallo e della fantascienza – il cinema ha avuto il sopravvento sulla carta stampata, esso contiene una ricchissima produzione letteraria che poche persone conoscono a fondo.
Diversi scrittori e giornalisti si cimentarono, fin dagli inizi del XIX secolo, nella stesura di romanzi e racconti dedicati alle fantastiche imprese dei “frontiersmen”, di sceriffi, banditi e Pellirosse, ma non tutte le loro opere guadagnarono notorietà al di fuori di un certo contesto locale.
Fra i primi narratori di “western” spicca senza dubbio il nome di James Fenimore Cooper, autore nel 1826 del celeberrimo “L’ultimo dei Mohicani”, preceduto da “I pionieri” (1823) e seguito da “La prateria” (pubblicato a Parigi nel 1826e negli USA l’anno seguente) “The Pathfinder” (1840) e “Il cacciatore di cervi” (1841)
“The Pathfinder”, del 1840
Il personaggio di Natty Boomppo, antesignano del “trapper” che vive a contatto con gli Indiani delle foreste, venne descritto dall’autore come un uomo “alto sei piedi con i suoi mocassini, magro e asciutto, occhi grigi, capelli color sabbia, bocca larga e folte sopracciglia” (“I pionieri”) ed è il perno intorno a cui ruota l’universo di Cooper. La sua Frontiera, raccontata con notevole ricchezza di particolari, è quella delle guerre coloniali anglo-francesi e dei pionieri avviati verso i territori occidentali, anche perché l’autore scomparve prima che venisse attuata la conquista del West vero e proprio. Infatti si spense nel 1851 il giorno dopo il suo sessantaduesimo compleanno a Cooperstown, Stato di New York, la città intitolata a suo padre. La letteratura del West si ispirerà a lui per decenni, tentando di riprodurre le emozionanti atmosfere del massacro di Fort William Henry o dell’inseguimento del perfido Magua attraverso la foresta.
“L’ultimo dei Mohicani” rappresenta, nel variegato panorama della letteratura americana d’avventura, la tipica opera improntata al romanticismo ed ai sani valori su cui sorgerà una nazione.
Il destino degli Indiani, riassunto nella carismatica figura del vecchio Chingakcook e di suo figlio Uncas, è guardato con la rassegnazione di chi conosce gli effetti ineluttabili dell’avanzata del progresso. Occhio di Falco, un Bianco allevato dai Mohicani, è una figura mitica ed al tempo stesso patetica, legata com’è al costume di una razza votata all’estinzione. Questa visione ideale dell’indigeno sopraffatto dall’invadenza degli Europei, subirà peraltro aspre critiche nella seconda metà dell’Ottocento da parte dei fautori dell’annientamento dei Pellirosse, che accuseranno impietosamente Cooper di “non avere mai conosciuto un Indiano da vicino”.
Lo scrittore affrontò anche tematiche diverse dal “western”, producendo una nutrita serie di romanzi, storie brevi e commedie (almeno 34) e di racconti ambientati in Inghilterra, Renania, a Venezia e sui mari, ma per tutti gli appassionati del genere resterà il padre di Uncas e Occhio di Falco, i personaggi de “L’ultimo dei Mohicani”.
L’Ultimo dei Mohicani
Anche “La lettera scarlatta” di Nathaniel Hawthorne, un altro classico della letteratura americana, benchè ambientato nell’America puritana del XVII secolo, riprodusse un contesto in cui gli Indiani rappresentano la minacciosa presenza che avrebbe caratterizzato centinaia di romanzi di un’epoca più avanzata e definiti propriamente “western”. L’epoca storica in cui si svolge è quella che precede la grande insurrezione di Metacomet (Re Filippo) il condottiero che avrebbe messo a ferro e fuoco le colonie britanniche nel 1675.
Fino alla metà dell’Ottocento, tuttavia, il genere “western” ebbe scarsa diffusione e venne classificato genericamente come “avventuroso”.
