Chi “Ha Paura Dei Suoi Cavalli”? I nomi tra i Lakota

A cura di Anna Maria Paoluzzi

I nomi indiani, specie quelli dei Lakota (Teton Sioux), così straordinariamente affascinanti ed evocativi troppo spesso nelle traduzioni inglesi (e di riflesso, anche in quelle italiane) sono stati oggetto di interpretazioni errate e fuorvianti. Nel caso particolare della letteratura sui nativi americani in italiano va anche aggiunto il fatto che, a parte poche eccezioni, non c’è uno standard unico per la traduzione di questi nomi e talvolta agli inizi è difficile orientarsi per comprendere l’identità di un personaggio.
L’interpretazione errata di un nome, oltre a pregiudicare la comprensione da parte dei lettori di un testo storico o antropologico, in un certo senso snatura anche l’essenza del personaggio, considerando il valore sacro che il nome personale possedeva e ancora possiede nella società Lakota.

Ritualità nell’assegnazione del nome nella società tradizionale Lakota

Ma come si assegnava un nome tra i Lakota? La questione era assai delicata: il nome era considerato sacro, tanto da portare al tabù di non pronunciarlo nei rapporti interpersonali: si preferiva apostrofarsi a vicenda con appellativi di parentela come “cugino” (tanhanši), “nonno” (tunkašila) nomi comuni quali “amico” (kola), “amica” (maške) o addirittura eliminare del tutto i vocativi piuttosto che pronunciare il nome proprio (1). Dare un nome a un bambino costituiva perciò un avvenimento determinante per l’intera famiglia, anche se, come vedremo in seguito, la cosa non aveva carattere definitivo perché si poteva cambiar nome diverse volte nel corso della propria vita.
Il primo nome del neonato veniva deciso dai genitori o da un parente anziano: la scelta in genere cadeva sul nome di uno dei nonni ancora in vita, oppure su quello di un parente anziano già morto e la cui memoria continuava ad essere oggetto di venerazione nel tiwahe (gruppo familiare legato da vincoli di sangue). Un’alternativa attuabile sia per i bambini che per le bambine era una frase legata a un’impresa di guerra o a un fatto per cui il padre si era guadagnato onori e gloria all’interno della tribù. Una volta scelto il nome, un “araldo” veniva incaricato di comunicarlo al villaggio e all’annuncio si accompagnava il dono di un cavallo a una famiglia povera del villaggio, che in cambio contraccambiava con l’augurio che il bimbo arrivasse sano e forte al momento in cui gli sarebbero stati praticati i fori alle orecchie, cosa che veniva praticata in occasione di solenni cerimonie religiose come la Danza del Sole e per cui si aspettava che il bimbo fosse in grado di camminare da sé. Se, per un motivo qualunque, non si fosse riusciti a bucare le orecchie di un bimbo, la situazione era considerata un presagio infausto per il piccolo e la sua famiglia (2).
Questo per il nome ufficiale. Alcune famiglie sceglievano di dare ai neonati maschi (mai alle femmine) un nome winkte , ossia un nome assegnato dai travestiti del villaggio, considerati persone “sacre” (wakan) e come tali rispettati e scansati al tempo stesso. Il padre del bambino si recava da un winkte e, simulando uno scherzoso corteggiamento accompagnato da un dono, si faceva dare un nome speciale per il proprio bambino che gli avrebbe assicurato salute e lunga vita. I nomi assegnati dai winkte avevano spesso significati o valenze oscene e per questo si evitava di pronunciarli o persino di renderli noti. Si dice che famosi Lakota come Tatanka Iyotanke (Toro Seduto) e Tašunke Witko (Cavallo Pazzo) avessero dei nomi winkte, ma per i motivi già citati, non ci sono pervenuti. Quest’usanza ha tra l’altro dato vita a un’interpretazione errata i cui sostenitori asseriscono che questi personaggi avessero dei travestiti tra le loro mogli – l’assoluta infondatezza di tale affermazione è dimostrata dalla credenza Lakota secondo cui avere relazioni sessuali con i winkte portasse cattiva sorte in questo mondo e nell’altro.
Sia gli uomini che le donne potevano cambiare più volte il proprio nome nel corso della loro esistenza.
Per quanto riguarda i nomi dei defunti, anche se parlare di persone decedute era considerato sconveniente, non c’era però il divieto di pronunciarne i nomi, cosa che poteva capitare spesso considerato che, nei calendari (o “cronache degli inverni”, winter count ) dei Dakota/Lakota, si dava spesso i nomi agli anni in base al decesso di un famoso personaggio. In questo modo, si poteva tranquillamente affermare di essere nati “nell’anno in cui uccisero Coda Chiazzata” (Sinte Gleska ktepi waniyetu), senza temere di mancar di rispetto al capo ucciso, pronunciandone il nome.

Struttura dei nomi personali in Lakota – Nomi e soprannomi maschili

Una classificazione abbastanza esaustiva dei nomi Dakota/Lakota è riportata in Being Dakota: Tales and Traditions of the Sisseton and Wahpeton di Amos Enos Oneroad e Alanson Skinner. In quest’opera, i nomi personali Lakota/Dakota vengono distinti in otto diverse tipologie:

1. Nomi che includono un numerale ordinale come Winona (“Figlia primogenita”)
2. Nomi formati da un singolo nome (es. Mahpiya “Nuvola” o “Cielo”)
3. Nomi formati da un singolo aggettivo (es. Cikala “Piccolo”)
4. Nomi formati da un nome e un aggettivo (in Lakota l’aggettivo segue sempre il nome) – questi sono i più comuni di tutti (es. Mahpiya Luta “Nuvola Rossa”, Hehaka Sapa “Alce Nero”)
5. Nomi formati da due nomi (es. Mato Tatanka “Orso Toro”, Šunka Kangi “Cane Corvo”)
6. Costruzioni formate da possessivo + nome/aggettivo (es. Taoyateduta “Il Suo Popolo Rosso”, nome personale del capo noto come Little Crow/Piccolo Corvo o Waši?? Tašunke “Uomo Bianco -il Suo Cavallo” , più conosciuto come American Horse/Cavallo Americano).
7. Nomi composti da un intera frase (es. Wanapeya “Fa Scappare”, Tašunke Kokipapi “Temono il Suo Cavallo”.
8. Nomi modificati da un verbo (es. Hehaka Mani “Alce Che Cammina” e nomi modificati da un verbo e un aggettivo Oehan San Mani “Gru Bianca Che Cammina”)
UN bambino cresceva quindi con il nome datogli dalla sua famiglia; nei giochi e nelle relazioni quotidiane, questo nome non veniva tuttavia pronunciato e spesso lo si sostituiva con un soprannome. Se un ragazzo si faceva particolarmente notare (nel bene e nel male) durante le sue prime imprese militari, gli veniva assegnato un nuovo nome, che poteva esser basato su una delle sue gesta personali, ma poteva anche essere quello di suo padre o di un parente appena deceduto. Nel caso dell’acquisizione del nome paterno non era vista come condizione necessaria la morte del genitore: Il padre, anche dopo aver dato il nome al figlio, poteva conservare il proprio e in questo caso al nome del figlio veniva aggiunto l’aggettivo cikala come ad esempio nel caso di Sinte Gleska Cikala , “Coda Chiazzata il Piccolo/il Giovane”, figlio maggiore del grande capo Sicangu (Brulé) . Talvolta, per distinguere i padri dai figli, si ricorreva a soprannomi come accadde a Tašunke Witko (Cavallo Pazzo il Vecchio, “Old Man Crazy Horse”com’è definito in alcune fonti americane) che, dopo aver dato il proprio nome al più celebre figlio, venne generalmente chiamato con il soprannome di Waglula (Verme). Un altro caso affine a quelli elencati sopra è quello del nome del personaggio citato nel titolo e di suo figlio: i capi della banda Hunkpatila/Payabya Tašunke Kokipapi. Questi capi, il cui nome inglese suona “Afraid of His Horse(s)”, sono stati poi differenziati come “Old Man Afraid Of His Horse(s)” e “Young Man Afraid of His Horse(s)”. Il participio inglese “afraid”, può essere riferito sia a un soggetto singolare (“Impaurito”) che a uno plurale (“Impauriti”). In alcune traduzioni italiane purtroppo si è optato decisamente per la prima interpretazione e il nome è stato quindi tradotto come “Vecchio/Giovane Che Teme I(l) Propri(o) Cavallo/i”, un fatto decisamente in contraddizione con la fama di valorosi guerrieri di cui godevano entrambi i capi.
Esaminando il nome nell’originale Lakota, la fallacità di quest’interpretazione diventa evidente: il suffisso verbale pi è marcatore di plurale e kokipapi è in effetti la terza persona plurale del verbo “temere”, “essi/e temono”. Non è perciò chi porta il nome a temere il proprio cavallo, bensì un soggetto di terza persona plurale indefinito, evidentemente da identificare con nemici e avversari (3).


I due Temono il Suo Cavallo, padre e figlio (foto realizzata intorno al 1885)

Un’abitudine diffusa tra i Lakota, a cui non sfuggivano nemmeno personaggi illustri come quelli precedentemente citati, era quella di assegnare soprannomi e nomignoli. Tale abitudine era dovuta in parte al tabù circa l’uso diretto dei nomi personali, in parte alla passione per lo scherzo e le prese in giro. Era addirittura più facile per un Lakota essere conosciuto più con il proprio nomignolo che col vero nome, come fece rilevare una volta Coda Chiazzata a un funzionario bianco incaricato di redigere un suo affidavit: per i bianchi il capo Sicangu, che da ragazzo aveva portato il nome di Tatanka Napsi?a (“Bisonte che Salta), era effettivamente Spotted Tail/Coda Chiazzata (Sinte Gleska) , ma la maggior parte della sua gente lo conosceva come Winyan Obwoklaka “Parla Con Le Donne”, un soprannome riferito alla sua abilità nell’avvicinare e intrattenere, in modo più o meno intimo, le giovani della tribù (4).


Coda Chiazzata ritratto nel 1880

Sempre a proposito di soprannomi, i due Tašunke Kokipapi non furono risparmiati dall’usanza di vedersi attribuire un nomignolo più o meno azzeccato: il vecchio Temono I Suoi Cavalli era infatti conosciuto come Kapojela , “Leggero, Scarno, Senza Peso” (ed effettivamente, dalle foto che di lui ci sono rimaste, ci appare come non particolarmente robusto); il figlio invece era noto come Winoh?a “Donna Pazza”, riferito per un verso alla battaglia di Crazy Woman Creek (“Il Torrente della Donna Pazza”) dove il prode guerriero si era distinto, anche se il significato traslato del nome (per i Lakota, la “pazzia” nelle donne indica una certa dissolutezza di costumi) lascia trapelare un’ombra di malignità. Del resto, il grande Toro Seduto, Tatanka Iyotanke, da ragazzo era stato soprannominato Hunkešni “Lento”, il capo della banda Oglala dei Kiyuksa Taopi Cikala (“Piccola Ferita”) era noto tra i suoi compagni come “Faccia Gonfia”, il leader dei True Oglala Waši?? Tašunke (“Cavallo Americano” o meglio “Cavallo dell’Uomo Bianco”) da ragazzo veniva chiamato con il nomignolo Manišni (“Non cammina”) e via dicendo (5).

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