Pochi anni dopo apparvero, in numero sempre crescente, le cosidette “dime novels”, racconti d’avventura a basso costo (il “dime”, 10 centesimi di dollaro, indicava il prezzo della pubblicazione) preceduti di poco, in Inghilterra, dai “penny dreadful”, le storie che costavano soltanto un penny. Contraddistinte di solito da una copertina gialla, le “dime novels” americane narravano le gesta immaginarie di esploratori, sceriffi e banditi e incontrarono subito un discreto successo di pubblico. La prima di esse viene attribuita alla scrittrice Ann Sophia Stephens ed uscì nel 1860 con il titolo “Malaeska: the Indian Wife of the White Hunter”. Nel medesimo anno, Edward S. Ellis si segnalò con un buon racconto intitolato “Seth Jones. The Captives of the Frontier”.
Molti protagonisti di tali storie erano autentici personaggi della Frontiera, quali Daniel Boone, Davy Crockett, Kit Carson e Lewis Wetzel; altri, invece, vennero escogitati dalla fervida fantasia degli autori.
Una dime-novel famosa
Un tema particolarmente gradito al pubblico – con evidente riferimento a James F. Cooper – era quello dello “squaw-man”, l’uomo bianco cresciuto in un accampamento indiano e generalmente sposato ad una donna pellerossa. Anche il cinema si sarebbe ispirato, nei primi anni della sua apparizione, a questo soggetto, soprattutto con il film “The Squaw Man”, basato su una trama strappalacrime sviluppata dai registi Cecil B. De Mille e Oscar C. Apfel nel 1913 sulla traccia di un dramma di Edwin Milton Royle.
Non molto tempo dopo l’esordio della Stephens e di Ellis, l’attenzione dei lettori venne convogliata verso la patria dei mandriani, cominciando a narrare le imprese dei “cow-boys” e dei loro nemici tradizionali, razziatori e Pellirosse.
L’arrivo nel West di un discutibile personaggio che rispondeva al nome di Edward Z.C. Judson, ribattezzatosi Ned Buntline, diede notevole impulso alle storie d’avventura legate a figure autentiche della Frontiera.
Buntline, un pubblicista istigatore di violenti scioperi che avevano causato vittime nelle città dell’Est, era giunto a Fort Mc Pherson, nel Nebraska, per intervistare il popolare Wild Bill Hickok, temibile sceriffo e pacificatore delle “cow-towns” del Kansas. Non avendo ottenuto molto credito dall’originale personaggio, che lo accolse bruscamente, si rivolse ad alcuni degli amici di Hickok, soprattutto William F. Cody e John B. Omohundro, noti rispettivamente come Buffalo Bill e Texas Jack.
Il celebre abbattitore di bisonti gli ispirò la fortunata serie “Buffalo Bill Cody. King of the Border Men”, la cui prima puntata apparve sul “New York Weekly” alla fine del 1869. Più tardi, nel 1872, uscirà a Chicago anche “Scouts of the Prairie”, che immortalerà la coppia di “pards” Cody-Texas Jack, ispirando altre pubblicazioni del genere in Europa, Italia compresa, nel secolo successivo.
King of the Border Men
Intanto, circolavano già da tempo in America opuscoli che narravano le eccezionali gesta di Cristopher “Kit” Carson, come quello pubblicato da Charles Averill nel 1849, intitolato “Kit Carson, Prince of the Gold Hunters”. Mentre certi autori si sbizzarrivano ad inventare avventure non sempre credibili degli eroi della Frontiera, George Armstrong Custer narrava episodi veri della campagna contro Sioux, Cheyenne e Kiowa nelle Pianure Centrali, pubblicandole a puntate sul periodico “Galaxy” di New York. Nel 1876, subito dopo la tragica morte del generale, questo materiale autobiografico di esclusivo interesse sarebbe stato raccolto nell’opera “My Life On the Plains”, edita lo stesso anno e considerata ancora oggi un documento insostituibile nello studio delle guerre indiane.
Il West della seconda metà dell’Ottocento venne visitato dai personaggi più curiosi, spesso letterati di chiara fama o persone che avevano fatto parlare di sé per qualche iniziativa stravagante.
L’archeologo tedesco Heinrich Schliemann, alla disperata ricerca di fondi per finanziare gli scavi della città di Troia – una leggenda alla quale sembrava credere lui solo – partecipò nel 1850 alla corsa all’oro della California, realizzando buoni affari con i prestiti effettuati ai minatori, raccogliendo anche qualche accusa di strozzinaggio.
Lo scrittore scozzese Robert Louis Stevenson, invaghitosi della bella americana Fanny Osborne, che sposerà in California nel 1879, dedicò al West il romanzo “The Silverado Squatters”, pubblicato dopo il ritorno in patria nel 1883, lo stesso anno in cui venne dato alle stampe il suo capolavoro universalmente noto “L’isola del tesoro”.
Il gallese John Rowlands, approdato a New Orleans nel febbraio 1859, dopo avere cambiato il suo nome in quello di Henry Morton Stanley e partecipato alla guerra di secessione, nel 1867 divenne corrispondente e giornalista del “New York Herald”, il maggiore quotidiano americano del tempo. Durante i suoi viaggi attraverso la Frontiera selvaggia – fu presente al trattato di Medicine Lodge Creek nel ’67 e ad altri importanti eventi – tracciò, in una serie di articoli, interessanti ritratti delle terre occidentali in via di colonizzazione.
Nel 1872 lo scrittore Samuel Langhorne Clemens, conosciuto come Mark Twain, realizzò il romanzo semi-autobiografico “Roughing It”, ricavato dagli appunti di un viaggio compiuto attraverso il Wild West fino al Nevada, descrivendo il fascino del “Pony Express”, delle diligenze che attraversavano la prateria – a bordo delle quali Twain aveva realmente viaggiato – e dei “prospectors”, offrendo una testimonianza autentica della vita del West.
Les Trappeurs de l’Arkansas
Ma di maggiore richiamo erano le immaginarie storie scritte da autori, spesso di provenienza europea, approdati in America nel momento della sua maggiore spinta verso occidente.
Il parigino Olivier Gloux, che assunse lo pseudonimo di Gustave Aimard dopo avere fatto il giramondo fin dall’età di 12 anni, diventando poi “trapper” e cercatore d’oro, fu letteralmente contagiato dalla febbre del West e dai romanzi di James Fenimore Cooper. Intorno ai quarant’anni, sfoderò una serie di romanzi sul tema – “Les Trappeurs de l’Arkansas”, “Le fièvre d’or”, “Les Aventuriers”, “Les bandits de l’Arizona” – che trovarono molti lettori in Francia ed altrove. Si deve probabilmente a lui se la parola “apache” venne quasi sempre pronunciata alla francese (“apàsc”, anziché “apeci” come nella dizione inglese) nei film doppiati in Italia. Fra l’altro, l’influenza dei suoi scritti indusse una banda di ladri parigini ad assumere il nome di questa tribù indiana, che divenne così sinonimo di malfattore e vagabondo.
Nel 1879 Aimard pubblicò un’altra dozzina di opere “western” – fra le quali “Jim l’Indien” – unendo la propria firma a quella di un autore poco noto, Jules Berlioz D’Auriac, evidentemente per favorirne l’ascesa letteraria, ma l’esperto Simon Jeune dimostrò che le opere dei due scrittori avevano attinto ad autori americani di “dime novels” poco conosciute, rasentando addirittura il plagio.
La vita di Aimard proseguì comunque all’insegna dell’avventura: rifugiatosi in Sud America dopo la presa del potere da parte di Napoleone III, tornò in Francia all’inizio della guerra contro i Prussiani per mettersi addirittura alla testa di un reparto di volontari. Colto infine da pazzia, Gustave si spegnerà a Parigi nel 1883, all’età di 64 anni, lasciando, con i suoi libri, un valido contributo alla diffusione della cultura western in Europa.
Altrettanto importante il tedesco Karl Friedrich May, musicista, compositore e scrittore, vissuto fra il 1842 e il 1912. Figlio di tessitori, afflitto da bambino da seri problemi di salute – aveva la vista molto debole e soffriva di rachitismo – riuscì a diplomarsi maestro e a diventare docente, con uno stipendio che, ai suoi tempi, era assai modesto. Allontanato dall’insegnamento con l’accusa di furto di un orologio, commise altri reati minori e venne arrestato un paio di volte, ma proprio la permanenza in carcere stimolò la sua accesa fantasia di scrittore.
Winnetou, di Karl May
Dopo avere pubblicato nel 1875 il suo primo libro, che non raggiunse la notorietà, nel 1892 compose il romanzo “Winnetou I” – che lo rese assai popolare, ricompensandolo in parte delle amarezze sopportate in passato – scegliendo come protagonista un capo degli Apache Mescalero.
In seguito fece uscire altre opere del medesimo genere – “Il tesoro del lago d’argento”, “Le avventure di Mano di Ferro”, “I figli del sole” – utilizzando spesso pseudonimi tedeschi o ispanici. Dai suoi migliori romanzi, vennero ricavati, negli Anni Sessanta del Novecento, alcuni films di produzione germanica, classificati come “B Movies” per la semplicità delle trame ed interpretati dall’attore americano Lex Barker.
May si decise a visitare gli Stati Uniti soltanto nel 1808, pochi anni prima della morte, ma la sua escursione si limitò alle aree orientali del paese – forse non andò oltre la città di Buffalo – senza mai toccare le regioni del West in cui aveva ambientato le proprie opere.
Un altro europeo, irlandese di origine, attratto dalla passione del West fu Thomas Mayne Reid, inizialmente destinato dal padre alla carriera ecclesiastica. Nel 1839, all’età di 21 anni, interruppe gli studi per trasferirsi a New Orleans e successivamente a New York, dove avviò la produzione e il commercio di cereali.
The Boy Hunters
Emigrato a Saint Louis, Missouri, dopo tre anni, si aggregò ad una compagnia diretta alle Montagne Rocciose, per tornare poi a Philadelphia ad assumere l’incarico di giornalista.
Fortemente attratto dalla vita avventurosa, nell’ottobre 1846, allo scoppio della guerra con il Messico, Reid si arruolò nel Primo Reggimento Volontari di New York con il grado di secondo luogotenente, combattendo a Chapultepec, dove venne ferito e meritò un avanzamento di grado a primo tenente. In seguito amerà farsi chiamare “capitano”, senza avere mai effettivamente ottenuto tale brevetto.
Al termine di altre imprese militari compiute in Europa, però con l’uniforme dell’esercito britannico, si stabilì a Londra e nel 1850 pubblicò il suo primo romanzo, “The Rifle Rangers”, seguito un anno dopo da “I cacciatori di scalpi” e poi da nuove pubblicazioni, fra le quali fanno spicco “The Desert Home”, “The Boy Hunters”, “The White Chief”, “Oceola” e molte altre, ambientate anche in Sud Africa, Giamaica e sulle montagne dell’Himalaya.
Come faranno Karl May e più tardi l’italiano Emilio Salgari, Mayne Reid non pose limiti storico-geografici al campo d’azione delle sue storie, segnalandosi tuttavia per i romanzi sul West, un ambiente che descrisse con tratti appassionati e convincenti, immedesimandosi nella selvaggia realtà delle praterie e dei deserti nordamericani.
Coetaneo del francese Aimard, si spense esattamente quattro mesi dopo di lui, lasciando nella storia della letteratura “western” un’impronta significativa, che avrebbe influenzato gli autori del periodo successivo.

Segue con Il trionfo della frontiera